SCUDI UMANI, QUANDO SI PERDE IL DIRITTO ALLA VITA da IL MANIFESTO
Scudi umani, quando si perde il diritto alla vita
Mondi ostili Intorno all’ultimo libro di Neve Gordon e Nicola Perugini che, in un viaggio cronologico, rintracciano «una storia dei corpi sulla linea del fuoco» (Laterza)
Chiara Cruciati 30/03/2025
Nel 1936 Benito Mussolini scrisse una lettera al presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa, Max Huber, in risposta a una missiva con cui l’organizzazione chiedeva che l’aviazione italiana smettesse di bombardare i suoi ospedali in Etiopia: «Le norme stabilite dalle Convenzioni di Ginevra vietano l’uso del simbolo per scopi illegali, in particolare legati alla guerra», rispose il capo del fascismo.
Da mesi giornali e regime accusavano i combattenti etiopi di nascondersi nelle cliniche e fare dei presidi medici la base di attacco alle truppe italiane. Un secolo dopo la narrazione non è cambiata: gli ospedali sono presi di mira in Siria, in Ucraina, e con una frequenza senza precedenti a Gaza. La giustificazione è la stessa: il nemico usa quei presidi come protezione e i civili al loro interno come scudi umani.
È intorno a una figura antichissima che Neve Gordon e Nicola Perugini hanno costruito il loro ultimo lavoro, Scudi umani. Una storia dei corpi sulla linea del fuoco (pp. 280, euro 20), edito da Laterza. Professore di diritti umani e diritto internazionale alla Queen Mary University di Londra il primo, antropologo politico e docente di relazioni internazionali a Edimburgo il secondo, i due autori offrono una prospettiva scarsamente indagata con cui comprendere la guerra: uno sguardo apparentemente periferico in grado di svelare l’evoluzione legale e morale delle imprese belliche e del diritto durante i conflitti.
DIVISO IN CAPITOLI che intrecciano storia, sociologia, antropologia e diritto, il libro è un viaggio: seguendo una linea cronologica le pratiche militari sono studiate con una chiave precisa, l’etica della violenza e la legittimità dell’uso dei corpi come arma, militare e legale. E lo fa, elemento più potente del testo, sulla base dell’analisi decoloniale: dal settimo secolo quando emergono le prime testimonianze di scudi umani usati dai militari cinesi alle crociate del XII secolo, dalla guerra civile americana alla colonizzazione europea, i corpi dei civili svelano le linee della diseguaglianza tra esseri umani e i tentativi mai sopiti di legittimare la violenza contro soggetti teoricamente protetti.
È l’incontro-scontro tra due termini e due piani: lo scudo, ovvero il mondo militare, e l’umano, quello civile, si fondono per dare vita a una gerarchia piramidale della sopravvivenza, chi ne ha diritto e chi non ce l’ha. Chi è più umano e chi lo è meno. Chi è sacrificabile e chi non lo è per la sua razza, la sua classe, il suo genere, la sua religione. Se il termine «umano», scrivono i due autori, dovrebbe essere deterrente alla violenza, renderlo aggettivo e sottoporlo al concetto dominante dello scudo svuota la parola del suo significato, la rende vulnerabile e dunque potenzialmente sacrificabile. O, al contrario, degna di essere salvata.
È IL CASO DELL’USO che degli scudi umani viene fatto fino al Novecento. Gordon e Perugini inaugurano il loro viaggio con la guerra civile americana e la decisione dei sudisti di «alloggiare» prigionieri «in una parte della città occupata dai civili − scrive in una lettera il generale Jones al generale nordista Forster − È tuttavia doveroso informarla che da molti mesi questo distretto viene bombardato dai vostri cannoni».
Sull’altro lato dell’Atlantico, con la guerra franco-prussiana del 1870 nobili dignitari, cittadini considerati «superiori», vengono legati alle locomotive nella Francia occupata per impedire che i franchi tiratori assaltassero i treni. In entrambi i casi, lo scudo umano è un soggetto che il nemico considera un suo eguale, un soggetto degno di essere salvato: ufficiali fatti prigionieri, nobili, dignitari sono esseri umani la cui vita vale abbastanza da non metterla in pericolo.
Sta lì, nel contestuale e reciproco riconoscimento del valore di certe vite, che sta il ruolo dello scudo. Una consapevolezza che avrebbe generato in futuro anche paradossi, scrivono Gordon e Perugini, nella prima guerra del Golfo con le carovane pacifiste, nelle azioni di Greenpeace, nelle piazze di Black Lives Matter dove viene traslata in contesti civili una violenza di polizia militarizzata: «L’uso di scudi umani agisce su due piani: il corpo dei civili e la percezione sociale dei civili da parte dell’opinione pubblica. Il corpo di uno scudo umano − spesso quello di un cittadino privilegiato − corre incontro a dei rischi quando mette in pratica una strategia di protezione e resistenza, ma la percezione dello scudo, che evidentemente ha un valore maggiore delle persone che protegge, può finire per rafforzare il sistema di oppressione esistente». Insomma, sono in grado di difenderti perché la mia vita vale di più agli occhi dell’autorità.
Le pratiche di guerra tra fine Ottocento e inizio Novecento saranno l’humus di un dibattito sempre più largo sulla legittimità dell’uso di scudi umani e nei decenni a seguire costringeranno a rivisitare il diritto internazionale che uscirà stravolto dalle atrocità della seconda guerra mondiale.
Sta lì, negli anni tra i due grandi conflitti, la linea di faglia che segna il prima e il dopo nella storia degli scudi umani, il momento in cui la definizione giuridica dello scudo assume il ruolo di frontiera immaginaria, confine tra belligeranti e soggetti protetti.
È LA FAGLIA che svela come il diritto bellico, in apparenza pensato per imporre linee rosse invalicabili e limitare la violenza, sia in realtà l’impalcatura che la facilita. Perché è in quegli anni, proseguono i due autori, che si assiste al passaggio dallo scudo umano bianco allo scudo umano non bianco. Se il diritto internazionale riconoscerà solo negli anni Settanta l’«umanità» dei popoli colonizzati e allargherà loro le protezioni riconosciute ai civili in tempo di guerra, la trasformazione del conflitto e del campo di battaglia accompagna la nuova percezione dello scudo umano e di conseguenza la sua definizione giuridica: si passa dallo scudo umano involontario (il dignitario legato a una locomotiva, il soldato alloggiato in un quartiere sensibile) allo scudo umano per prossimità, la cui uccisione non è più responsabilità di chi la morte la cagiona ma di chi in quella prossimità combatte.
CON LE GUERRE di liberazione dal colonialismo, con il feroce conflitto vietnamita e con le invasioni occidentali in Medio Oriente, la guerra cambia: scompare il campo di battaglia tradizionale, si passa a quello che Gordon e Perugini chiamano «spazio di battaglia» e diviene prevalente il confronto tra soggetti non paritari. Non più eserciti che si fronteggiano, ma un esercito statale che combatte resistenze, guerriglie, gruppi armati irregolari.
Se gli scudi umani volontari (pacifisti, ecologisti, attivisti per la giustizia sociale) scelgono spontaneamente di mettere i propri corpi sulla linea del fronte a difesa del più debole e se quelli involontari sono costretti dai belligeranti, gli scudi umani per prossimità sono tali senza agire, senza far nulla, sono tali per il solo fatto di essere «vicini» a obiettivi sensibili. Non sono attivi né passivi, sono scudi per il solo fatto di esistere in un determinato luogo, in un determinato tempo. Non è un singolo individuo, è una collettività. È una città intera, come Mosul, è un popolo intero come Gaza.
È in questa definizione offuscata e priva di margini che lo scudo umano − non più bianco − perde il diritto alla vita. È sul suo corpo, scrivono i due autori, che infuria la battaglia più complessa, quella morale e giuridica: chi li colpisce non riconosce loro le protezioni che ai civili sono attribuite dal diritto internazionale perché, per colpa loro o del nemico, esistono nello spazio della battaglia.
ESPLODE la contraddizione intrinseca del diritto internazionale e il suo sguardo coloniale che si fonda su quella che Gordon e Perugini definiscono «geografia politica» degli scudi umani: la cittadinanza di Tel Aviv non è scudo umano pur vivendo in mezzo alle sedi dell’esercito e dell’intelligence costruite nel cuore della città; scudo umano è la popolazione di Gaza, e tutti i popoli colonizzati o ex colonizzati. La linea del colore diviene fattore determinante per stabilire il livello di umanità di un soggetto, la moralità della violenza su di lui esercitata e la legittimità di chi la esercita: il corpo dello scudo umano è la distinzione occidentale tra barbarie e civiltà.
È la stessa narrazione che si ritrova da ormai un anno e mezzo nelle dichiarazioni pubbliche dei vertici israeliani, il confronto tra luce e buio, tra superiori e inferiori. Una «superiorità» che sta avallando il crimine dei crimini: a Gaza, per la prima volta nella storia, l’etichetta di scudi umani è affibbiata a un popolo intero, aprendo la strada alla sua «distruzione, in tutto o in parte». Al genocidio.
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