L’ORECCHIO DEL SOVRANO TRUMP E LA VIOLENZA DI MASSA NEGLI USA DA IL MANIFESTO e 18BRUMAIOBLOG
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’ORECCHIO DEL SOVRANO TRUMP E LA VIOLENZA DI MASSA NEGLI USA DA IL MANIFESTO e 18BRUMAIOBLOG

L’orecchio del sovrano Trump e la violenza di massa negli Stati Uniti


UN MASS SHOOTING PARTICOLARE. Chi sta sul trono attira lo sguardo di tutti e perciò diventa anche bersaglio: non si passa alla storia sparando a una scuola piena di bambini, ma sparando a un monarca sì

Alessandro Portelli  16/07/2024 

A Butler, Pennsylvania, Thomas Matthew Crooks ha ucciso una persona e ferito altre tre, fra cui l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. I media lo descrivono come il solito frustrato ed emarginato, più o meno di destra, appassionato di armi; ma di lui, di che cosa voleva fare e perché, non sapremo mai abbastanza: come sempre, la rapidità con cui l’attentatore viene “abbattuto” chiude il caso prima che si possa aprirlo.

Però possiamo provare a ragionare sul significato del suo gesto

Il mondo intero si preoccupa del proiettile che ha sfiorato l’orecchio di Trump, e tratta quelli che hanno colpito il povero Corey Comperatore e ferito altre due persone come meri effetti collaterali. Ma il fatto che abbia colpito anche bersagli a caso dimostra che Matthew Crooks ha sparato non solo a Donald Trump ma anche su tutta la folla.

Tecnicamente, con un morto e tre feriti, questo attentato di Butler rientra nel catalogo dei mass shootings (sparatorie con almeno quattro vittime) che dall’inizio dell’anno ha fatto 390 morti e 1216 feriti in 302 “episodi”.

Matthew Crooks – bianco, maschio, giovane – rientra allora nella dinastia di Dylan Roof, il massacratore della chiesa afroamericana di Charleston, South Carolina, di Omar Maheen che ha ammazzato 43 persone in un locale gay a Orlando, Florida, Jason Aldean, che fece 59 morti e 500 feriti in un concerto country a Las Vegas: la strage di massa, tentata o compiuta, come culmine di una rabbia repressa e senza nome.

Il dato diverso però è che una delle vittime (la più leggera e la più conclamata) è un ex presidente e candidato presidenziale. Più che in ogni altro paese, negli Stati Uniti i presidenti sono stati oggetto di attentati: il catalogo include le uccisioni di Abraham Lincoln (1865), James Garfield (1881), William McKinley (1901), John Kennedy (1963), e gli attentati ai presidenti Andrew Jackson (1935), Theodore Roosevelt (1912), Franklin D. Roosevelt (1933), a Harry S. Truman (1950), Richard Nixon (1972), Gerald Ford (due volte nel 1975), Ronald Reagan (1981), fino a un futile tentativo contro Barack Obama (2011). e ai candidati presidenziali – Huey Long (1935), Robert Kennedy (1968), George Wallace (1972).

Questo è dovuto almeno in parte alla figura istituzionale e simbolica del Presidente degli Stati Uniti. Fin da quando, con un atto di audacia politica straordinaria, l’America abolisce la monarchia e si proclama Repubblica, i “padri fondatori” sentono il bisogno di garantire una figura di autorità che rappresenti il centro (il “capo”, “il cuore”) dello stato e prevenga il disordine che ancora accompagnava l’idea di “repubblica”.

In Rip Van Winkle (1809), Washington Irving racconta che nell’osteria del villaggio il ritratto di Re Giorgio è sostituito da quello di George Washington. Anche nell’immaginario, il Presidente prende il posto del Re: da un lato “rappresenta” politicamente il paese, dall’altro incarna la sacralità del corpo mistico della nazione.

Pensiamo all’aura da Camelot e Artù che circondava la presidenza Kennedy, evocata da Bob Dylan in Murder Most Foul; ma anche alla scoperta allusione trumpiana di Bruce Springsteen in Rainmaker: «Il buffone si è seduto sul trono».

Chi sta sul trono attira lo sguardo di tutti e perciò diventa anche bersaglio: non si passa alla storia sparando a una scuola piena di bambini, ma sparando a un sovrano sì.

Recentemente la Corte Suprema ha persino sancito che il Presidente non è imputabile per atti ufficiali commessi nell’esercizio delle sue funzioni: un capo di stato democraticamente eletto si avvicina così alla figura di un sovrano al di sopra della legge. Nei regimi costituzionali il re «regna ma non governa»; come lo immagina Trump e come lo delinea la Corte Suprema oggi, il Presidente degli Stati Uniti si avvicina a un sovrano che regna e governa, come in certe visioni presidenzialistiche nostrane.Giustamente, Corrado Augias accosta l’orecchio di Trump al sedicente «unto del Signore» Silvio Berlusconi ferito da una statuetta a Milano. Si leggeva allora sul sito di Rai News: «Il Presidente del Consiglio mostra il viso insanguinato mentre cresce la rabbia dei suoi sostenitori» – proprio come Trump adesso.

Il martirio esibito del corpo sacro del re come ricomposizione della nazione: alle spalle di entrambi sta l’iconografia del volto insanguinato di Cristo e Trump dice che è stato Dio in persona a salvarlo.

Il gesto di Thomas Matthew Crooks, allora, è il momento illuminante in cui due forme distinte ma non separate di violenza politica – l’assassinio di massa e l’assassinio mirato al «cuore dello stato» (da noi potremmo: dire la strage di Bologna e Aldo Moro) – si sovrappongono e ci lasciano intravedere il loro sostrato comune.

Modalità diverse, soggetti diversi, ma l’aggressione al “corpo sociale” è la stessa: sparare a tutti o sparare a chi rappresenta tutti. Le forme cambiano, ma la violenza è una.

Le balle sull’America raccontate dal WSJ

Olympe de Gouges  15 luglio 2024

Se invece di prendere in considerazione solo quattro anni, dal 1968, il giornalista del WSJ avesse preso in considerazione anche i precedenti cinque anni, avrebbe potuto citare gli omicidi di J.F. Kennedy e di Malcom X, quindi, altro esempio, avrebbe potuto raccontare quanto è successo tra il 13 e il 16 agosto 1965. È una storia rimossa, come tutto ciò che va a detrimento dell’immagine edulcorata che va sotto il nome usurpato di “America”.

In quei giorni di agosto la popolazione nera della città di Los Angeles si sollevò. Non bastarono i crescenti rinforzi delle forze di polizia per riprendere il controllo della situazione. Verso il terzo giorno i neri saccheggiarono le armerie accessibili, e così hanno potuto sparare anche agli elicotteri della polizia. Migliaia di soldati e poliziotti (una divisione di fanteria appoggiata dai carrarmati) si lanciarono nella lotta per circoscrivere la rivolta nel quartiere.

Gli insorti hanno proceduto al saccheggio generale dei negozi, applicandovi il fuoco. Secondo le cifre ufficiali ci sarebbero stati 32 morti, tra i quali 27 neri, più di 800 feriti, 3000 incarcerati. Quei fatti presero il nome di rivolta di Watts.

Alcuni mesi prima, l’episodio noto come “Bloody Sunday” del 7 marzo 1965: durante una marcia di protesta per l’uccisione, da parte di un poliziotto, di alcuni dimostranti per i diritti civili, i poliziotti attaccarono la folla raccolta in preghiera colpendo i dimostranti in maniera indiscriminata; una seconda marcia guidata da M.L. King, il 9 marzo, fu interrotta al ponte Edmund Pettis a Selma (fu ucciso un manifestante), la terza marcia ugualmente guidata da King ebbe luogo da Selma a Montgomery, il 21 marzo, fu la spinta decisiva per l’approvazione, nello stesso anno, della legge sul diritto di voto senza discriminazioni di razza. Fino ad allora, nel Paese che si proclamava come il più libero e democratico del mondo, tale diritto non era ancora stato sancito per legge.

Il movimento dei diritti civili poneva, con mezzi legali, soltanto problemi legali. È normale appellarsi legalmente alla legge, quello che è irrazionale è mendicare legalmente davanti all’illegalità patente da parte del potere.

Come ho raccontato più volte in questo blog, gli Stati Uniti sono un Paese dominato in lungo e in largo dalla violenza, di qualsiasi tipo, dove la condizione economica individuale determina una netta e forte differenza tra cittadini in termini di libertà, difesa personale e accesso ai diritti civili. Se sei povero, diventi un reietto, uno scarto della società. Se anche non sei bianco, va molto peggio.

Torme di disperati dell’America Latina tentano la fortuna, ossia di approdare negli Stati Uniti per uscire da condizioni di estrema miseria e prevaricazione in cui sono sottoposti nei loro paesi d’origine, ritenendo i diritti civili e la dignità personale questioni accidentali.

Oggi non è più solo una crisi dello status dei neri o degli immigrati, è la crisi dello status degli Stati Uniti d’America. Già all’epoca di Martin Luther King, le rivolte, come quella di Watts, non erano più solo tumulti razziali, ma di classe. La rivolta contro la merce, contro il mondo della merce e del lavoratore/consumatore gerarchicamente sottomesso alle condizioni della merce.

Già allora, i frigoriferi rubati da chi non aveva l’elettricità, o a cui era stata tagliata la corrente, era la migliore immagine della menzogna dell’abbondanza per tutti. La produzione mercantile, soltanto quando è pagata in denaro, in quanto segno di un livello di sopravvivenza, è rispettata come un mirabile feticcio.

Già allora non si trattava di un’abbondanza naturale e umana, ma un’abbondanza di merci, cioè di prodotti che mostrano la volontà magica di farsi pagare, sia che si tratti di un frigorifero o di un fucile. Quei neri possono saccheggiare e rubare per tutta la vita, ma non recupereranno mai ciò che a loro, così come alla maggior parte dell’umanità, viene realmente e quotidianamente sottratto da questo sistema di rapina.

L’umanità è senza avvenire nel sistema delle merci; dovrà presto e di necessità operare una scelta, quella di un’altra qualità della vita, diversa da quella del presente, un presente irrecuperabile, falso e vergognoso.

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