ROMA: “FERMIAMO QUESTO GENOCIDIO”. MILLE ORGANIZZAZIONI CON IL SUDAFRICA da IL MANIFESTO
«Fermiamo questo genocidio». Roma in piazza per Gaza
FORZA PALESTINA. Oltre 120 le iniziative in 45 paesi del mondo per chiedere di far tacere le armi e garantire aiuti umanitari alla Striscia. La richiesta al governo italiano: interrompere le relazioni politiche con Israele
Federica Rossi, Roma 14/01/2023
«Attraverso la mia arte voglio mostrare al resto del mondo cosa accade dentro Gaza», dice Yasmin Al-Jarba, artista e studentessa, durante la giornata di iniziative per la Palestina che al Forte Prenestino è organizzate da Yalla Roma, Gaza Freestyle e Bds. Sono oltre 120 le città, di 45 paesi del mondo, in cui cortei, presidi, performance e dibattiti scandiscono la solidarietà con la popolazione di Gaza sotto le bombe israeliane.
YASMIN AL-JARBA è arrivata in Italia dal campo di Al-Burj con una borsa di studio sei giorni prima dell’attacco di Hamas. Con un murales, una foto o un dipinto racconta la sua terra, vuole mostrare all’Occidente la realtà dei territori occupati.
«Se i bianchi vedessero anche solo per un giorno come è costretto a vivere un palestinese forse si renderebbero conto che ciò che dice Israele perde senso», dice durante il corteo che attraversa la capitale nel pomeriggio Karim Thib. Fa parte del movimento degli studenti palestinesi, tra gli organizzatori della mobilitazione insieme all’Unione democratica arabo palestinese, l’Associazione dei palestinesi in Italia e altre sigle. La marcia raccoglie migliaia di persone e parte dai Fori Imperiali. Chiede di porre fine al massacro nella Striscia e all’occupazione israeliana. «Non abbiamo più bisogno di iniziative di raccolta fondi, non è il tipo di aiuto che interrompe la guerra», dicono dal camion.
LA RIFLESSIONE sul ruolo dell’Occidente nei bombardamenti che da cento giorni stanno radendo al suolo Gaza è il filo rosso delle iniziative che dalla periferia Est arrivano al centro. Come nelle altre piazze del mondo si chiede il cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti umanitari e sanitari, in più si invita il governo italiano a interrompere le relazioni politiche, economiche e militari con Israele. «Ma non possiamo illuderci che il cambiamento lo facciano i governi o le organizzazioni internazionali. Altrimenti avrebbero risolto il problema decenni fa. La lotta dobbiamo e possiamo farla tutti», sottolineano gli attivisti.
Karim Thib ricorda che il silenzio, se non la complicità, dell’Occidente rischia di sdoganare un doppio standard, del resto già evidente guardando al trattamento riservato agli ucraini rispetto ai palestinesi: «Dobbiamo interrompere questo genocidio perché non farlo significa riconoscere che un popolo vale meno di un altro».
IL CORTEO SI MUOVE verso Cavour, spinto dal sole in fondo alla strada e dalle voci dei palestinesi di seconda generazione. «Non abbiamo intenzione di dimenticare quello che è successo in questi giorni, né nei 75 anni precedenti in cui siamo stati oppressi e schiacciati», sostengono gli studenti palestinesi. La storia della questione israelo-palestinese e la realtà sul campo sono gli strumenti che usano gli attivisti per contestualizzare la situazione drammatica che si vive in queste settimane.
«Come può sostenere Israele di essere vittima di un genocidio quando in 75 anni tra dispersi, prigionieri, feriti, ha ucciso migliaia di persone? Quando con le sue politiche di colonizzazione ha strappato il territorio palmo dopo palmo a un altro popolo? – continua Thib – Le parole sono il nostro strumento per abbattere i muri e cambiare il pensiero».
UN’INTERPRETE della lingua dei segni traduce i discorsi per chi non può sentire «perché la voce del popolo deve arrivare a tutti e non vogliamo lasciare nessuna indietro», spiega Maya Issa, presidente del movimento degli studenti palestinesi. Dal microfono vengono poste domande a cui gli stessi partecipanti alla marcia rispondono, gridando all’unisono il significato della propria presenza e della piazza.
APARTHEID è una delle parole che ricorrono più spesso a Roma ma anche negli altri cortei. Non è una parola casuale perché serve a segnalare il legame con quello che sta avvenendo alla corte dell’Aja. «Il Sudafrica – ricordano ancora i manifestanti – sa cos’è l’apartheid e il fascismo. A prescindere dal risultato, siamo grati a quel paese per non averci lasciati soli».
Mille organizzazioni con il Sudafrica. L’Europa si spacca in due
NON SOLO GLI STATI. Tante realtà a sostegno del processo a L’Aja. Spagna, Belgio e Irlanda le voci più critiche verso Tel Aviv. Ma per ora non aderiscono
Andrea Valdambrini 14/01/2023
Più di mille organizzazioni, partiti, sindacati e movimenti in tutto il mondo che hanno espresso il loro sostegno al Sudafrica nella causa intentata contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia de l’Aja (Icj). Le organizzazioni si esprimono attraverso un appello congiunto ai Paesi che non appoggiano la richiesta di Pretoria per «dare forza alla denuncia formulata con forza e con buone argomentazioni».
È questo «il modo per assicurare che ogni azione di genocidio venga fermata e i responsabili possano essere assicurati alla giustizia», si legge nel testo firmato da sigle americane come il MalcolmX Center, britanniche come la Human Righs Commission e il Critical Studies of Zionism, ma anche spagnole, belghe, francesi e tedesche.
E non manca l’adesione di un gruppo sudafricano come il South African Jews for Free Palestine (Sajfp). Per l’Italia – defilata, almeno nei numeri – aderiscono Medicina democratica, l’Associazione di amicizia Italia-Cuba e la sezione nazionale della Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf).
FORMALMENTE, l’azione all’Aja del governo sudafricano è stata appoggiata dai 57 paesi dell’Organizzazione di Cooperazione islamica – che comprende l’Egitto, ma anche l’Albania – così come Turchia, Bolivia, Malaysia, Maldive, Namibia e Pakistan. Più complicato il discorso sui paesi europei, sia intesi singolarmente, che come stati membri dell’Ue.
Ma tra i 27 i distinguo non sono mancati. Al gruppo dei pro-Israele senza se e senza ma, guidato da Berlino, ha fatto da controcanto un’azione diplomatica di segno opposto portata avanti da Spagna e Belgio, i due paesi che hanno ricoperto l’incarico di presidenza rotante del Consiglio dei ministri Ue nell’ultimo semestre dello scorso anno (Madrid) e in quello attuale (Bruxelles).
Nel caso spagnolo è arrivato martedì scorso dalla leader di Podemos Ione Belarra un invito a Pedro Sanchez a sostenere il «coraggio» del Sudafrica nella causa all’Aja: una lettera ufficiale a governo e ministro degli esteri di Madrid e l’annuncio di una richiesta di dibattito parlamentare. D’altronde il premier socialista spagnolo non ha mancato in passato di criticare duramente il governo Netanyahu per il mancato rispetto del diritto internazionale.
Ancora più dirette le parole di Petra de Sutter, vicepremier belga ed esponente dei Verdi, che ha dichiarato di volersi spendere nel governo – di ampia coalizione a sette partiti, guidato dal liberale Alexander De Croo – per schierarlo dalla parte del Sudafrica contro la minaccia di genocidio. In precedenza, De Sutter aveva sostenuto la necessità di boicottare Tel Aviv, anche imponendo sanzioni commerciali e sottolineando come «bombardare Gaza a pioggia è disumano, ma Israele ignora con tutta evidenza qualsiasi richiesta di cessate il fuoco».
È POLEMICA invece in Irlanda, tradizionalmente sostenitore della causa palestinese, dove il premier Leo Varadkar, leader del partito liberal-conservatore Fine Gael, ha escluso che Dublino possa appoggiare Pretoria alla Corte dell’Aja, sottolineando la necessità di usare con cautela il termine «genocidio».
Ragion per cui, diversi partiti di opposizione della sinistra, tra cui Sinn Fein e Labour Party lo hanno accusato di «inaccettabile assenza di coraggio». A nulla sembra valsa però la loro protesta, né l’editoriale apparso mercoledì scorso sul quotidiano Irish Times, dalle cui colonne il professor Maeve O’Rourke, del Centro per i Diritti umani dell’Università di Galway ha scritto: «I nostri rappresentanti politici dovranno rendersi conto del fatto che l’Irlanda è tenuta ad agire come stato firmatario della Convenzione sul Genocidio» (trattato internazionale adottato dalle Nazioni unite nel 1948, ndr). «Sua responsabilità è quella di proteggere i diritti delle persone», ha concluso riferendosi alla disastrosa situazione umanitaria di Gaza.
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