PIAZZA FONTANA: “FU TERRORISMO FASCISTA” da IL FATTO e IL MANIFESTO
Piazza Fontana, il messaggio di Pagliarulo (Anpi): “Fu terrorismo fascista. Senza memoria del passato non si capisce il presente”
F. Q. | 11 DICEMBRE 2022
Il 12 dicembre ricorre l’anniversario della strage di Piazza Fontana, dove nel 1969 rimasero ferite 88 persone e 17 persero la vita. Il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo è intervenuto con un video-messaggio affidato a ilfattoquotidiano.it: “Non fu l’unica bomba, non fu l’unica strage, ce ne furono di precedenti e specialmente di successive. A piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio del 1974, 8 morti. Sul treno Italicus il 4 agosto dello stesso anno, 12 morti. E poi, il 2 agosto 1980, la strage alla stazione di Bologna, 85 morti. Tante altre, la stessa mano”.
Poi, continua Pagliarulo: “Quella bomba di piazza Fontana era rivolta contro le classi lavoratrici, che erano impegnate in una dura lotta per migliorare le condizioni di lavoro e le condizioni di vita. E contro gli studenti, mobilitati per una vera riforma democratica della scuola. Fu chiamato l’autunno caldo: lavoratori e studenti volevano un’Italia migliore, un’Italia più giusta, per questo facevano paura. Gli incredibili processi per la strage di piazza Fontana hanno visto manovre e depistaggi di ogni genere, dietro quella strage c’era una trama oscura i cui organizzatori ed esecutori furono personaggi fascisti del gruppo eversivo di Ordine Nuovo, che aveva stretti rapporti con il Movimento Sociale Italiano, il partito di Giorgio Almirante. Attorno a questi personaggi di Ordine Nuovo un balletto di agenti dei servizi segreti ad altissimi livelli. La Cia finanziava, tramite i servizi segreti italiani, le formazioni neofasciste: era il tempo della guerra fredda. Se non c’è memora del passato non si capisce il presente, di quella stagione del terrorismo fascista non si parla più da anni, si rimuove, si nasconde, ma questo è stato e noi non dimentichiamo”.
Piazza Fontana, verità e giustizia secondo Meloni
12 DICEMBRE. Nel cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, l’allora deputata Giorgia Meloni nvitava a «non dimenticare le vittime innocenti della strage di Piazza Fontana». Oggi, da Presidente del Consiglio, ha però portato al governo figli diretti, eredi ed estimatori politici dei protagonisti di quegli «anni bui»
Davide Conti 11/12/2022
Il 12 dicembre 2019, cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, l’allora deputata Giorgia Meloni postò sul proprio profilo twitter un messaggio in cui (pur non indicando chi e perché avesse compiuto il massacro) invitava a «non dimenticare le vittime innocenti di quella barbarie» esortando tutti a «non smettere di cercare verità e giustizia».
Diventata Presidente del Consiglio nel 2022, Meloni ha portato al governo figli diretti, eredi ed estimatori politici dei protagonisti di quegli «anni bui» rispetto ai quali dichiarò il suo impegno onde «impedirne il ritorno».
Sottosegretaria alla Difesa oggi è Isabella Rauti, figlia di Giuseppe (Pino) Rauti, ex collaborazionista di Salò, dirigente del Msi e fondatore del gruppo eversivo filo-nazista Ordine Nuovo responsabile della strage di Piazza Fontana e sciolto per decreto dal ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani nel 1973.
Quello di Isabella al ministero della Difesa è un ritorno, per la famiglia Rauti.
Pino Rauti, infatti, lavorò per il generale Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Aloja pubblicando nel 1966 (sotto falso nome) insieme a Guido Giannettini (agente Zeta del Sid processato e assolto per la strage di Piazza Fontana) un noto pamphlet provocatorio titolato Le mani rosse sulle Forze Armate di cui Aloja si sarebbe dovuto servire nello scontro con il generale Giovanni De Lorenzo (l’uomo del Piano Solo del 1964).
Nel 1965 Rauti aveva già organizzato, sempre finanziato dal ministero della Difesa, il convegno dell’Istituto di studi militari «Alberto Pollio» sulla «guerra rivoluzionaria» dove si disegnò la strategia stragista che dal 1969 insanguinò l’Italia.
Il 21 novembre 1969 Il Secolo d’Italia, organo ufficiale del Msi, annunciava entusiasta: «I camerati di Ordine Nuovo entrano e rientrano a far parte del Movimento Sociale Italiano. Tutto il partito li saluta con gioia».
Un rientro in attesa della pioggia. Infatti, come raccontato alla magistratura dall’ex ordinovista Martino Siciliano, era giunta l’ora della «politica dell’ombrello» ovvero «della necessità di rientrare nel Msi nel senso di trovare riparo sotto l’ala del partito in previsione della piega che avrebbero potuto prendere le indagini sugli attentati che erano avvenuti o che dovevano avvenire». È la vigilia del 12 dicembre.
Una settimana dopo la strage fu il segretario missino Giorgio Almirante a parlare di una «ora di ansiosa vigilia» durante un cosiddetto «appuntamento con la nazione» a Roma. Appuntamento spostato dalla data iniziale (prevista per il 14 dicembre, due giorni dopo le bombe) a seguito della richiesta di annullamento presentata dal segretario repubblicano Ugo La Malfa per evitare ciò che il deputato socialista Eugenio Scalfari aveva già definito, il 9 dicembre, «un appuntamento molto pericoloso. Perché ci si ritrova con qualche banda di bastonatori di professione, e questa certo non è la nazione».
Nel racconto di Vincenzo Vinciguerra, ex dirigente di Ordine Nuovo a Udine e autore della strage di Peteano del 1972, quella manifestazione del Msi (e i gravi scontri che ne sarebbero derivati con l’assalto alla sede nazionale del Pci di via delle Botteghe Oscure) avrebbe funto da definitivo innesco per la proclamazione dello stato d’emergenza nel Paese ovvero la sospensione della Costituzione.
L’adunata si aprì con «i saluti deferenti» di Almirante rivolti a Junio Valerio Borghese (presente al comizio e nel frattempo impegnato a preparare il tentativo di golpe del 7-8 dicembre 1970) e ai militanti ordinovisti appena rientrati nel Msi.
Su tutte queste vicende la Presidente del Consiglio dovrebbe dar seguito alle sue parole. Invece i fatti raccontano di un convegno del 14 aprile 2022 organizzato da Fratelli d’Italia in Senato dedicato al generale Gianadelio Maletti, ex capo dell’ufficio D dei servizi segreti condannato per favoreggiamento dell’ordinovista Marco Pozzan, coinvolto nell’inchiesta su Piazza Fontana e fatto fuggire all’estero. Maletti, morto latitante in Sudafrica, secondo l’allora deputato Federico Mollicone fu «un uomo dello Stato che ha sempre osservato l’appartenenza alla divisa». Su di lui quindi «il giudizio va sospeso». Mollicone intervenne già nell’ottobre 2020 alla Camera, sostenendo un falso ovvero che la strage di Bologna del 2 agosto 1980 fosse legata «alla sinistra internazionale terrorista». Oggi Mollicone è stato promosso da Meloni Presidente della Commissione Cultura della Camera.
Nel frattempo a Brescia, città colpita dalla strage ordinovista del 28 maggio 1974, è stata intitolata a Pino Rauti (che per quel massacro fu ritenuto dalla pubblica accusa responsabile morale ma non penale) la nuova sezione di Fratelli d’Italia.
L’intento è chiaro e ricalcherà senza dubbio la linea dettata da Meloni nel 2019: verità e giustizia sulle stragi.
12 dicembre di Pasolini
IL FILM. Per una visione antropologica e politica dell’Italia negli anni settanta
Domenico Sabino 10/12/2022
«È stato il momento in cui, più di tutti, siamo andati vicino alla perdita della democrazia formale, in Italia». Così Pasolini commenta la strage di Piazza Fontana avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969, quando l’esplosione di una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura provoca 17 morti e 88 feriti. A ciò si aggiunge, dopo 3 giorni, la ‘morte accidentale’ e controversa del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, causata dalla «caduta» da una finestra di un ufficio al quarto piano della Questura, qui interrogato perché ingiustamente accusato di essere uno dei responsabili della strage.
Nello stesso pomeriggio altre 3 esplosioni si sarebbero verificate a Roma provocando feriti e danni. All’indomani della strage, Pasolini scrive di getto la poesia Patmos in memoria delle vittime innocenti. Sono attentati con cui si apre quella che verrà definita «la strategia della tensione» e che caratterizzerà politicamente, culturalmente e socialmente gli anni Settanta in Italia.
Alla luce di questi accadimenti, Lotta Continua decide di realizzare un film di denuncia, di controinformazione sulla morte di Pinelli e sull’arresto dell’anarchico Pietro Valpreda, accusato anche lui ingiustamente di essere l’esecutore materiale della strage di Piazza Fontana. Ci vorranno 18 anni e un iter giudiziario efferato affinché Valpreda venga dichiarato innocente e si faccia chiarezza sui soprusi di Stato verificatisi in quel periodo. Il film 12 dicembre – titolo che richiama il giorno della strage di piazza Fontana – nasce dalla collaborazione di Pasolini con alcuni esponenti di Lotta Continua, in primis con il leader Adriano Sofri e il militante Giovanni Bonfanti, che lo elabora con Goffredo Fofi. Il critico cinematografico Roberto Chiesi – responsabile del Centro Studi Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna – ricostruisce rigorosamente la genesi del film nell’articolo Pasolini e il viaggio nel presente di 12 dicembre (1972). Il progetto e il confronto con Lotta Continua, pubblicato in Studi pasoliniani. Nei crediti, Pasolini non appare come autore; ci si limita solo a dire che il film nasce da una sua idea. In realtà, la sua partecipazione è notevole, perché è lui a ottenere dal produttore Alberto Grimaldi il sostegno economico per realizzare il film (che si prorogherà dal dicembre 1970 all’estate 1971) e perché elabora il progetto.
Ciò si deduce da una registrazione audio, ritrovata anni fa, di un incontro con alcuni studenti universitari avvenuto il 23 giugno 1972 a casa del poeta corsaro, che afferma: «C’ho lavorato, l’ho montato io, ho scelto io le interviste ma non ho messo la regia, perché gli avvocati che l’hanno visto mi hanno detto che era pericolosissimo, che mi avrebbero messo in prigione. E allora abbiamo trovato una formula per cui il mio nome ci fosse, perché chi voleva capire capisse, ma formalmente non potessero procedere contro di me. Io ho girato circa un sessanta per cento, ma l’ho montato tutto io. Però – e questo è il punto – non ci ho messo la mia ideologia».
Serve ricordare il motivo di questa scelta: Pasolini, dal luglio 1970 al maggio 1971, è stato direttore responsabile di Lotta Continua e ha subìto una serie di processi. Il rapporto tra Pasolini e gli esponenti di Lotta Continua è sin dal principio travagliato e conflittuale, ma fattibile perché basato sull’onestà intellettuale.
La querelle è incentrata sulla struttura da conferire alla pellicola: il regista di Casarsa immagina il film come un viaggio politico e antropologico nell’Italia dei primi anni Settanta, imperniato su vicende emblematiche come le mutazioni culturali in atto; Lotta Continua, invece, propende per un film militante e di propaganda. Alla fine prevale la visione poetica di Pasolini, anche se con Bonfanti resta un po’ di propaganda di Lotta Continua.
Il film, con le musiche di Pino Masi, si apre con un piano sequenza che riprende il lungo corteo di studenti, operai e militanti che si snoda per Milano il 12 dicembre 1970 e che rievoca la strage dell’anno prima. Durante la manifestazione ci sono scontri con le forze dell’ordine, che con un lacrimogeno uccidono lo studente Saverio Saltarelli. Il 12 dicembre attraversa l’Italia tratteggiando i volti di militanti e lavoratori, le cave di marmo di Carrara, la mensa dei bambini proletari di Napoli, gli operai di Torino, la rivolta del 1970 a Reggio Calabria.
Si ritrovano, inoltre, le toccanti testimonianze della madre di Pinelli, Rosa Malacarne, della moglie Licia Rognini, dell’avvocato di Lotta Continua, Marcello Gentini, del deputato comunista Achille Stuani. «La ‘mano’ di Pasolini e la voce si mostrano soprattutto nel colloquio col disoccupato sordomuto a Bagnoli e nella scena del cimitero di Musocco, dov’era seppellito Pinelli (la tomba ora è a Carrara)» scrive Adriano Sofri.
12 dicembre, per intercessione di Pasolini, è presente in una sezione collaterale al Festival di Berlino del 1972, stesso anno in cui il regista è in concorso con I racconti di Canterbury e vince l’Orso d’oro. Dopo un’anteprima a Roma, testimoniata da una recensione di Alberto Moravia su L’Espresso del 30 aprile 1972, il film circola solo nei ‘Circoli Ottobre’ ovvero nel circuito culturale parallelo a Lotta Continua.
È strutturato come Comizi d’amore, sebbene se ne distacchi per le tematiche affrontate. A svigorire la memoria di 12 dicembre contribuisce senza alcun dubbio l’esigua distribuzione. Nel 2014 il film viene restaurato nell’edizione integrale dal laboratorio «L’Immagine Ritrovata» per conto della casa editrice tedesca Laika Verlag e della Fondazione Cineteca di Bologna, ma senza che sia possibile ritrovare i negativi originali.
Pertanto, a 100 anni dalla nascita di Pasolini e a 50 dall’uscita del film necessita riattraversarlo per comprenderne la forza poetica e politica pasoliniana che affascina e appassiona, e confrontarlo col momento storico che si sta vivendo. L’aspetto più terribile del film ovvero il sostanziale punto di forza affiora infatti congiuntamente alla sua estrema e drammatica attualità. È un’esperienza che Pasolini rammenta anche il 14 novembre 1974, quando redige Il romanzo delle stragi: «Io so…Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi». Scaglia il suo J’accuse contro i responsabili delle stragi e i poteri occulti, deviati, collusi e massonici dello Stato. La notte del 2 novembre 1975 riecheggia il Requiem per il Poeta e per la democrazia.
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