L’ONDA NERA NON È FINITA, MA IL CASO ITALIANO RESTA ISOLATO da IL MANIFESTO
L’onda nera non è finita, ma il caso italiano resta isolato
ELEZIONI SPAGNA. Tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo è giusto e naturale. Per alcune ragioni che ci vengono nettamente indicate dall’esito delle elezioni politiche spagnole del 23 luglio
Marco Bascetta 25/07/2023
Tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo è giusto e naturale. Per alcune ragioni che ci vengono nettamente indicate dall’esito delle elezioni politiche spagnole del 23 luglio. La prima è che esiste ancora una maggioranza di cittadini europei che temono i fascismi e dunque coloro che, nel tempo presente, ne reinterpretano e modernizzano le eredità. La seconda è che il “modello italiano”, per quanto i neofascismi siano stati sdoganati quasi ovunque (tranne in Germania dove, pur traballando, sopravvive l’”arco costituzionale” che esclude Afd) non è così facilmente esportabile in altri contesti dove le sensibilità politiche sono meno ottuse che da noi e meno forti le tradizioni corporative. Il caso italiano, nel bene e nel male, è destinato a rimanere un “caso”.
La terza ragione è che il progetto di spostare decisamente a destra l’asse delle istituzioni europee e gli equilibri politici nel Vecchio continente subisce una battuta d’arresto. Ma certo non una disfatta irrecuperabile. Le forze dell’estrema destra non sono certo europeiste, ma nutrono nondimeno l’ambizione di portare avanti una propria politica di respiro europeo che le protegga dall’Europa e che, insomma, neutralizzi gli ostacoli frapposti dall’Unione all’arbitrio, sempre più “postdemocratico”, dei nazionalismi. Non rinunciando, tuttavia, a quei benefici senza i quali gli elettori finirebbero col voltargli le spalle.
Ambizione infestata di ambiguità, accecamenti ideologici e contraddizioni interne, messe da parte con la furba formuletta «siamo d’accordo di non essere d’accordo», che oltre ad essere ridicola è anche alla radice di tutte le guerre.
La destra moderata (ma non tanto e non sempre) del Partito popolare europeo non ha ritenuto di calcare la mano su queste “sbavature” nazionaliste pensando di strumentalizzarle e sfruttare l’espansione della destra estrema per liberarsi dall’abbraccio di verdi e socialdemocratici di fronte a un passaggio cruciale che mette l’Unione dinanzi alla riconfigurazione degli assetti globali, all’insostenibilità sociale e ambientale del modello economico, a un fenomeno immigratorio inarrestabile e al ritorno della guerra sul suolo europeo. Era il progetto portato avanti dal governo di Roma e dal presidente del Ppe Manfred Weber in tutto e per tutto simile a quello proposto, a parte i grugniti neofranchisti, dai popolari spagnoli insieme a Vox per il governo della Spagna.
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L’onda nera è dunque finita in risacca grazie alla resistenza dei socialisti di Sanchez? Sostenerlo è a dir poco un’imprudenza. Lo spostamento a destra della politica europea comincia a prendere anche altre forme. A partire dall’inclinazione sempre più reazionaria dei partiti di centrodestra alla rincorsa delle formazioni radicali, subendone in qualche modo l’egemonia ma, pur incassando in termini di voti, senza riuscire a ottenere con i voti sottratti agli alleati una maggioranza di governo.
Questo slittamento a destra dei centristi ha però conseguenze per nulla insignificanti. La prima è l’insorgere di forti divergenze interne come abbiamo potuto constatare con la mancata bocciatura del Green Deal, concordata con i conservatori, grazie alla defezione di deputati del Pp. La seconda è l’estrema difficoltà nel riprendere un dialogo con la socialdemocrazia dopo aver imboccato una decisa rotta di collisione. In altre parole, quel ritorno alle grandi coalizioni che, visti gli attuali rapporti di forze, gli interessi economici dominanti e la politica benpensante auspicano come unica garanzia di stabilità e di controllo sociale appaiono decisamente impraticabili. Difficile pensare a un dialogo tra Ppe e Psoe, dopo una campagna elettorale improntata a “inimicizia assoluta” come quella che si è appena svolta nella penisola iberica.
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Del resto, anche in Germania i fattori che hanno portato al logoramento della longeva coalizione tra i cristiano-democratici e la socialdemocrazia nonché all’erosione dei partiti maggiori sono ancora tutti attivi.
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L’ “onda nera” è alimentata, a diverse latitudini, dalla delusione, talvolta dalla rabbia, di fronte a quelle politiche della sinistra che hanno agevolato i suoi avversari nell’imputarle subalternità “senza gloria” all’egemonia neoliberale (la vera poderosa e tenace egemonia culturale della destra, altro che le scemenze del ministro della Cultura italiano). E finché questo alimento non sarà decisamente interrotto continuerà a gonfiarsi. Il governo di Madrid, aiutato peraltro dalla presenza di una mobilitazione sociale, in qualche misura lo ha fatto e ha ottenuto, nella stessa misura, un risultato. Il timore del fascismo non sarebbe altrimenti bastato. Anche altrove converrebbe ricordare che non può bastare.
Manette e mandati d’arresto, botta contro i catalani decisivi
SPAGNA. Il partito di Puigdemont ha le chiavi del prossimo governo. Junts e Erc sono al minimo storico ma ago della bilancia, il Psoe torna primo dopo 15 anni
Luca Tancredi Barone, BARCELLONA 25/07/2023
Passano le elezioni generali, ma in Catalogna per qualcuno il tempo non passa. Con un tempismo a dir poco sospetto, l’eurodeputata Clara Ponsatí, ex ministra del governo catalano di Carles Puigdemont, leader indiscusso di Junts, si è presentata ieri a Barcellona. Dove la polizia l’ha arrestata “illegalmente”, sostiene lei nel suo profilo di Twitter. Ponsatí sfugge la giustizia spagnola da più di cinque anni: assieme a tutti i membri del governo di Puigdemont venne incriminata per le vicende legate alla dichiarazione di indipendenza e per la celebrazione di un referendum di autodeterminazione che il governo di Mariano Rajoy cercò di bloccare per terra, mare e aria (e molte manganellate). Visto che non ci riuscì, il partito popolare (con il beneplacito dei socialisti) sciolse con la forza il governo catalano e allo stesso tempo scatenò la giustizia contro l’indipendentismo. Per chi non scappò fini con pene durissime: Puigdemont, Comin e Ponsatí, invece, dopo diversi tentativi falliti dei giudici spagnoli allineati alle tesi più repressive del Pp di chiederne l’estradizione nei vari paesi per cui passavano, divennero eurodeputati, protetti dall’immunità.
NEL FRATTEMPO PERÒ il governo Sánchez, su pressione di Esquerra Republicana, ha modificato il reato principale per cui erano accusati e ha indultato i leader incarcerati. Si tratta dell’anacronistico reato di sedizione, che ora non esiste più, come nella maggior parte dei paesi europei (che per questo negavano sistematicamente di concedere l’estradizione). Il che ha spuntato l’incisività del mandato di cattura europeo, ieri riattivato dal giudice Pablo Llarena, che dal 2017 persegue i politici catalani. Ora è solo per il reato di malversazione. Il secondo reato per cui vuole mettere le mani sui politici indipendentisti è quello di disobbedienza, che però non prevede pene di carcere (il governo catalano in quel frangente, infatti, si rifiutò di obbedire agli ordini del tribunale costituzionale di impedire il referendum).
D’ALTRA PARTE, solo poche settimane fa, il tribunale generale della Unione europea ha avallato la decisione votata dal parlamento europeo di togliere l’immunità ai tre leader catalani, contro cui avevano fatto ricorso. Per cui ora, come è accaduto a Ponsatí ieri, possono essere arrestati: ma poco dopo però, data l’esiguità del reato imputato, devono essere scarcerati. Il motivo dell’arresto di ieri è che Ponsatí l’ultima volta che era venuta a Barcellona si era rifiutata di comparire davanti al giudice.
La mossa della deputata di Junts arriva in un momento in cui il partito di Puigdemont ha la chiave del futuro governo spagnolo. Il suo leader a Barcellona, Jordi Turull (anche lui ex membro del governo di Puigdemont e beneficiario dell’indulto di Sánchez), ha detto chiaramente che non hanno intenzione di aiutare il governo e che chiederanno, come sempre, referendum e amnistia.
LA VERITÀ È che in Catalogna, uno dei pochi territori in cui l’affluenza alle urne è scesa rispetto al 2019 perché una parte dell’indipendentismo aveva chiesto di boicottare le elezioni, i partiti indipendentisti hanno fatto flop. Esquerra e Junts hanno ottenuto ciascuno 7 dei 48 deputati eletti in Catalogna, e in termini di voto questi due partiti più la Cup (che quest’anno non ha ottenuto rappresentanti) e il PdCat, scissione più pragmatica di Junts, arrivano al 28% dei voti: un minimo storico. Quattro ani fa, Erc era il primo partito, con 13 rappresentati, 8 ne aveva Junts e 2 la Cup. Il grande vincitore è il partito socialista, con più del 34% dei voti (19 deputati, 7 in più) seguito da Sumar (14%), con 7 deputati (come Unidas Podemos 4 anni fa). Il Pp ne ottiene 6 (+4 rispetto al 2019) e Vox si mantiene a due. Il che fa della Catalogna uno delle due roccaforti più di sinistra del paese, assieme a Euskadi. Il blocco socialisti-sumar-Erc riunisce più del 60% dei voti.
NON SOLO I SOCIALISTI e Sumar devono alla Catalogna una buona fetta del loro successo di domenica: la Catalogna è di nuovo al centro dello scacchiere politico nazionale. Da come Junts prenderà la decisione di imporre un prezzo politico, per quanto alto, a Sánchez per dargli il via libera o, viceversa, di affondarlo (e condannare a una ripetizione elettorale) si giocherà il futuro di tutto il paese. Per il momento ci sono schermaglie: come Eh Bildu, anche Erc è tendenzialmente intenzionato a impedire un governo del Pp, ma chiedono unità d’azione agli altri indipendentisti, timorosi di essere tacciati di collaborazionisti. Sumar ha già mandato il suo miglior negoziatore, l’ex deputato Jaume Asens, a parlare con quelli di Puigemont. I giochi sono ancora apertissimi.
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