LEGAMBIENTE: “EVENTI ESTREMI PIÙ FREQUENTI” da IL MANIFESTO
«Eventi estremi più frequenti», in testa l’Emilia Romagna
Il report di Legambiente: nei primi cinque mesi del 2023 gli episodi di maltempo eccezionale sono stati 122: + 135% rispetto al 2022. Tra le regioni più colpite anche Sicilia, Piemonte, Lazio, Lombardia e Toscana
Luca Martinelli 06/06/2023
Per la Giornata mondiale dell’ambiente ieri Legambiente ha diffuso i dati relativi agli eventi climatici estremi in Italia, che nei primi cinque mesi del 2023 sono stati 122, il 135% in più rispetto ai 52 occorsi negli stessi mesi del 2022.
Com’è facile immaginare, seguendo le cronache del mese di maggio, gli allagamenti da piogge intense sono la tipologia che si è verificata con più frequenza con 30 eventi contro i 16 nello stesso periodo dell’anno scorso, segnando così un +87,5%. Da inizio anno, secondo l’analisi dell’Osservatorio Città Clima di Legambiente, sono sei le regioni più colpite da eventi climatici estremi: a guidare la classifica è l’Emilia-Romagna (36), seguita da Sicilia (15) e Piemonte (10), e quindi Lazio, Lombardia e Toscana tutte con otto. In Emilia-Romagna nel 2022 gli eventi estremi erano stati 4 (+900%).
LA DENUNCIA di Legambiente vuole anche essere un messaggio chiaro al governo guidato da Giorgia Meloni. «Per aiutare l’ambiente e contrastare la crisi climatica in atto, servono politiche climatiche più ambiziose accompagnate da interventi concreti sia a livello nazionale sia a livello europeo», spiega l’associazione ambientalista. L’Italia – secondo Legambiente – deve accelerare il passo approvando il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici di cui il nostro Paese è ancora sprovvisto e prevedendo risorse adeguate per finanziarlo. Inoltre, entro fine giugno dovrebbe aggiornare il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec). Va approvata quanto prima anche una legge contro il consumo di suolo, che l’Italia attende da almeno 11 anni, quando venne per la prima volta adottato un disegno di legge dall’allora ministro delle Politiche agricole, Mario Catania.
Tre azioni prioritarie su cui l’Italia ad oggi è in forte ritardo», sottolinea Legambiente. A livello europeo, secondo l’associazione, sarebbe importante anche arrivare a definire un Patto di solidarietà per il clima, come proposto dal segretario generale dell’Onu, Guterres, tra Paesi industrializzati, emergenti e in via di sviluppo, per raggiungere zero emissioni nette entro il 2050 a livello globale. Con l’impegno dei Paesi industrializzati di sostenere finanziariamente l’azione climatica dei Paesi più poveri ed anticipare al 2040 il raggiungimento di zero emissioni nette.
«LA FOTOGRAFIA scattata dal nostro Osservatorio Città Clima sugli eventi climatici estremi parla chiaro – commenta Stefano Ciafani, presidente di Legambiente – bisogna invertire al più presto la rotta. L’alluvione che ha colpito nelle scorse settimane l’Emilia-Romagna e le Marche, ma anche le violente piogge che si sono abbattute in questi ultimi giorni in Sardegna e in altre regioni d’Italia, sono l’ennesima dimostrazione di quanto la crisi climatica stia accelerando il passo causando ingenti danni all’ambiente, all’economia del Paese, e perdite di vite umane. Al governo Meloni chiediamo un’assunzione di responsabilità perché per affrontare il tema della crisi climatica serve una decisa volontà politica con interventi concreti non più rimandabili per riparare gli errori del passato come ad esempio tombare i fiumi, costruire in aree non idonee o in prossimità dei corsi d’acqua». Secondo il presidente di Legambiente è tempo di «voltare pagina e i primi strumenti per farlo sono proprio il piano di adattamento al clima e le risorse per attuarlo, l’aggiornamento del Pniec, una legge contro il consumo di suolo. Senza dimenticare che il Paese ha bisogno di più politiche territoriali di prevenzione e campagne informative di convivenza con il rischio. Solo così si potrà evitare che l’ultima tragedia sia la penultima e che il Paese rincorra sempre l’emergenza».
In particolare, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, pubblicato a dicembre sul sito del nuovo ministero dell’Ambiente (Mase), è ancora in standby dopo la fase di valutazione ambientale strategica, avviata in tutta fretta dal governo alla fine dello scorso anno, dopo l’ennesima tragedia, quella di Ischia. Le adeguate risorse economiche per attuarlo, tra l’altro, non sono state previste nell’ultima legge di bilancio.
Il paper dei «negazionisti» che usa dati limitati
SCIENZIATI A CONFRONTO. Il documento del World Weather Attribution rifiuta la causa climatica dell’alluvione
Luca Martinelli 06/06/2023
Quando il 2 giugno La Verità ha titolato «Romagna sott’acqua? Non è colpa del clima», il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro poggiava su solide basi, quelle di un paper del World Weather Attribution, un’iniziativa di scienziati che quantificano come il cambiamento climatico influenzi o meno l’intensità e la probabilità di un evento meteorologico estremo. Lo stesso paper è stato ripreso da molti quotidiani (chi usando il condizionale, come La Stampa, «Lo studio sull’alluvione in Romagna: ecco perché (stavolta) non sarebbe colpa del cambiamento climatico», chi con tono assoluto, come Today, «La scusa del clima per mascherare le colpe dell’alluvione in Romagna») ed è finito anche a SkyTg24, che parla di «dubbi degli scienziati».
Lo studio citato come fonte, però, è contestato da un gruppo di scienziati che fanno riferimento al portale Climalteranti.it, in particolare Stefano Tibaldi, Vittorio Marletto, Luca Lombroso, Claudio Cassardo e Stefano Caserini, che in un articolo evidenziano alcune gravi limitazioni nello studio World Weather Attribution. Intanto, lo studio non è stato soggetto al processo di peer review (revisione dei pari), che viene effettuato prima della pubblicazione su una rivista scientifica. E infatti non è stato pubblicato. Tra i limiti, ad esempio, c’è il mancato utilizzo dei dati delle serie storiche come ne esistono in Emilia-Romagna. Quelli dell’Osservatorio geofisico di Modena, riconosciuto dall’Organizzazione meteorologica mondiale come stazione di osservazione centenaria, ha una serie storica di dati di precipitazione che iniziano nel 1830, e il 2 maggio 2023 è stato il giorno più piovoso mai registrato in maggio.
I DATI UTILIZZATI, invece, partono dal 1960 e in alcuni casi dal 1979, che «non sono un periodo molto lungo per effettuare l’analisi statistica di eventi che, nel clima non mutato dalle attività umane, avevano tempi di ritorno di 200 anni o più», come spiega l’articolo pubblicato su Climalteranti.it. Inoltre, l’analisi Wwa ha misurato la precipitazione media sull’intera regione Emilia Romagna cumulata su 21 giorni in primavera (aprile-maggio-giugno), ma «utilizzare la media su una zona così ampia porta a ridurre considerevolmente i picchi di precipitazione», in particolare considerando che sono stati tre gli eventi di forte precipitazione, nei giorni 1-2, 10 e 16-17 maggio, che hanno interessato una parte della regione, la parte centrale appenninica, in particolare a monte di Faenza, Forlì e Cesena.
LA MAPPA della precipitazione costruita sulla base del network dell’Agenzia regionale Arpae per il periodo cruciale di maggio molti valori di picco molto elevati, con molte aree con più di 500 mm come somma dei tre eventi, e singole stazioni con valori che vanno ben oltre i 600 mm, dati eccezionali che si perdono. Gli autori dell’articolo pubblicato su Climalteranti hanno contattato alcuni colleghi che hanno lavorato allo studio World Weather Attribution, che hanno confermano che esso non vuole in alcun modo negare il ruolo del riscaldamento globale sull’aumento degli eventi estremi sul Mediterraneo. Purtroppo, rilevano, «chi ha deciso quel titolo dello studio («Ruolo netto limitato del cambiamento climatico nelle forti precipitazioni primaverili in Emilia-Romagna», ndr) così netto e senza le necessarie precisazioni sui limiti dello stesso, poteva aspettarsi di essere strumentalizzato», di offrire contenuti ai negazionisti del cambiamento climatico e a chi pur non negando esplicitamente l’influenza delle attività umane sul clima, ne nega la gravità e l’urgenza delle azioni di mitigazione.
La lobby del petrolio a capo della Cop28. Rivolta delle Ong
Da dicembre la presidenza va a Sultan Ahmed Al-Jaber, ministro dell’industria e ceo della Oil company. Ne chiedono le dimissioni 2 mila organizzazioni e 130 parlamentari di vari Paesi
Anna Maria Merlo, PARIGI 06/06/2023
Più di 2mila Ong ambientaliste e 130 parlamentari di vari Paesi europei e del Congresso Usa hanno chiesto le dimissioni o almeno di «limitare l’influenza» del presidente della Cop28, Sultan Ahmed Al-Jaber, ministro dell’Industria degli Emirati e al tempo stesso Ceo di Abu Dhabi Oil Company, che nel prossimo dicembre guiderà la riunione destinata a trovare il modo per mettere fine alla dipendenza dalle energie fossili per lottare contro il cambiamento climatico, oltreché trovare i finanziamenti per un nuovo fondo di «perdite e danni» a favore dei Paesi più poveri e principali vittime del riscaldamento climatico in corso. Alla riunione “tecnica” che si tiene da ieri fino al 15 giugno a Bonn, con 200 Paesi presenti, per preparare il summit di dicembre a Dubai è attesa la controffensiva degli Emirati.
La strada è tutta in salita e la revisione al rialzo degli obiettivi ambientali, prevista per il 2025 dall’Accordo di Parigi del 2015, sembra fuori portata. Già alla Cop27, l’anno scorso in Egitto, era stato impossibile raggiungere un impegno globale per uscire dalle energie fossili. E adesso, con la presidenza degli Emirati, viene spinta piuttosto l’idea di diminuire le emissioni di gas a effetto serra attraverso la tecnologia (captazione di Co2, tecnologie di stoccaggio ecc.) invece di arrivare alla sostituzione con le rinnovabili.
Al centro delle discussioni c’è la questione dei finanziamenti. L’impegno dei Paesi sviluppati di versare 100 miliardi di dollari l’anno ai più poveri non è stato mantenuto finora: quest’anno, secondo i dati Ocse, i Paesi ricchi avrebbero destinato 83,3 miliardi, cifra fortemente contestata da Oxfam, che valuta i finanziamenti reali tra i 21 e i 24,5 miliardi. La Cop27 aveva approvato una destinazione verso «i paesi particolarmente vulnerabili». A Bonn dovranno essere trovate risposte: cosa dovrà essere finanziato, le catastrofi oppure i processi lenti di degrado? Chi dovrà pagare, i “ricchi” presenti in un vecchio elenco del 1992 oppure quelli di oggi, cioè anche la Cina che è passata di categoria? Chi saranno i beneficiari? A quanto dovrà ammontare il finanziamento, visto che si calcolano bisogni intorno ai 700 miliardi l’anno nel 2030 per i Paesi in via di sviluppo?
La situazione geopolitica, complicata dalla guerra in Ucraina e dalle conseguenze sull’approvvigionamento di petrolio e gas russi, sta rendendo la situazione molto tesa. Di finanziamenti si discuterà a Parigi, al vertice del 22-23 giugno voluto da Emmanuel Macron per un Nuovo Patto finanziario mondiale, che dovrebbe indicare una riforma del sistema finanziario internazionale (Fmi, Banca Mondiale) per favorire gli interventi a favore del clima, della salute e di lotta alla povertà. Torna in agenda il serpente di mare della tassa sulle transazioni finanziarie, ma alcuni propongono una tassazione sul trasporto marittimo e la ristrutturazione dei debiti dei Paesi vulnerabili.
Intanto, alla Wto la presidente Ngozi Okonjo-Iweala ha aperto di discussione sulla riforma del prezzo della tonnellata di carbonio, un mercato mondiale confuso, dove convivono una settantina di modi di calcolo. A Parigi nella sede Unesco si è appena concluso, senza grandi passi avanti, un vertice a cui hanno partecipato 175 Paesi per arrivare a un Trattato mondiale vincolante per mettere fine all’inquinamento dovuto alla plastica: 350 milioni di tonnellate l’anno sono disperse nell’ambiente e costituiscono una minaccia agli ecosistemi. Gli europei spingono per un accordo, ma gli Usa, primo consumatore, e la Cina, primo produttore, frenano.
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