“REGIMI POLIZIESCHI” da QUINTERNA LAB e IL FATTO
Il problema dell’ingovernabilità
Resoconto teleriunione 25 luglio 2023
La teleconferenza di martedì sera, connessi 15 compagni, è cominciata dall’analisi di quanto sta succedendo in Israele, dove è stata approvata la prima parte della riforma giudiziaria con l’abrogazione della “clausula di ragionevolezza”.
Lo Stato d’Israele non ha una costituzione ma solo leggi fondamentali, e la Corte Suprema svolge un ruolo di preservazione della “democrazia”. Questo organo si fa sentire quando vengono promulgate leggi considerate non idonee o quando vengono eletti politici indecorosi, appellandosi, appunto, alla “ragione”. La modifica favorisce il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha dei guai con la giustizia, e il suo governo, che comprende partiti di estrema destra e fondamentalisti.
Con l’avvicinarsi dell’approvazione della riforma le mobilitazioni hanno ripreso vigore e si sono radicalizzate, soprattutto a Tel Aviv, Haifa e a Beer Sheva. Lo scontro non si manifesta solo in piazza, con arresti e feriti, ma anche all’interno degli apparati statali. Riservisti, militari in servizio e anche forze di polizia sono scesi in piazza. Il capo del Mossad ha espresso viva preoccupazione per la crisi istituzionale, il Capo di stato maggiore dell’esercito non è stato ricevuto da Netanyahu. In Israele è in corso una forte polarizzazione politica in cui entrambi gli schieramenti si dichiarano difensori della democrazia, ed è proprio questo a preoccupare di più: è il sistema nel suo complesso ad essere andato in cortocircuito. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha dichiarato: “Vogliono fare a pezzi lo Stato, la democrazia, la sicurezza, l’unità del popolo di Israele e le nostre relazioni internazionali”. Alle critiche di Lapid ha risposto Netanhyau: “La norma approvata oggi non è affatto la fine della democrazia, bensì la realizzazione del volere dell’elettorato e dunque l’essenza stessa della democrazia”. Si prospetta anche la possibilità di uno sciopero generale. Il presidente americano Biden aveva consigliato al Primo Ministro di non avere fretta nell’approvare la proposta di legge per evitare di acuire la tensione, ma all’interno del governo israeliano ci sono forze ed equilibri che non permettono di rallentare la marcia. Israele è un avamposto degli USA: se dovesse collassare, tutto il Medioriente (e non solo) ne risulterebbe sconvolto. La banca Morgan Stanley e l’agenzia di rating Moody’s hanno formulato un giudizio negativo sull’evoluzione economica del paese, e lo shekel sta perdendo valore sui mercati internazionali.
Israele ha un tasso di disuguaglianza tra i più alti al mondo, vede crescere la disoccupazione giovanile e recentemente è stato teatro di proteste contro il carovita; a ciò si assomma la sempre scottante questione palestinese. Quello che fino ad ora ha tenuto insieme una società così disomogenea e contradditoria è stata la paura del nemico esterno, adesso questo collante non funziona più. Quando il valore da distribuire nella società è poco, si esacerbano i conflitti politici, religiosi e di classe presenti.
Il filo conduttore che lega i vari episodi di collasso degli Stati è la crisi del modo di produzione capitalistico e, di riflesso, l’incapacità della borghesia di mettere ordine nel proprio sistema (vedi risultato delle elezioni in Spagna, emblema dell’ingovernabilità). La classe dominante, non avendo più prospettive economiche e politiche, vive alla giornata. L’ondata di marasma sociale e guerra partita dalla periferia sta investendo il centro, ovvero i grandi paesi capitalistici. Il rallentamento dell’economia cinese e il conseguente aumento della massa di neolaureati disoccupati stanno compromettendo gli obiettivi di crescita lanciati dal PCC. Anche in Cina l’incremento relativo della produzione industriale (che rispecchia quello del saggio di profitto) si sta sincronizzando con quelli degli altri paesi. Il gigante asiatico sta invecchiando, con tutti i problemi che ciò comporta.
Quando un sistema sociale è prossimo alla rottura, i segnali dell’imminente crollo aumentano. Nella rubrica “Fiamme americane”, sul sito di Limes, è stato pubblicato un articolo sul declino del primato scientifico dell’America (ridotti investimenti, problemi burocratici, ecc.). Tempo fa sulla stessa rubrica è apparso un articolo sulla crisi dell’università americana. Gli USA possiedono più di un quinto dei brevetti registrati all’estero e la perdita di terreno nel campo dell’innovazione tecnologica rappresenterebbe un grave problema: in effetti, è ciò che sta succedendo, a tutto vantaggio della Cina (grande partner commerciale, ma anche temuto rivale geopolitico). Il declino dell’America è inaccettabile per la sua classe dominante perché è in gioco la sua supremazia militare. Interessante l’articolo di Analisi Difesa sulla nuova legge per arruolare più stranieri nelle forze armate statunitensi, a quanto pare i cittadini americani non hanno più voglia di servire il proprio paese.
In una recente puntata di “Mappa Mundi” (Limes), dedicata all’utilizzo di droni e armi portatili nella guerra d’Ucraina, lo storico-militare Gastone Breccia afferma che la difensiva russa non ha solo un vantaggio tattico, ma una logica strategica ferrea. D’altronde, da von Clausewitz in poi sappiamo che la difesa è più forte dell’attacco. Ad oggi la Russia controlla una fascia di territorio che va dall’Oblast’ di Lugansk a quello di Kerson, ha estromesso l’Ucraina dal Mar d’Azov e, collegandosi con la Crimea, è proiettata verso il Mar Nero. La controffensiva ucraina di Primavera non ha portato risultati, le posizioni restano pressoché le stesse. Questo è un problema per l’Ucraina, a cui è stata sottratta una parte ingente di territorio e la cui economia non esiste più, dato che senza i finanziamenti, le armi e il munizionamento forniti dall’Occidente è spacciata.
Questa è la guerra dei droni, dei satelliti e dei telefonini (ognuno può fotografare il nemico): l’attrito viene gestito da una nuova capacità di vedere il campo di battaglia. Siamo in una situazione ibrida, perché la guerra non si è ancora dispiegata in tutta la sua potenza distruttiva anche se vi è un consumo immane di munizioni, tanto che il settore bellico occidentale si è trovato impreparato.
L’intelligenza artificiale, oltre ad essere utilizzata in ambito civile, è sperimentata anche in quello bellico con macchine che potenzialmente possono decidere in autonomia quando e dove colpire. Questo è un fattore di imprevedibilità che preoccupa gli stessi addetti ai lavori. Come per le armi controllate da remoto anche per quelle “intelligenti” sussiste il problema del segnale, e cioè la possibilità che il nemico possa prenderne il controllo. In guerra, come in economia, l’equilibrio è sempre precario, perché ognuno cerca di sopraffare l’altro.
Tra i fattori acceleranti della crisi del capitalismo senile vi è il cambiamento climatico. Come dice Nouriel Roubini, nel saggio La grande catastrofe, la “tempesta perfetta” si sta avvicinando perché le incombenti “megaminacce” (economiche, finanziarie, tecnologiche, politiche, geopolitiche, sanitarie e ambientali) sono “strutturali” e si alimentano a vicenda.
“La Francia sta diventando ormai un regime poliziesco”
DOPO L’OMICIDIO DEL GIOVANE NAHEL – “Il presidente dà l’impressione di non sapere o di non rendersi conto dell’estrema gravità di una situazione che non ha alcun precedente simile dall’inizio della Quinta Repubblica”
FABIEN ESCALONA 31 LUGLIO 2023
In un’intervista a Le Parisien, il 23 luglio, il direttore generale della polizia nazionale, Frédéric Veaux, ha criticato la decisione dei giudici di porre in custodia cautelare uno dei quattro poliziotti di Marsiglia incriminati per aver picchiato un giovane durante le recenti rivolte urbane: “Un poliziotto non dovrebbe mai essere in prigione prima di un eventuale processo – ha detto –, anche se potrebbe aver commesso gravi errori nello svolgimento del proprio lavoro. Bisogna dotarsi dei mezzi tecnici e giudiziari necessari perché l’agente torni in libertà”. Veaux ha ricevuto subito l’appoggio del prefetto di Parigi, Laurent Nuñez. Delle reazioni indignate sono arrivate da diversi politici, soprattutto a sinistra, ma non dai responsabili del governo di Emmanuel Macron, per i quali criticare la polizia è più che mai tabù. Lo stesso Macron si è limitato a una breve dichiarazione, ricordando che nessuno è al di sopra della legge. Sebastian Roché, direttore al Centro nazionale della ricerca scientifica (Cnrs), è specialista di questioni di polizia e sicurezza e autore di La Nation inachevée. La jeunesse face à l’école et la police (Grasset, 2022).
I due più alti funzionari della polizia francese hanno contestato la decisione del tribunale sulla custodia cautelare del poliziotto. Quanto è grave questo tipo di trasgressione?
Non ci sono precedenti nella Quinta Repubblica. L’uguaglianza di tutti davanti alla legge figura nell’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, un pilastro fondamentale di tutti gli Stati democratici: a differenza dell’Ancien Régime, non sono ammessi privilegi. Frédéric Veaux e Laurent Nuñez sono intervenuti su inchieste ancora in corso, infischiandosene della separazione dei poteri e della garanzia d’uguaglianza davanti alla legge. Le loro dichiarazioni violano i principi stessi della polizia democratica, che si presume debba essere neutra e agire secondo i principi del diritto. Sembra invece che i due funzionari considerino l’amministrazione della polizia come un quarto potere, che avrebbe voce in capitolo nell’operato dei magistrati e nell’elaborazione della legge da parte delle assemblee. È inverosimile.
Macron ha ricordato l’importanza dello Stato di diritto, ma non ha condannato le parole dei due alti funzionari, preferendo sottolineare le dure condizioni di lavoro della polizia.
Pur ricordando di essere il garante delle istituzioni, il presidente dà l’impressione di non sapere o al massimo di non rendersi conto della gravità della situazione, senza precedenti sotto la Quinta Repubblica. Come può svolgere il suo ruolo di arbitro? Ha detto di non voler commentare le parole del direttore generale della polizia nazionale. Ma se il capo di un’amministrazione non può esprimersi sulle dichiarazioni dei suoi funzionari, qual è la funzione del potere politico? Le parole di Macron mettono in evidenza la sua debolezza e fragilità politica. È come se dicesse “non sono io il capo”.
Gérald Darmanin, il ministro dell’Interno, invece ha confermato la sua “fiducia” nel direttore generale della polizia…
Darmanin è il responsabile politico diretto. Non solo il ministro dell’Interno non ha fatto nulla, ma non è neanche normale che non venga associato alle dichiarazioni pubbliche dei suoi due più alti funzionari.
Non è la prima volta che la giustizia viene contestata dalla polizia. Ricordiamo per esempio che, il 19 maggio 2021, il sindacato Alliance Police aveva scandito lo slogan “il problema della polizia è la giustizia” davanti alla sede dell’Assemblea nazionale. Si ricorda di altri eventi di questo tipo degni di nota?
Ci sono già state diverse proteste della polizia. Il linguaggio dei poliziotti è coerente. Mettono spesso in evidenza la loro stanchezza e la mancanza di mezzi. Nel 1958 si lamentarono perché era stata soppressa una gratifica legata alla guerra d’Algeria. Nel 1983, dopo l’assassinio di due poliziotti da parte del gruppo di estrema sinistra Action Directe, si riunirono addirittura sotto le finestre del ministro della Giustizia, all’epoca Robert Badinter, che aveva abrogato la pena di morte e la cosiddetta “loi anti-casseurs”, votata nel 1970 sulla scia del Maggio 68. È capitato di nuovo nel 2015 per protestare contro Christiane Taubira, la guardasigilli di allora. Nel 2016 hanno organizzato un corteo sugli Champs-Élysées nella più completa illegalità. Alla manifestazione del 2021, davanti all’Assemblea nazionale, era stato presente anche il prefetto di Parigi, che si era unito alle proteste sindacali sul luogo in cui ha sede la rappresentanza nazionale. Ma all’epoca era ancora un alto funzionario all’ombra del ministro Darmanin. Con le dichiarazioni di Frédéric Veaux e Laurent Nuñez siamo passati ad uno stadio superiore. I due funzionari si sono espressi nei media scavalcando l’autorità politica, come se sostituissero l’autorità politica, e nessuno ha reagito. Al contrario, nel 1983, François Mitterrand aveva cacciato i funzionari che non avevano saputo far rispettare l’autorità dello Stato. È il segno, a mio avviso, di una “democrazia della polizia”, in cui alla polizia vengono affidati – o le viene permesso di arrogarsi – mezzi e prerogative eccezionali.
Numerosi ricercatori e leader politici, tra cui Jean-Luc Mélenchon, leader della sinistra di La France Insoumise, intervenuto su Mediapart, sostengono che il potere alimenterebbe la “paura” nei confronti della polizia. Alcuni parlano di deriva pretoriana. Cosa ne pensa?
I sindacati sono in un rapporto di dipendenza con la loro base, che è insoddisfatta. I vertici della gerarchia cercano ovviamente di compiacerli criticando lo Stato di diritto, ma restando comunque fedeli all’autorità politica. Il ministro dell’Interno, da parte sua, cerca di mantenere la linea strategica definita dal presidente della Repubblica, ovvero: non tollerare le manifestazioni più evidenti di razzismo e violenza e, al tempo stesso, parlare bene delle forze dell’ordine. Ho lavorato su regimi autoritari, quindi è importante utilizzare un linguaggio misurato. I diritti fondamentali sono stati scalfiti, lo denuncio, ma non c’è nessun attacco frontale contro il sistema giudiziario in generale. Dire che i poliziotti dovrebbero avere diritto a una protezione speciale, non equivale a condannare la metà dei giudici.
Ma immaginiamo un potere politico davvero determinato a riformare la polizia. Sarebbe in grado di farlo senza alienare l’apparato della sicurezza dello Stato?
La polizia ha un dovere di lealtà, è un principio fondante di tutte le democrazie. Ma, come politologo, non posso non constatare che la polizia rappresenta una forza in grado di esercitare un’influenza sul potere. La domanda è fino a che punto può arrivare a fare pressione. In passato, quando il potere politico ha imposto la sua autorità, la polizia non si è mai sollevata. Nel 1983, Mitterrand “fece cadere molte teste”. È accaduto anche nel 1997, quando il governo del socialista Lionel Jospin instaurò la polizia di quartiere, suscitando forti resistenze. Ed è ancora possibile: ci sono persone leali che occupano posizioni di responsabilità, e non credo che un sindacato abbia la capacità di bloccare il funzionamento delle istituzioni. Il presidente della Repubblica Macron sta facendo dei calcoli politici. Ritiene che fornire garanzie alla polizia gli conviene di più che non dargliene. Anche a condizione di maltrattare la giustizia.
Tre anni fa, durante la crisi dei gilet gialli, in una video intervista a Mediapart, aveva parlato del rischio di “sud-americanizzazione” della polizia francese. Gli ultimi anni hanno confermato i suoi timori?
Da allora non si sono riprodotti gli stessi livelli di frammentazione e di azione caotica. La polizia non è più così incoerente nei suoi modi di agire. Ma ciò che persiste da allora è la scelta strategica di orientarsi verso una “polizia d’attacco”. Nelle manifestazioni contro la riforma delle pensioni, questa strategia è sfociata nella pratica degli arresti preventivi, in restrizioni alla libertà di stampa. E, naturalmente, in gravi ferimenti dei manifestanti.
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