La sempiterna questione meridionale
di Piero BEVILACQUA –
Scomparso da tempo dall’agenda politica dei governi e persino dagli slogan elettorali del ceto politico, il “continente Sud” riappare di tanto in tanto sullo scenario pubblico solo grazie all’ iniziativa di singoli studiosi. È accaduto lo scorso anno con un insieme di saggi di alcuni fra i maggiori studiosi del Mezzogiorno a cura di Sabino Cassese (Lezioni sul meridionalismo, il Mulino 2016) accade in questo scorcio d’anno per iniziativa di Guido Pescosolido (La questione meridionale in breve. Centocinquantanni di storia, Donzelli, pp.161, € 20). Si tratta anche in questo caso di una lodevole iniziativa che si lascia apprezzare soprattutto per l’ardimento intellettuale e storiografico con cui l’autore affronta quella che senza dubbio resta la più controversa questione della nostra storia unitaria. Un ardimento che può possedere solo chi, com’è il caso di Pescosolido, ha dedicato al tema una parte considerevole dei propri studi. E infatti l’operazione appare perfettamente riuscita, perché l’autore, in poco più di 150 pagine di testo dell’agile collana delle Saggine Donzelli, riesce a dar conto dei problemi, dei caratteri strutturali, delle svolte, delle stagioni politiche di ben 150 anni di una storia su cui si è accumulata una letteratura sterminata. Beninteso, l’autore, il più autorevole allievo di Rosario Romeo, ricostruisce l’intera vicenda storica e interpreta l’evoluzione del divario da un punto di vista liberal-liberistico (ma non neoliberistico) che non è quello di chi scrive. Ma bisogna riconoscere che un merito di questo libretto è lo sforzo continuo del suo autore di una obiettività interpretativa dei fatti realizzata tenendo conto dei più vari contributi e punti vista emersi negli studi degli ultimi decenni.
Senza esagerare nelle polemiche con i risorgenti neoborbonismi – che offuscano anche gli sforzi di chi legittimamente vuole fare storia degli sconfitti, privati di ogni storia – l’autore rivendica il carattere positivo dell’unificazione italiana, sia da un punto di vista politico istituzionale che economico sociale. Io non sono convinto che la scelta apertamente liberistica della Destra storica, all’indomani dell’unità, sia stata la migliore politica economica possibile. Benché occorra tener conto del contesto internazionale di allora, e dei limiti di manovra dei nostri governanti. Così come credo (e come ho cercato di provare) che i gruppi dirigenti ignorarono gravemente gli specifici problemi territoriali del Sud e si disfecero, con danno e per pregiudizio politico, dell’ esperienza bonificatrice dei tecnici borbonici. Ma certamente l’unità è stata una delle svolte politiche più rilevanti nella storia secolare del nostro Paese, di cui anche il Sud ha alla lunga beneficiato. Benché a prezzo di non pochi sacrifici e torti, come pure Pescosolido riconosce, ad es. nelle pagine dedicate al brigantaggio. D’altra parte l’autore non dimentica che «il Mezzogiorno è stata parte integrante dello sviluppo capitalistico nazionale, e il mercato meridionale decisivo ai fini dell’avvio e del consolidamento dell’industrializzazione del Nord».
Senza dubbio, la fase storica in cui i termini del divario si sono attenuati è quella del decennio 1962-1973, non ha caso il periodo interno al trentennio d’oro delle politiche keynesiane nel mondo occidentale. Una stagione storica in cui non soltanto l’andamento del PIL tra le due sezioni territoriali del Paese tende ad avvicinarsi, ma quella in cui tanti altri indici della vita sociale, civile e culturale migliorano decisamente. Dopo quella stagione, pur conoscendo il Sud trasformazioni radicali, la divaricazione in termini di reddito non si è più attenuata e oggi, a quasi 10 anni dall’esplosione della crisi mondiale, ben 40 punti separano il PIL pro-capite meridionale da quello del Centro-Nord .
L’autore non si sottrae allo sforzo di individuare le cause della crescita del divario nelle scelte di politica economica e nella condotta delle forze politiche e sindacali, che sono seguite a quegli anni – su cui non concordo del tutto – e nella grande svolta istituzionale del 1970: «il grande fallimento delle regioni e delle classi dirigenti meridionali». Un giudizio giustamente severo che io attenuerei per i governi dell’Abruzzo e della Puglia. Senza dimenticare, più in generale, «la non funzionalità del “sistema Italia”, nelle sue articolazioni, giudiziarie, istituzionali, politiche, amministrative».
C’è tuttavia un rischio oggi, nel riproporre la questione meridionale come divaricazione economica netta Centro-Nord-Sud: quella di favorire una indiscriminata prospettiva di sviluppo. Non solo perché alcune tare storiche del Mezzogiorno, come la criminalità mafiosa, sono ormai diventate nazionali. E non solo perché il Sud è un continente molto variegato con elementi di dinamismo in vari ambiti – come lo stesso Pescosolido ricorda – che non consentono una raffigurazione uniforme. Ma soprattutto perché il Sud è per eccellenza l’area delle disuguaglianze italiane, esaltate negli ultimi decenni dalle politiche neoliberistiche di tutti i governi. Qui vivono famiglie gettate nella disperazione sociale e una borghesia parassitaria che alimenta consumi sontuosi senza produrre alcunché, che distorce in senso clientelare l’amministrazione pubblica, che è generalmente incolta e dunque contribuisce ad abbassare il tono civile dell’intera società. Questa borghesia, che investe prevalentemente nell’edilizia e nel saccheggio del territorio, impegnata a intercettare le risorse che passano attraverso le regioni, è la fonte di tanti problemi del Mezzogiorno, anche per gli oscuri legami che non di rado intrattiene con la criminalità.
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