PADOVA BRUCIA PER GIULIA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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PADOVA BRUCIA PER GIULIA da IL MANIFESTO

Padova brucia per Giulia

FUOCO CORRI CON ME. Quindicimila persone gridano la loro rabbia per le strade. La sorella della vittima dopo gli attacchi: «Non mi farete mai tacere»

Lidia Ginestra Giuffrida

«In questi giorni ho sentito parlare di Turetta, molte persone lo hanno additato come un mostro. Ma lui mostro non è. Mostro è colui che esce dai canoni normali della nostra società, ma lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro». Elena Cecchettin l’ha detto su Rete 4, ma poi le sue parole sono uscite dal teleschermo e hanno invaso prima i social network di tutto il paese e poi le strade di Padova, in un corteo popolato da almeno quindicimila tra ragazze e ragazzi, un fiume umano che ieri sera è partito da piazza Portello ed è arrivato infine in piazza delle Erbe.

«IL FEMMINICIDIO non è un delitto passionale, è un delitto di potere, è un omicidio di Stato perché lo stato non ci tutela e non ci protegge. Bisogna prevedere un’educazione sessuale e affettiva, in modo da prevenire queste cose. Bisogna finanziare i centri antiviolenza, in modo tale che se le persone devono chiedere aiuto siano in grado di farlo. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto», ha detto ancora la giovane, lasciando in silenzio lo studio del talk show, incapace di replicare a un’analisi impietosa, oltre che realistica.
E quell’invito, «bruciate tutto», si è visto anche per le strade di Padova, la città in cui sua sorella Giulia avrebbe dovuto laurearsi giovedì scorso. Un appuntamento a cui non è mai arrivata.
Elena Cecchettin è così uscita da un copione che sembrava pronto per esserle cucito addosso: da sorella della vittima, parente da consolare, si è trasformata in attrice politica. Un’attrice politica che fa paura, evidentemente. E non solo ai prevedibili ospiti dei salotti serali di Mediaset. Elena non chiede per Filippo Turetta, ex fidanzato della sorella, ora accusato di omicidio volontario e che presto verrà estradato dalla Germania in Italia, l’ergastolo. Non chiede vendetta, non chiede che la risposta al femminicidio commesso da Turetta sia quella detentiva e punitiva, chiede la rieducazione.

ELENA CECCHETTIN denuncia la cultura patriarcale, denuncia anche lo Stato, ribalta la narrativa del not all men e restituisce a tutti gli uomini la loro responsabilità nella morte di ogni sorella.
«Io non starò mai zitta. Non mi farete mai tacere», ha scritto poi sui suoi social, nonostante i numerosi attacchi dei propagandisti della destra di governo, gente che l’ha giudicata severamente, molto oltre il tollerabile, per il modo in cui stava vivendo il dolore del lutto di sua sorella. Gente che ha provato a delegittimare ciò che diceva per il suo stile di abbigliamento, per i suoi modi, per il trucco che aveva sul volto.
Nelle piazze di tutto il paese, però, si respira un’aria molto diversa. Come richiesto da Elena Cecchettin il corteo di Padova ieri si è aperto con un coro che è un manifesto programmatico e che va ben oltre lo slogan e le sue migliaia di repliche sui social network (compresa la polizia di Stato sul proprio profilo di Instagram): «Oggi bruceremo e ci riprenderemo tutte le strade di Padova».

Il corteo è stato organizzato in occasione del Ttransgender day of remembrance, la giornata mondiale in ricordo delle persone transessuali vittime di violenza, ma si è ovviamente allargato trasformandosi in a una mobilitazione anche per Giulia e contro i femminicidi.
Anche Elena era presente ieri, e poco prima del corteo ha chiesto a giornalisti e reporter: «Continuate a raccontare la verità. Vi chiedo soltanto di lasciarmi sola per un po’, sto mentalmente e fisicamente male e devo darmi del tempo per riprendermi».

E così migliaia di persone da diverse città del Veneto sono venute a Padova per il corteo. Ma in generale le piazze hanno continuato a riempirsi in questi giorni, presidi e cortei sono stati convocati in tutta la regione, con Padova divenuta centro nevralgico: tutta la città discute di quello che è successo, riflette, cerca una risposta collettiva.
Nella mattinata di ieri una grande assemblea ha affollato il cortile dell’università degli studi Padova. «All’università si respira un’aria di lutto, i professori e le professoresse continuano a fare minuti di silenzio. Noi siamo furiose. Non siamo in lutto», raccontano alcune studentesse. E la rabbia era palpabile anche in mezzo alla manifestazione.
«Ci vogliamo vive e libere», recita lo striscione di apertura. E molte sono intervenute per chiedersi se solo Filippo fosse stato migrante. Se fosse stato nero. Se non fosse stato italiano «e di buona famiglia. La retorica sarebbe stata la stessa di questi giorni?

RESTA UN ULTIMO grido: «Contro ogni confine di genere e contro ogni confine territoriale. Insieme siamo partite, insieme torneremo».

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Lidia Ginestra Giuffrida

Giornalista freelance, laureata in cooperazione internazionale e sviluppo. Ha conseguito il master di giornalismo della fondazione Lelio e Lisli Basso. Collabora con Al Jazeera English all’estero e il manifesto in Italia. Fa parte di FADA rete

Portiamo in piazza i nostri corpi

25 NOVEMBRE. Non basta scrivere e leggere, bisogna andare, ci vogliono i corpi, perché è sul corpo che si abbatte la violenza. Bisogna riempire quella piazza e fare crollare il paese, davvero, perché così, dal punto in cui stiamo ora non è che si possa fare molto, bisogna buttare tutto a terra e ricostruire

Valeria Parrella   21/11/2023

Mentre aspettavamo la conferma di ciò che sapevamo già, perché lo sapevamo già, lo sappiamo tutte e lo sappiamo sempre, sono arrivate decine di racconti. Erano racconti di donne che hanno superato violenza e abusi, con aiuto o senza, donne che furono ragazze oltraggiate da fidanzati, oppure donne che sono state madri picchiate davanti ai figli, oppure studentesse apostrofate, annichilite da compagni e professori. E ogni storia era così composta e nitida nel suo emergere in tutto il suo orrore, nella paura del momento, nell’epifania del tornare a vivere dopo averla superata, che erano perfino belle tutte quelle voci che costruivano una storia intera, tanto intera e così completa, così trasversale per le latitudini e le età, così riconoscibile che a portarla in un libro e leggerla in una classe di ragazzini si farebbe una grande cosa.

Perché poi l’educazione sentimentale che a gran voce chiediamo tutti e di cui il governo se ne frega (ma non per dimenticanza, per precisa scelta di inibizione: perché poi a parlare d’amore ci finisce dentro l’amore e il genere scompare e questo governo teme grandemente la scomparsa dei limiti e l’emergere della parità. Con la parità non ci fai le gerarchie, con le gerarchie ci comandi) è facile, è come la storia: dici sai sono successe queste cose, ma non a una donna sotto un regime, no, proprio alla tua vicina di casa.

I ragazzini imparano presto: siamo noi che abbiamo bisogno di tempo per imparare. Per esempio abbiamo bisogno di molti twitt e qualche articolo di giornale per imparare che non basta più scrivere (e leggere) su twitter e sui giornali (nemmeno questo) per prendere una voce forte in risposta al femminicidio di Giulia Cecchettin, ma che bisogna andare il 25 in piazza. Il 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne, da sempre articolata da tante associazioni in varie piazze d’Italia, anche stavolta, ancora una volta, contiene tante cose, e contiene anche quella porzione di rabbia e di dolore di cui non riusciamo a liberarci, e che deve per forza diventare altro: un grido, dei passi, delle voci, mani alzate.

Non basta scrivere e leggere, bisogna andare, ci vogliono i corpi, perché è sul corpo che si abbatte la violenza. Bisogna riempire quella piazza e fare crollare il paese, davvero, perché così, dal punto in cui stiamo ora non è che si possa fare molto, bisogna buttare tutto a terra e ricostruire. Ricostruire i centri antiviolenza, rifinanziarli, darne notizia, ricostruire l’educazione nelle mura delle scuole e in quella delle case. Pareggiare i salari, abbattere le disuguaglianze tra nord e sud, incentivare il lavoro femminile, sollevare le famiglie dall’accudimento che ricade solo sulle donne.

Bisogna mettersi spalla a spalla fisicamente e camminare assieme, come quelle donne islandesi che a noi paiono un miraggio e ci fanno pure un poco invidia.
Mi chiedevano: servirà? Sì. Serve per due motivi. Uno ce lo spiegano gli attivisti ogni volta che si espongono con i loro corpi per sostenere le battaglie, gli studenti, i ragazzi di Ultima Generazione: i corpi danno fastidio, ci vogliono altrove, divise, sole, per controllarci meglio.

E poi serve perché serve tornare a parlare quel linguaggio comune che è maturato in quei racconti, e che ci rende sorelle, quel linguaggio che ciascuna di noi conosce, e che va passato come testimone alle bambine: «Stringiti alla comunità delle donne» mi disse una volta a Milano Luisa Muraro, «perché quando sarai vecchia saranno loro che ti salveranno, non gli uomini». Me lo disse perché mi vide ingenua, perché tante cose non le sapevo: io stavo imparando.

Alcune di noi sanno perché hanno subito e visto, e se non hanno capito razionalmente in quel momento, però hanno avuto paura e quella paura era già un sapere. Ma altre lo hanno imparato tardi, alcune hanno avuto ambienti casalinghi in cui c’era parità e rispetto, e lo hanno scoperto piano che invece fuori il mondo era così, all’università, sul lavoro. E allora hanno dovuto imparare.

Si può ancora imparare. Gli uomini possono imparare. Lo dobbiamo a Elena Cecchettin che ce lo ha insegnato in questi giorni e ce lo continua a insegnare. Ma per farlo serve la comunità, e la comunità si fa in piazza: il 25 a Roma e a Messina. La comunità si fa così: che poiché non tutte potranno venire, perché qualcuna lavorerà, e qualcuna sarà incastrata in quello stesso meccanismo per cui dovrebbe venire, e qualcun’altra non avrà i soldi per arrivare e Roma e a Messina (anche se ci sono gli autobus gratis una giornata fuori costa, se parti da un paesino lontano ti costa) chi ci può andare, ci va anche per le altre. Anche per questo chi può, deve – ma non è un «deve» categorico, esterno: è più come quando dalla tragedia fiorisce un senso di speranza.

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