LA SOVVERSIONE NEO-AUTORITARIA DI MERCATO da IL MANIFESTO
La sovversione neo-autoritaria di mercato
COMMENTI. Quali dati politici emergono dall’assalto alle istituzioni democratiche del Brasile, pianificato con cura nelle settimane precedenti
Gianni Fresu * 10/01/2023
Com’era facilmente prevedibile, il movimento guidato Jair Messias Bolsonaro, uscito tutt’altro che ridimensionato dalle elezioni, non ha smobilitato, né è stato «normalizzato» dal naturale dispiegarsi della dialettica parlamentare. Al contrario, abbiamo assistito alla progressiva radicalizzazione di un movimento che, potendo contare su ramificate complicità istituzionali, simpatie tra le Forze Armate, grandi risorse economiche, oltre alla formidabile rete di coordinamento organizzativo e morale delle chiese evangeliche, non ha mai smesso di invocare l’intervento militare.
I mesi che hanno preceduto l’insediamento del nuovo Presidente sono stati così segnati dall’intensificarsi di una capillare mobilitazione di chiaro segno golpista. L’offesa al cuore istituzionale di Brasilia, uno spazio architettonico pensato dal grande Oscar Niemeyer proprio per simboleggiare il rapporto organico di unità e distinzione tra i tre poteri fondamentali dello Stato brasiliano, è solo l’ultimo atto di un’unica rappresentazione.
L’assalto alle istituzioni democratiche, pianificato con cura nelle settimane precedenti, ha potuto contare sul sostegno di una fitta rete di facoltosi soggetti economici e imprenditoriali legati al presidente uscente, le cui responsabilità politiche sono evidenti.
A prescindere dallo sgomento, tre importanti dati politici sembrano emergere: 1) nonostante le continue sollecitazioni a prendere il potere (per ora), le Forze Armate hanno dimostrato lealtà costituzionale; 2) i tre poteri fondamentali hanno reagito alla minaccia sovversiva con un’unica voce; 3) la società democratica brasiliana si è immediatamente mobilitata a ogni livello, isolando e delegittimando ogni tentativo golpista.
Tutto questo non significa che la partita sia chiusa, al contrario, in un Paese diviso come una mela e storicamente sempre sull’orlo della guerra civile tutto è possibile. Al di là delle recenti responsabilità, nel corso dei quattro anni alla guida del Paese, Bolsonaro ha cercato di politicizzare ogni spazio della vita civile, chiamando i suoi sostenitori, nelle strade come sui social media, a una guerra culturale permanente non solo contro il pensiero critico, ma verso gli stessi principi basilari di convivenza democratica, fino a mettere in discussione il risultato delle elezioni e chiederne l’annullamento. Il mancato riconoscimento formale della vittoria di Lula, la legittimazione delle manifestazioni antidemocratiche nelle settimane passate e la mancata consegna della fascia presidenziale il giorno dell’insediamento, rientrano in questa molteplice strategia di delegittimazione.
Il bolsonarismo è espressione di un universo ideologico incompatibile con qualsiasi paradigma costituzionale di «pluralismo ragionevole» e di giustificazione pubblica delle concezioni di giustizia. Non si tratta appena di una tendenza conservatrice, ma di una visione fondamentalista poco propensa a riconoscere il significato universale e inviolabile di quei valori essenziali che, in una moderna società democratica, rappresentano il comune fondamento etico a ogni pratica di pacifica tolleranza tra opposte visioni del mondo in competizione. Come il primo fascismo, il bolsonarismo teorizza e pratica l’idea della conquista militare, ricorrendo ai metodi dell’assalto, dell’imboscata e del terrorismo squadristico, con la dichiarata ambizione di cancellare dalla vita politica nazionale nemici e avversari, anche solo potenziali. Descrivendo la carica antiparlamentare della piccola borghesia irregimentata dal nascente fascismo, in un celebre articolo del 2 gennaio 1921 (“Il popolo delle scimmie”), Gramsci sottolineò alcuni aspetti di estrema attualità, rilevando come la caratteristica più marcante di questo movimento risiedesse anzitutto nella volontà di «sostituire la violenza privata all’autorità della legge», esercitandola «caoticamente e brutalmente» nella sollevazione di strati sempre più estesi di popolazione radicalizzata contro lo Stato e le sue regole.
In ciò consisteva l’essenza del sovversivismo reazionario provocato dalla crisi organica e di egemonia scatenate dalla Grande guerra. Per quanto interpretare tutto attraverso la chiave universale del fascismo sia un errore grossolano, che appiattisce ogni cosa, senza permetterci di cogliere gli elementi inediti e le profonde discordanze storiche tra i fenomeni esaminati, è indubbio che al fondo del bolsonarismo si possano riscontrare, insieme all’eredità della tradizione coloniale e delle passate dittature militari, elementi emblematici di profonda fascistizzazione della cultura politica conservatrice. Con questa svolta, in un quadro di crescente coordinamento internazionale della destra neo-autoritaria di mercato, non solo il Brasile, ma tutto il mondo dovrà fare i conti nei prossimi anni.
* Professore di filosofia politica UFU (Minas Gerais/Brasil), Ricercatore Università di Cagliari, socio fondatore ed ex presidente International Gramsci Society Brasil, coautore di “Gramsci in Brasile” (ed Meltemi)
Con Lula e Amlo il subcontinente può avere una voce sola
COMMENTI. Il tentato golpe dei bolsonaristi è stato un’insidia anche per il nuovo peso internazionale del Brasile. Che con Lula infatti «ritorna sulla scena mondiale» con il peso della sua condizione […]
Roberto Livi 10/01/2023
Il tentato golpe dei bolsonaristi è stato un’insidia anche per il nuovo peso internazionale del Brasile. Che con Lula infatti «ritorna sulla scena mondiale» con il peso della sua condizione di stato-continente. E con il recupero di una diplomazia che si è guadagnata un forte prestigio internazionale.
Secondo vari analisti –come l’ex vice presidente boliviano Álvaro García Linera- è la conferma che l’America latina «sta vivendo una seconda ondata progressista». Anche se avverte che questa fase – a differenza della prima ondata iniziata con la presidenza di Chávez in Venezuela nel 1999 e durata fino al 2014, è «marcata da un progressismo moderato ». Inoltre, come afferma l’argentino Daniel García Oleado il subcontinente «si trova al centro della disputa di due grandi potenze: Stati uniti e Cina». Una guerra commerciale che dà all’America latina una nuova opportunità, ma ne traccia anche i limiti ideologici.
La presidenza di Lula, con il suo peso, può migliorare le relazioni tra governi progressisti del subcontinente (dal Messico al Cile, passando per Honduras,Cuba, Colombia, Venezuela, Bolivia e Argentina), facilitare i progetti di integrazione e accelerare il processo che permetta alla regione di parlare con una sola voce nello scenario internazionale. Si tratta in sostanza di mettere al centro la politica di integrazione e sovranità dell’America latina, su modello dell’Unione europea, come da tempo proposto dal presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (Amlo) . È un progetto ripreso anche da Lula nell’agosto scorso quando formalizzò la sua candidatura a presidente del Brasile. In quell’occasione si riferì anche alla necessità di creare una moneta unica latinoamericana.
Come in più occasioni ha affermato Amlo, tale progetto non comporta un antagonismo ideologico con gli Usa ma una politica di dialogo e di confronto sia con il gigante del Nord, sia con quello asiatico, la Cina, basata sul riconoscimento della sovranità dell’America latina.
Questa politica presuppone il rafforzamento, o la rivitalizzazione, di istituzioni latinoamericane nate nella prima ondata progressista, come la Unasur (Unione delle Nazioni sudamericane), il Mercosur ampliato e anche la Celac (Comunità di Stati latinoamericani e caribegni) che, con il reingresso del Brasile – deciso venerdi 6 gennaio da Lula -riacquista una proiezione continentale.
Secondo le tesi di Amlo, con la presidenza di Lula, questa nuova alleanza progressista permetterebbe all’America latina di trattare con gli Usa «accordi continentali» su alcuni settori strategici – alimentare, lotta alla diseguaglianza, ambiente, emigrazione- in tutta la regione che gli Usa definiscono «Emisfero occidentale». Dove ormai la Cina –e in parte minore la Russia- diventano concorrenti degli Stati uniti.
È questa la sostanza del pacchetto di proposte che Amlo dovrebbe presentare nel summit dell’America del Nord che inizia oggi a Città del Messico, alla presenza del presidente Joe Biden e del primo ministro canadese Justin Trudeau. La prima proposta è di procedere verso un’integrazione economica continentale: «Che si produca in America, in tutto il continente, quello che consumiamo», ha affermato il presidente messicano. In secondo luogo, la creazione di una «Alleanza per il benessere», concordata tra Nord e Sud dell’America per «ridurre povertà, promuovere politiche di inclusione e ridurre i flussi migratori, mediante investimenti e creazione di posti di lavoro». La terza proposta riguarda il quadro politico in cui dovrebbero inserirsi le due precedenti: porre fine alla dottrina Monroe, e dunque alle politiche di ingerenza degli Usa al sud del Rio Bravo, e sostituirle con altre basate sul rispetto della sovranità dei paesi latinoamericani.
Si tratta di temi sui quali Biden e una parte dei democratici sono sensibili. Lo scorso novembre il presidente ha nominato l’ex senatore Chris Dodd consigliere speciale per le Americhe. Biden lo considera «una voce di spicco sull’America latina». E chiedere il suo intervento significa che il capo della Casa bianca ha realizzato che la politica della sua Amministrazione verso il sud del Rio Bravo è allo sbando, in una fase di competizione con la Cina.
Una delle cause di tale fallimento è stato il sostanziale mantenimento della politica di sanzioni estreme contro Cuba (e Venezuela) decise dal suo predecessore Trump e rifiutata da tutti i principali paesi dell’America latina (ma anche dal Canada, dall’Ue). Sia Biden e soprattutto Dodd sanno che la politica del bloqueo è stata un fallimento, come aveva già detto Obama nel 2014.
Anche i dirigenti cubani riconoscono che la politica di duro scontro frontale promossa da Trump e tanto dannosa per l’isola non serve nemmeno gli interessi degli Usa. Per questo si sono detti disponibili a perseguire una politica, anche limitata, di avvicinamento. Con il Venezuela bolivariano di Maduro, una tale linea è già in corso da mesi.
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