L’ATTACCO AL DIRITTO DI SCIOPERO ALZA LA POSTA NELLE URNE DEL REFERENDUM da IL MANIFESTO
L’attacco al diritto di sciopero alza la posta nelle urne del referendum
LE PIAZZE E LA COSTITUZIONE. Il segretario della Cgil non ha deluso le attese. Non che abbia dimenticato la legge di bilancio, però, come annunciato già alla vigilia, non si ferma alla manovra e oppone all’intera politica economica del governo una visione totalmente alternativa
Andrea Colombo 18/11/2023
Il segretario della Cgil Maurizio Landini sposta lo scontro dal piano della rivendicazione a quello politico delle strategie complessive del governo, tutte, non solo quelle economiche.
I politici, nelle persone dei due principali leader dell’opposizione, non si spostano dagli abituali percorsi, disertano piazza del Popolo con tanto di giustificazione risibile: «Altri impegni». La decisione di non presentarsi in piazza è stata presa dopo sofferte riflessioni e probabilmente non sarebbe stata la stessa prima della precettazione di Salvini. Dopo quel colpo, però, era inevitabile che Landini prendesse atto della portata ormai tutta politica dello scontro e a quel punto ai politici di professione, Schlein e Conte, sarebbe inevitabilmente toccata la parte sgradita dei comprimari. Peraltro proprio quella che cerca di cucirgli addosso la destra quando parla di Landini come «vero segretario del Pd».
È probabile però che la scelta sia stata suggerita anche da considerazioni meno legate all’immagine. Proprio perché era chiaro che Landini avrebbe alzato il tiro rispetto alle motivazioni specifiche dello sciopero, la presenza dei leader del Pd e del M5S avrebbe implicato l’accusa rivolta al leader sindacale di agire in conto terzi, spinto solo dall’appartenenza politica. Accusa che peraltro Giorgia Meloni scaglia comunque: «Lo sciopero è stato deciso in estate quando la legge di bilancio io neppure ce l’avevo in mente».
Il segretario della Cgil non ha deluso le attese. Non che abbia dimenticato la legge di bilancio «piena di porcherie» o «i condoni che sono già arrivati a 13». Però, come annunciato già alla vigilia, non si ferma alla manovra e oppone all’intera politica economica del governo una visione totalmente alternativa. Poi va oltre. Parla della precettazione come di «vero e proprio attacco alla democrazia» e di lì alla riforma costituzionale, dunque al referendum, il passo è brevissimo: «Quelli che oggi vogliono cambiare la Costituzione sono gli stessi che non hanno contribuito a costruirla e non permetteremo a nessuno di ridurre gli spazi di democrazia». Se avesse detto che i fascisti, dalla cui sconfitta nacque la Carta, stanno cercando la rivincita sarebbe stato, nella sostanza, più o meno lo stesso.
È una battaglia che si combatterà nelle urne del referendum e la posta in gioco non sarà solo il quesito referendario. Solo che questo allargamento della sfida referendaria era proprio quel che Giorgia Meloni voleva evitare. La sua formula, «Volete decidere o far decidere ai partiti», è di facile presa solo se in ballo c’è davvero solo il quesito referendario. Le cose sono destinate a diventare ben più difficili se in campo c’è molto di più: il modello di democrazia, il diritto di sciopero, i limiti del potere.
Per questo, molto più che per paura di una improbabile esplosione di conflittualità sociale, la premier cerca ogni giorno di sminuire la portata della precettazione e dunque dello scontro in atto. Lo ha fatto anche ieri: «Non ho deciso io. Il governo ha avuto un ruolo marginale. Ma un’autorità indipendente ha stabilito che non c’erano i requisiti dello sciopero generale».
Quello della premier sarebbe a questo punto un tentativo disperato e inutile anche se non ci fosse di mezzo Salvini. Che peraltro c’è e non sceglie il basso profilo. Ieri giubilava perché «20 milioni di cittadini possono circolare liberamente», ma aggiungendo un passaggio eloquente: «Il diritto di sciopero di una minoranza non può ledere il diritto al lavoro della maggioranza». Tanto per chiarire che non si sta affatto parlando solo di un regolamento da far burocraticamente rispettare.
Sotto attacco il sindacato che torna al conflitto
PIAZZE PIENE. Il contesto è avverso. Va ricordato che la lotta contro il potere di mobilitazione del sindacato è un classico dei governi neo-liberali
Filippo Barbera 18/11/2023
Piazze di nuovo piene, effervescenza collettiva, azione pubblica: il lavoro che chiede di essere ascoltato dalla politica. Non può che essere una buona notizia. Il contesto è avverso: dalla decisione della Commissione di garanzia, fino all’esultanza del ministro Salvini, va ricordato che la lotta contro il potere di mobilitazione del sindacato è un classico dei governi neo-liberali. Margaret Thatcher, lo ha ricordato ierisu queste pagine Ken Loach, ne fece una delle sue priorità, erodendo le leggi che proteggevano il potere dei sindacati e rendendoli poi responsabili di azioni illegali in caso di violazione. Ed è impossibile non sottolineare quanto la gioia sguaiata di Salvini sia conseguenza degli equilibri interni alla maggioranza.
Per sviare l’attenzione lontano dai suoi fallimenti politici (in primis la mancata abolizione della “Legge Fornero”), prova a recuperare terreno a destra. Lo fa ricorrendo alle parole d’ordine care alla base elettorale della maggioranza: padroncini, micro-impresa, piccola borghesia, commercio.
C’è poi un ulteriore piano interpretativo, che rimanda non alle continuità di lungo periodo dei regimi neo-liberali o alle contingenze politiche, più o meno miserevoli, interne alle destre al governo, ma al tema della rappresentanza. La stagione delle grandi mobilitazioni sindacali degli anni ’70 era riuscita a tenere insieme conflitto e concertazione, termini che ora tendiamo a leggere come tra loro alternativi. La mobilitazione degli anni ’70 si basava sul buon funzionamento del cosiddetto “mercato politico”, dove un soggetto (il governo) che ha beni da redistribuire è disponibile a scambiare questi beni per ottenere il consenso da altri soggetti dotati di forte capacità di aggregazione degli interessi e, quindi, di conflitto sociale organizzato.
Oggi, però, la concertazione non rimanda al potere del sindacato all’interno di un modello conflittuale, ma viene interpretata, all’opposto, come una sua alternativa. Con le grandi privatizzazioni del 1992, i governi proposero al sindacato uno scambio diverso. Se il sindacato avesse accettato il controllo dei salari, il governo avrebbe garantito una politica di difesa della lira e di bassi tassi d’interesse, sia per impedire spinte inflazionistiche, ma soprattutto per permettere l’erogazione di mutui a quanti volevano acquistare beni immobili. La proprietà della casa in cambio del controllo sulla crescita dei salari. Il sindacato cambia pelle: mette sullo sfondo il modello conflittuale e scommette sull’erogazione di servizi (ne scrive Sergio Bologna in “Tre lezioni sulla storia”).
Come nota Paolo Feltrin nell’ultima numero dei “Quaderni di Rassegna Sindacale”, è interessante sottolineare che il modello post-conflittuale non ha comportato il tracollo dei sindacati come organizzazioni. Scrive Feltrin: «Se guardiamo al sindacato italiano dal punto di vista organizzativo c’è da rimanere sorpresi: oggi Cgil, Cisl e Uil contano il numero più alto di sedi mai avute in Italia, più di 7.000; un numero di stipendiati mai avuto prima, circa 25.000; almeno 200.000 delegati eletti nei luoghi di lavoro; un fatturato di oltre un miliardo l’anno; oltre 5.000.000 di pensionati iscritti; un numero di iscritti attivi più basso dell’apice anni Settanta, ma sempre più di 6.000.000».
Una crescita organizzativa, però, che ha visto aumentare il numero dei sindacalisti «impiegati d’ufficio», mentre le funzioni del sindacato negoziale/conflittuale sono state relegate in secondo piano. La sigla che ha più spinto su questo modello è la CISL, che non a caso non ha aderito allo sciopero generale. Ma – nota sempre Feltrin – è pur vero che tutte le nuove sedi sindacali assomigliano a centri commerciali multiservizi, con sale d’attesa, bar e spaccio di prodotti «equi e solidali». Spesso, anche la loro collocazione logistica è analoga quella dei centri commerciali.
In questo quadro, è cruciale ricordare che la concertazione delle politiche economiche – vuoi quella conflittuale anni ’70, vuoi quella al ribasso degli anni ’90 – si fa in tre e non in due. Il grande assente sono le organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori, che confermano una volta di più come per loro la concertazione sia una «seconda scelta». Vi ricorrono solo se devono farlo, preferendo invece la negoziane bilaterale o la completa libertà del capitale. In questo momento, sanno che la politica guida con il pilota automatica e ha ben poco da scambiare. Meglio non sedersi ai tavoli verdi di Palazzo Chigi con le rappresentanze dei lavoratori. Meglio negoziare bilateralmente e lasciare il lavoro sporco alla politica.
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