PD: “GLI ISCRITTI NON SONO IL PARTITO” da IL MANIFESTO e IL FATTO
Pd, una militanza da rifondare. Gli iscritti non sono il partito
L’ANALISI. Il voto dei tesserati, che ha premiato Bonaccini, non è affatto un microcosmo del consenso elettorale al partito, ma uno specchio deformante
Antonio Floridia 01/03/2023
«Queste sì, che sono soddisfazioni!», come talvolta capita di esclamare. Nel caso di alcuni studiosi che si occupano di partiti (e mi ci metto anch’io), si può ben dire che l’esito delle primarie del Pd, alla luce soprattutto di alcuni stupefatti commenti, rappresenta una bella rivincita. È davvero buffo che qualcuno scopra ora, con aria pensosa, che i gazebo hanno sconfessato gli iscritti. Oddio, come farà ora la povera Schlein a gestire questa situazione? Ma non ci era stato detto e predicato che oramai «il partito delle tessere» era un’anticaglia novecentesca? Che l’adesione al partito doveva essere leggera e il tratto identitario del Pd quello di essere «aperto» e «contendibile»?
È davvero singolare che adesso molti cadano dal pero e si preoccupino del destino degli iscritti. Per anni e anni ci è stato spiegato che era pura nostalgia pensare a un partito in cui avessero un senso espressioni come «radicamento territoriale», o «partecipazione» alla vita del partito («per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»: articolo 49 della Costituzione); o che era faticoso e inutile, e costoso, tenere aperte le sezioni, quando oramai bastano i social. Non solo: le regole che si era dato il Pd prevedevano espressamente la possibilità di questo divario: e lo si scopre ora, per fornire preoccupati (o interessati?) consigli a Elly Schlein? Dopo anni in cui il ruolo degli iscritti è stato svilito e svalutato; dopo che è stato costruito un modello organizzativo in cui si davano gli stessi diritti a iscritti ed «elettori», sul punto cruciale (eleggere il segretario); dopo che vi è stata anche una trasandatezza assoluta nella gestione della macchina del partito, spesso appaltata ai potentati locali, dopo tutto ciò, ci si sorprende che vi sia stato un costante calo degli iscritti (salvo, solo ora, tornare ad attribuire gran valore agli iscritti residui)?
Guardiamo un po’ di dati, peraltro spesso opachi, non facilmente reperibili e approssimativi (il che la dice lunga, anche indirettamente, sullo stato del partito). Nel 2008-9 erano 800 mila, 400 mila nel 2014-16; circa 380 mila nel 2019. Quest’anno sappiamo che hanno votato 150 mila iscritti, ma non è dato sapere la percentuale dei votanti sugli iscritti aventi diritto. L’analisi però più interessante riguarda la distribuzione territoriale del voto: una semplice tabella ci mostra dei dati eloquenti. Mettiamo a confronto, per grandi aree geografiche, il rispettivo peso percentuale sul totale nazionale del voto degli iscritti, dei votanti alle primarie e dei voti al Pd del 25 settembre scorso.
Come si vede, tra gli iscritti metà hanno votato da Roma in giù; laddove, tra i votanti alle primarie si scende al 40%; mentre vengono da questi regioni il 34% dei voti al Pd. Inverso l’andamento per le regioni del Nord, più equilibrato l’apporto delle quattro (ex) regioni rosse. Ebbene, possiamo dire che l’universo degli iscritti che hanno votato a maggioranza Bonaccini non si può dire davvero rappresentativo del più ampio corpo elettorale del partito: non è un microcosmo ma uno specchio deformato. Basti pensare che in provincia di Modena hanno votato 2.290 iscritti e a Foggia 2.570. Alle primarie, poi, tanto per dare dei termini di raffronto, a Modena hanno votato oltre 25mila persone (11 volte in più) e a Foggia 12.326 (quasi cinque volte in più): cos’è più rappresentativo?
Che conclusioni trarne? Non certo che Elly Schlein debba snobbare questi iscritti. Ma deve essere ben consapevole che hanno caratteristiche peculiari e limitate: semplicemente non sono il partito (o tutto il partito). E magari partire da qui per proporre linee di riforma, nell’organizzazione e nelle procedure democratiche interne, che possano tornare a dare un valore e un senso all’adesione al partito e tornare a far aumentare il numero degli iscritti.
Altri sono i problemi con cui Elly Schlein deve misurarsi. E una questione pare emergere dal dibattito: come farà Elly Schlein a tenere unito il partito? Sembra che le possibili alternative siano due: o la nuova segretaria rimane fedele alle sue promesse di radicalità e nettezza delle posizioni, e allora il partito si sfascia, o cerca di tenere insieme tutto, e allora il partito forse regge (ma poi quanto chiara e attrattiva sarà la sua posizione?). È una falsa alternativa. Costruire la coesione del partito non significa annacquare la linea, rendendola infine incoerente e incomprensibile: significa arrivare ad una decisione sulla base di un percorso di discussione e di confronto quanto più ampio possibile, che dia voce e spazio a tutte le posizioni, che tenga conto delle idee di tutti, ma che alla fine valuti quale sia la tesi prevalente e quella da sostenere nel dibattito pubblico. È un processo democratico e inclusivo quello che soltanto può dare legittimità ad una decisione e che la può rendere accettabile anche a coloro che non la condividono. Responsabilità di una vera leadership non è tagliare il nodo di Gordio, e costringere tutti o all’ubbidienza o alla rottura, ma coinvolgere saperi e opinioni, esperienze e competenze: dare un senso davvero all’idea di un partito che valorizzi l’intelligenza e la saggezza collettiva.
Per questo, tra i compiti più urgenti che ha di fronte Elly Schlein vi è anche quello di modificare radicalmente il modo di discutere e di decidere del partito. Se ne riparlerà.
La destra a lutto per la scomparsa del vecchio Pd
ÉPATER LES BOURGEOIS. Il titolo più strappalacrime è quello del Giornale. «Hanno ammazzato il Pd», grida Augusto Minzolini, dipingendo l’atroce scenario di un partito che sarà «più Mélenchon con una dose di Fedez […]
Andrea Carugati 01/03/2023
Il titolo più strappalacrime è quello del Giornale. «Hanno ammazzato il Pd», grida Augusto Minzolini, dipingendo l’atroce scenario di un partito che sarà «più Mélenchon con una dose di Fedez che non Vincenzo De Luca». E giù lacrime per il governatore campano. Per quel De Luca che, lamenta Minzolini, «dovrà dire addio al terzo mandato».
Il direttore più berlusconiano del reame avverte che i dem potrebbero addirittura «sfornare proposte economiche che riecheggiano parole d’ordine della Cgil», come patrimoniale e salario minimo. Salvo poi profetizzare un terzo polo che aumenta a dismisura» i suoi spazi elettorali, beneficiato da un Pd che – attenzione- «si mischierà coi movimenti femministi, le istanze Lgbt e quelle pacifiste». Costernato anche Maurizio Belpietro su La Verità: «Arriva la Schlein, se ne va il Pd», il titolo di apertura, «i dem si sono suicidati, addio alla vocazione riformista e alle ambizioni di guidare il Paese». Ma come? Il Pd pre-Schlein non era il partito di Bibbiano e delle tasse, il covo dei dittatori del lockdown, amico dei terroristi islamici? Per una sorta di miracolo, la vittoria di Schlein ha generato nei fogli della destra una improvvisa nostalgia per il partito di Letta e Franceschini. E persino per quello di De Luca. Il presunto suicidio dei dem, che dovrebbe favorire la permanenza di Meloni a palazzo Chigi per almeno un ventennio, d’improvvido diventa una notizia triste.
Sul Foglio la tristezza «ci avvolge come il miele» della canzone di Guccini. Il lutto per la sconfitta del moderato Bonaccini non trova consolazione. E pensare che la mozione Schlein era «una supercazzola infarcita di luoghi comuni, come abolire il patriarcato». Niente da fare, gli elettori hanno scelto la «vocazione minoritaria», l’«agenda delle banalità», «un programma che è quanto di più antico e nostalgico ci possa essere». La nuova segretaria si propone, mannaggia a lei, di voler rimuovere il Jobs Act, tassare i più i ricchi, difendere l’ambiente a prescindere da quello che vogliono gli (im)prenditori. Che orrore questa «socialconfusione», questo programma che non mette in cima «la difesa delle imprese, dei confini e del mercato». Per quello ci sarebbe già la destra, a pensarci bene. O il Pd renziano. Ma il direttore Cerasa non viene sfiorato da questo pensiero, e si strugge per la fine del partito «del buonsenso che faceva argine ai populisti».
Il Tempo ha invece il pregio della chiarezza: «ComunistElly», il titolo, «nostalgia rossa, si torna alle canne libere e alla lotta di classe». Ci sta, anche se Schlein pare per ora assai distante dagli obiettivi di Carlo Marx. Ma tanto basta per épater les bourgeois.
Più insidie per la neosegretaria vengono dalle firme dei grandi giornali borghesi che, dopo aver accompagnato per mano Letta nel burrone dell’agenda Draghi, ora la incalzano spiegandole che, se osasse imitare Mélenchon (che in Francia va molto meglio del Pd), sarebbe destinata all’irrilevanza (Folli su Repubblica). Ma la ciccia che accomuna i tre editorialisti di Repubblica, Stampa e Corriere è la guerra. «La politica verso l’Ucraina e la Nato sarebbe il casus belli per una scissione nel Pd» avverte Folli, anche se nulla nel discorso di Schlein lascia presagire un cambio di linea sulle armi all’Ucraina. A meno che definirsi «pacifista», come le ricorda il Corriere, non sia il sintomo di «una deriva putiniana in contrasto con l’Europa e gli Stati Uniti». «Una stagione sovrastata dal rischio della scissione», il perentorio allarme di Massimo Franco che ricorda come dietro Schlein ci sia una «nomenklatura» portatrice di «un’identità sconfitta dalla storia ma gonfia di nostalgia». E denuncia «un tasso di antirenzismo che può rivelarsi un boomerang». E perché mai? Franco, già proiettato nelle campagne padane, vede una «nebbia fitta» sulla volontà del Pd di rimanere «il riferimento delle istituzioni e delle cancellerie occidentali». E si torna alla ciccia, il rischio cioè che Schlein sbandi su «un crinale pacifista, tiepido sugli aiuti all’Ucraina» o «insegua il larvato filoputinismo del M5S». A quel punto la scissione sarebbe inevitabile, forse desiderabile (dai loro editori).
Marcello Sorgi sulla Stampa teme addirittura che Schlein « capovolga lo storico sì di Berlinguer alla Nato del 1976». Che paura. E che confusione: come se chiedere, come ha fatto la neoleader, più diplomazia per arrivare a un cessate il fuoco significasse uscire dall’ombrello Nato. Il fatto che Schlein abbia in tasca il passaporto americano sfugge agli avvertiti colleghi. Strano, visto che non è un dettaglio.
Non regalare
Marco Travaglio 1 MARZO 2023
È lo schema fisso che segue ogni cambiamento, cioè tutte le elezioni degli ultimi dieci anni. Il Partito degli Affari, che fino al 2013 vinceva sempre sia con la destra sia con la “sinistra”, ora si fa subito una domanda: l’argenteria è al sicuro o in pericolo? E, se l’argenteria è in pericolo, scatena i suoi giornali per consigliare il vincitore di turno a non toccargliela. Se poi quello non ascolta, lo fa lapidare col metodo già collaudato su Di Pietro, pool di Milano e di Palermo, Ariosto, Prodi, Boffo, Fini, Grillo, Di Maio, Raggi, Conte. Per la Schlein siamo ancora alla fase degli amorevoli consigli. Siccome gli elettori del Pd sono molto più di sinistra degli iscritti e infatti hanno votato una non iscritta (fino a due mesi fa) contro uno fin troppo iscritto per cambiare il Pd, i giornaloni la scongiurano di cambiare se stessa anziché il Pd: cioè di salvare l’argenteria dei rispettivi padroni. Che poi sono i soliti: americani, Confindustria, editori vari. Stefano Folli e Massimo Franco – il Duo Xerox di Repubblica e Corriere – sono in ansia per “l’immagine dell’Italia in Europa e a Washington” e “le cancellerie occidentali” perché la Schlein potrebbe portare la sinistra a sinistra e, Dio non voglia, “scivolare su un crinale ‘pacifista’”. E qui arriva l’espressione che, lo confesso, è la mia preferita nel bestiario dei consigli al Pd.
Scrive Folli su Rep: “Il rischio è di regalare a Meloni la posizione ‘atlantica’ di fedeltà alle alleanze: alla luce non solo dell’Ucraina, ma anche degli altri scenari turbolenti che s’intravedono, a cominciare dalla Cina”. Lo spiega pure Sambuca Molinari: la pacifista Schlein deve “convergere con i democratici di Biden”, teorici della terza guerra mondiale, e “con i verdi” tedeschi, molto più bellicisti e riarmisti di Scholz. Lo dice anche il rag. Cerasa sul Foglio: il nuovo Pd “rischia di regalare il buon senso alla destra, a partire dall’Ucraina”. Quindi, cara Schlein, frégatene di chi ti ha votata: copia la politica estera della Meloni e scavalcala a destra dichiarando pure guerra alla Cina. Lo straziante appello ricorda quelli a “non regalare” Draghi e Monti (esponenti della destra tecnocratica) alla destra (cioè ai loro legittimi proprietari); a “non regalare il garantismo a Berlusconi” (inteso come impunità per ricchi); a “non regalare la sicurezza a Salvini” (intesa come razzismo). Cappellini bada più al so(l)do e rammenta su Rep all’ambientalista Elly che vanno bene “le sacrosante battaglie sul clima”, ma “insieme al principio di realtà, agli interessi nazionali, senza cedimenti alle seduzioni della decrescita”, sennò Stellantis senza più auto a benzina perde un capitale. In sintesi: la sinistra non deve regalare la destra alla destra. Salvo poi stupirsi se gli italiani votano l’originale e non la brutta copia.
Partecipazione: un sondaggio interno su Kiev
Antonio Padellaro 1 MARZO 2023
Quando Elly Schlein dice di volere “aprire le porte del Pd affinché il popolo delle primarie entri a far parte di questa comunità”, esprime qualcosa a metà tra l’ovvio e il rivoluzionario. È certamente ovvio, da parte della candidata che ha vinto rovesciando pronostici e apparati, rendere omaggio ai cittadini che se la sono caricata sulle spalle portandola in trionfo al Nazareno. A questo punto, tuttavia, si attende da parte della nuova segretaria, e della conseguente segreteria, qualcosa che vada oltre la celebrazione di quanto sia bella e brava la cittadinanza attiva. Vale a dire la presa di coscienza (come si diceva una volta a sinistra) che questo milione e passa di cittadini accorsi a rianimare un partito in stato comatoso (a furia di fare il morto a galla) non si accontentano di più dei buoni propositi. Se, per capirci, non si restituisce loro quel ruolo di partecipazione reale alla vita politica che, da quelle parti, si perde nella notte dei tempi.
Diciamo subito che la novità non può consistere soltanto nella promessa di “aprire il prima possibile il nuovo tesseramento” perché di tessere e tesserati è lastricata la strada della cosiddetta vecchia e ammuffita politica. Quella, per intenderci, dei “cacicchi e capibastone”, giustamente schifati da Schlein in campagna congressuale ma che, proprio sulle truppe cammellate e bollinate, hanno perpetuato nei secoli il loro potere. A questo proposito vedremo abbastanza presto, a cominciare dalla composizione degli organi dirigenti, se e quanto finita la festa l’antico Pd sponsor di quello nuovo – vale a dire i Franceschini, i Boccia, gli Zingaretti, gli Orlando – se ne starà seduto tranquillo in galleria a dare buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio. Ma, soprattutto, “aprire le porte” del Pd significa rimettere in moto, anche materialmente, la macchina scalcinata dei circoli. Il che significa organizzazione, iniziative, militanza, dibattito per dare infine agli iscritti una forte e seria voce in capitolo sulla linea politica. Infatti, rivoluzione sarebbe una base che conti almeno come l’altezza, con un’altezza che applica le decisioni della base (come dovrebbe essere in ogni sano organismo democratico). Non sarebbe bello, per cominciare, un bel sondaggio interno sulla guerra e sulla pace, e magari pure sulle armi da mandare (o non mandare) a Kiev? Altrimenti, cara Schlein, resteremo sempre lì: al gabbato lo santo e al popolo dei gazebo che (come quello del voto politico e regionale) se ne ritorna mestamente a casa. E questa volta ci resta.
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