LA “LEZIONE VIETNAMITA” E L’IMMAGINARIO AMERICANO da IL MANIFESTO
La «lezione vietnamita» e l’immaginario americano
Vietnam La più sofisticata macchina bellica del globo cedette alla determinazione di guerriglieri in ciabatte
Andrea Ruggeri 30/04/2025
Un’istantanea del 30 aprile 1975 – una processione di figure umane che ascendono una scala instabile verso gli sportelloni di un elicottero – sigilla la caduta di Saigon, capitale di un Sud Vietnam. L’anno seguente l’unificazione formale del Vietnam. Per i vietnamiti, questo evento rappresentò il culmine di una prolungata lotta di liberazione: dal giogo coloniale francese, dall’interludio occupazionale giapponese, e infine dalla guerra imperialista americana.
PER GLI STATI UNITI, la perdita assumeva i contorni di un paradosso storico: una sconfitta inflitta da un paese e da un popolo la cui stessa esistenza sfuggiva alla coscienza della maggioranza dei cittadini americani all’alba del conflitto. Eppure, questa guerra divenne un catalizzatore di fermento sociale e culturale: i campus universitari si fecero epicentro di un movimento pacifista che germinò in una produzione artistica, dalle ballate popolari alle narrazioni cinematografiche, intessute di sentimenti antimilitaristi che avrebbero segnato l’immaginario e i valori politici di intere generazioni. Negli Stati Uniti, ma non solo. La più sofisticata macchina bellica del globo si trovò a cedere di fronte alla determinazione di guerriglieri in ciabatte guidati da un’ideologia marxista-leninista, ma soprattutto spinti da un’irriducibile volontà di autodeterminazione nazionale.
Tuttavia, l’approdo al 30 aprile 1975 fu il risultato di una sequenza di eventi cruciali. La disfatta francese a Dien Bien Phu nel 1954 decretò la fine di un confronto coloniale e sancì la divisione del Vietnam lungo la linea del diciassettesimo parallelo.
Il conflitto fu catalizzatore di fermento sociale e culturale: dai campus universitari nacque un movimento pacifista che influenzò, per generazioni, narrazioni musicali e cinematografiche
SEGUÌ, NEL novembre del 1963, una doppia cesura: prima la deposizione violenta di Diem, leader di Saigon inizialmente sostenuto e poi abbandonato dagli americani, e successivamente, il 22 novembre, l’assassinio di Kennedy. Un presidente attraversato da crescenti dubbi sul coinvolgimento militare in Vietnam da lui stesso propugnato. La “Risoluzione del Tonchino” del 1964, votata dal Congresso americano in risposta a un presunto (e tuttora avvolto nel mistero) attacco navale, fornì la base giuridica per una progressiva escalation militare. La decisione statunitense, maturata nel luglio del 1965 al termine di un processo deliberativo complesso e controverso, di dispiegare 170.000 soldati sul suolo vietnamita rappresentò un punto di non ritorno.
LA GRANDE OFFENSIVA del Têt nel gennaio del 1968 costituì una svolta: le forze nordvietnamite e i guerriglieri Vietcong lanciarono una serie di assalti contro le principali città del Sud, rivelando la fallacia delle rassicuranti proiezioni belliche dei vertici militari e politici americani e segnalando l’impossibilità di una vittoria in un contesto di crescente dissenso nell’opinione pubblica statunitense. Il computo finale di quella lunga stagione di violenza enumera cifre di una contabilità efferata: almeno 58.000 soldati americani morti, un numero imprecisato di alleati morti nel conflitto, 270.000 esistenze annullate tra le file di Saigon, un milione di storie individuali inghiottite dal fronte nordvietnamita e vietcong, e una moltitudine incalcolabile di vite civili recise tra le geografie martoriate di Vietnam, Laos e Cambogia. Gli accordi siglati a Parigi nel gennaio del 1973, negoziati in una coreografia di ritiri progressivi, sancirono la fine di un’illusione americana. La caduta di Saigon nel 1975 rappresentò l’atto conclusivo, preludio all’unificazione di un paese la cui lotta, pur molteplice nelle sue matrici, trovò una singolare personificazione nella figura di Ho Chi Minh, la cui scomparsa nel 1969 non ne attenuò la portata simbolica. Fu lui a scandire le parole dell’indipendenza vietnamita in un discorso del 1945, innestando nel tessuto della sua dichiarazione un’eco lontana, una citazione americana del 1776: «Tutti gli uomini sono creati uguali». La sua biografia, segnata dall’esperienza viva della discriminazione e dell’oppressione sotto la cappa coloniale francese, forgiò una visione politica che percepiva l’imperialismo come un sistema reticolare, una macchina globale di estrazione di ricchezza dalle periferie a beneficio dei centri di potere occidentali. La sua leadership nella tenace opposizione ai francesi prima e agli americani poi, lo elevò a emblema globale della resistenza anticoloniale.
AL DI LÀ DEL FALLIMENTO americano nel decifrare le aspirazioni di liberazione nazionale incarnate da Ho Chi Minh – un’incomprensione che coinvolse figure come Woodrow Wilson e Franklin D. Roosevelt – è degno di nota come anche una parte significativa della sinistra europea, imbrigliata nelle proprie categorie ideologiche, non seppe o non volle cogliere e sostenere le istanze anticolonialiste e antiimperialiste che Ho Chi Minh rappresentava prima dell’escalation del conflitto americano. Il segretario alla Difesa Robert S. McNamara, con la lucidità amara di chi ha scrutato l’abisso, ammonì sull’imperativo di una continua analisi della «tragedia e le lezioni del Vietnam». A cinquant’anni da quella vicenda che ha i contorni di un paradigma storico, dovremmo interrogarci sugli errori di prospettiva che, con inquietante regolarità, viziano la politica estera: la fragilità delle certezze ideologiche di fronte alla fluidità del reale, la difficoltà intrinseca nel definire i contorni sfuggenti dell’avversario e nel penetrarne le motivazioni recondite. E ancora, la vicenda vietnamita illumina la trama sottile e spesso manipolatoria che connette le agende della politica estera con le dinamiche della politica interna, il ruolo mutevole e decisivo dell’opinione pubblica, il peso delle istituzioni parlamentari, l’influenza delle élite intellettuali e la salienza silente degli interessi economici e industriali.
Più di 2 milioni di civili uccisi. Il fronte mondiale antimilitarista
Napalm e «Agente Orange» Le guerre segrete americane in Laos e Cambogia ancora fanno vittime tra le popolazioni
Emanuele Giordana 30/04/2025
La guerra in Vietnam non venne combattuta solo nel Sudest asiatico dove coinvolse, a diverso titolo, la Thailandia (alleata), il Laos e la Cambogia (le cosiddette guerre segrete). Venne combattuta nelle piazze di tutto il mondo con una mobilitazione che vide organizzare addirittura navi con viveri e medicinali per sostenere i Vietcong. Clamorosa fu poi la risposta civile americana con manifestazioni enormi (la stampa statunitense ebbe un ruolo chiave di denuncia, a cominciare dalla strage di My Lay) con incontri dove i reclutati bruciavano le cartoline.
E famosi furono anche i monaci buddisti che si diedero fuoco per deplorare la catastrofe che si era abbattuta sull’Asia: una vera e propria carneficina con un altissimo numero di vittime. Quante? Scrivere un numero definitivo è assai complicato se si mettono assieme, per esempio, tutte le vittime civili causate dalla guerra nella sua massima espansione territoriale. Ed è difficile capire quante gente morì dopo, per gli effetti di armi chimiche come il napalm, un gel incendiario, e il famoso “Agente Arancio”, un erbicida alla diossina i cui effetti devastanti su persone, animali e ambiente non è ancora terminato e riguarda ancora milioni di persone.
Infine, la guerra del Vietnam fece strage anche delle popolazioni laotiane a cambogiane che ancora oggi continuano a soffrire dell’esplosione postuma di ordigni e cluster bomb (a grappolo) inesplose (circa un terzo), spesso trascinate dal fango e dai fiumi a chilometri di distanza. Le bonifiche non ne hanno ancora avuto ragione e nel solo Laos questa eredità è già costata la vita a oltre 20mila persone. Sulle vittime americane il Memoriale dei Veterani del Vietnam a Washington ne elenca oltre 58.300: membri delle forze armate Usa uccisi o dispersi in azione.
Nel 1995 – ricorda l’Enciclopedia britannica – Hanoi pubblicò una stima del numero di vittime durante il conflitto con un bilancio di 2 milioni di civili oltre a circa 1.100.000 combattenti nordvietnamiti e vietcong. Nel Sud sarebbero invece morti 200/250mila soldati sudvietnamiti Tra gli alleati Usa, la Corea del Sud ha avuto più di 4.000 morti, la Thailandia 350, l’Australia più di 500, la Nuova Zelanda alcune decine.
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