LA CRISI CLIMATICA PEGGIORA E NON FA NOTIZIA da VALIGIA BLU
La crisi climatica peggiora e non fa notizia
Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell’atmosfera.
Angelo Romano 22/804/2023
L’idea di fare un round-up settimanale sulla crisi climatica è nata sulla scia della newsletter sul clima del Guardian che ogni settimana pubblica i dati sull’anidride carbonica nell’atmosfera, un indicatore che ci racconta lo stato della crisi climatica e della salute del nostro pianeta. Questa settimana, la concentrazione atmosferica di CO2, il gas serra principale responsabile del riscaldamento globale, ha superato per la prima volta le 424 parti per milione (ppm). Nei giorni scorsi aveva già superato le 423. Più della metà della CO2 prodotta dalle attività umane, dalla Rivoluzione Industriale ad oggi, è stata rilasciata nell’atmosfera dal 1990. Purtroppo, questo dato non fa notizia e non trova riscontro nelle politiche climatiche dei governi, le cui azioni di taglio delle emissioni sono puntualmente dilazionate nel tempo in nome della sicurezza energetica (e a garanzia dei difficili compromessi richiesti dalla transizione ecologica). E nel frattempo si continua a criminalizzare (e delegittimare) le azioni di disobbedienza civile degli attivisti climatici.
Come scrive Antonio Scalari, in un post su Facebook, “è molto difficile, per il nostro cervello, comprendere l’entità di un cambiamento della chimica atmosferica di questa portata.
Circa 56 milioni di anni fa, dieci milioni di anni dopo l’estinzione dei dinosauri non-aviani, si verificò un rapido riscaldamento globale, un evento chiamato Massimo Termico del Paleocene-Eocene (PETM). La causa fu un imponente rilascio di gas serra, tra cui la CO2. La temperatura sul pianeta aumentò di 5 o 6 gradi nel corso di alcune migliaia di anni. Un evento molto rapido, in termini geologici. Noi oggi stiamo mandando carbonio in atmosfera a un tasso circa 10 volte maggiore rispetto a quello che doveva esserci all’inizio del PETM. Non so se questo confronto aiuti a capire quello che stiamo facendo oggi.
Il grafico che si vede qui sopra si chiama curva di Keeling, dal nome dello scienziato, Charles David Keeling, che nel 1958 avviò il programma di misurazione della concentrazione atmosferica di CO2 presso l’Osservatorio di Mauna Loa, nelle isole Hawaii. Keeling iniziò a interessarsi alla misurazione della CO2 negli anni ‘50, quando era studente di post-dottorato al California Institute of Technology. Il suo lavoro destò l’interesse di Harry Wexler, dell’Ufficio Meteorologico degli Stati Uniti, e di Roger Revelle, dello Scripps Institution of Oceanography, un altro scienziato protagonista della storia della scoperta del riscaldamento globale. A queste due organizzazioni Keeling propose l’idea di un programma globale per la misurazione della concentrazione atmosferica di CO2 in località remote sul pianeta. Grazie ai fondi raccolti durante l’anno geofisico internazionale, il programma riuscì a partire nel 1958.
Già nel 1960 Keeling scoprì che ci sono evidenti variazioni stagionali dei livelli di CO2: la sua concentrazione raggiunge un picco a maggio e un minimo in settembre, prima dell’autunno. Questo fenomeno, visibile nell’andamento a “zig-zag” della curva, è dovuto all’attività fotosintetica delle piante. Quando in primavera le piante riprendono a crescere e a fare la fotosintesi, prelevano CO2 dall’atmosfera per usarla come fonte di carbonio per la crescita e la riproduzione. Questo causa la diminuzione dei livelli di CO2, che prosegue durante la stagione estiva. La fluttuazione segue il ciclo stagionale dell’emisfero settentrionale perché qui si trova la maggior parte delle terre emerse e della massa vegetale del pianeta. Le foreste equatoriali non contribuiscono all’oscillazione come quelle alle latitudini maggiori perché qui i cambiamenti stagionali causano differenze molto più grandi nella fotosintesi (un altro importante attore della fotosintesi globale è il plancton oceanico).
Lo studio della CO2 atmosferica ha permesso di fare un’altra scoperta, che riguarda la concentrazione relativa di due isotopi del carbonio, il 12C e il 13C. Sappiamo che il primo, più leggero, è quello che le piante “preferiscono” utilizzare per la fotosintesi, soprattutto le piante che attuano la fotosintesi di tipo C3 (e il 90% delle piante è C3).
I combustibili fossili si formano dai resti di organismi vegetali vissuti decine e centinaia di milioni di anni fa. Perciò il loro carbonio è più povero di 13C. Bruciando combustibili fossili noi immettiamo in atmosfera questo carbonio. Per questo motivo, il rapporto 13C/12C dovrebbe diminuire col tempo. È ciò che infatti si osserva. Una diminuzione di questo rapporto, dalla Rivoluzione Industriale a oggi, è stata documentata con misurazioni dirette e in carote di ghiaccio.
Tra gli anni ‘60 e ‘70 la ricerca di Keeling contribuì a dimostrare, con sempre più forte evidenza, che i combustibili fossili stavano cambiando la chimica dell’atmosfera. Nel 2005 Charles F. Kennel, professore emerito dello Scripps Institute of Oceanography, disse che «le misurazioni di Keeling dell’accumulo globale di anidride carbonica nell’atmosfera hanno posto le basi per le profonde preoccupazioni odierne sul cambiamento climatico. Sono il singolo set di dati ambientali più importante raccolto nel XX secolo».
La curva di Keeling è diventata un indicatore dello stato della crisi climatica e, perciò, anche della salute del nostro sistema politico, economico, mediatico, sociale. Della sua capacità, finora insufficiente, di reagire per fare in modo che questa curva – come quella dei contagi durante la pandemia – si appiattisca il prima possibile”.
Perché Germania ha deciso di uscire dal nucleare
La scorsa settimana sono stati chiusi in Germania gli ultimi tre reattori nucleari ancora attivi: il reattore di Emsland, nella Bassa Sassonia, l’impianto di Isar 2 in Baviera, e quello di Neckarwestheim, nel Baden-Württemberg, nel sud-est della Germania. La dismissione – che segna la fine dell’utilizzo dell’energia nucleare in Germania che fino a 20 anni fa riusciva a garantire al paese un terzo della sua energia elettrica – arriva nel bel mezzo della crisi energetica esacerbata dall’invasione russa in Ucraina e ha generato un grande dibattito sulla sua necessità, soprattutto perché il governo ha dovuto fare ricorso al carbone.
Nel 2002 il governo del cancelliere socialdemocratico, Gerhard Schröder, decise che tutte le centrali nucleari del paese sarebbero state chiuse entro il 2022. Scadenza prorogata al 2036 dalla cancelliera la cristianodemocratica Angela Merkel, prima che il disastro nucleare alla centrale di Fukushima, in Giappone, non cambiò di nuovo le carte in tavola, ripristinando il piano di dismissione di Schröder.
Da quando è stata presa la decisione di eliminare gradualmente il nucleare negli anni Duemila, la percentuale di carbone nella produzione di elettricità in Germania è scesa dal 43% nel 2011 (quando sono state disattivate sette centrali nucleari) al 23,4% nel 2020. Dal 2007 non sono state progettate/costruite nuove centrali a carbone. Nel 2020 poi il governo è stata approvata l’eliminazione graduale dell’energia a carbone entro il 2038. Tuttavia, nel 2022, in Germania il carbone è stato la prima fonte di produzione dell’energia elettrica con oltre il 30%, davanti all’eolico (22%), al gas (13%) e al solare (10%), riporta Il Post.
I sostenitori del nucleare hanno chiesto di rivalutare completamente o almeno di ritardare l’uscita in un momento in cui la perdita delle forniture di gas dalla Russia ha portato a preoccupazioni diffuse sulla sicurezza energetica e il rapido aumento dei prezzi dell’energia ha messo a dura prova i bilanci delle famiglie e delle aziende.
Il governo ha commissionato un cosiddetto “stress test” nell’estate del 2022 per verificare se avesse senso far funzionare i reattori rimanenti alcuni mesi in più per garantire la stabilità della rete durante l’inverno 2022/23. Il risultato è stato che un’estensione limitata del tempo di funzionamento sarebbe stata necessaria per garantire la stabilità della rete. Il cancelliere Olaf Scholz ha infine deciso di estendere il funzionamento delle tre centrali fino al 15 aprile 2023, escludendo però ulteriori proroghe. Anche gli operatori degli impianti hanno dichiarato che non sarebbe stato possibile far funzionare le centrali più a lungo dal punto di vista tecnico, anche se ciò era auspicabile dal punto di vista politico.
Cosa cambierà con la nuova legge UE sulla deforestazione?
L’Unione Europea è in procinto di approvare una nuova legge che impedirà la vendita di prodotti come l’olio di palma, il caffè e il cioccolato se provenienti da terreni deforestati. Il regolamento sui prodotti esenti da deforestazione è parte del Green Deal dell’UE per raggiungere emissioni nette zero entro il 2050. Sostituisce una legge esistente che mira a prevenire la vendita di prodotti di legno tagliati illegalmente. L’UE è una dei principali importatori di prodotti collegati alla deforestazione.
In base alla proposta di legge, in cantiere da diversi anni, le aziende dovranno dimostrare di non aver sfruttato terreni deforestati a partire dal 31 dicembre 2020. Gli Stati saranno classificati come a basso, medio o alto rischio di produzione di beni legati alla deforestazione. I produttori che operano in paesi ad alto rischio saranno soggetti a un controllo maggiore rispetto a quelli che operano negli Stati a rischio minore.
I prodotti interessati sono l’olio di palma, la carne bovina, il caffè, il cacao, la soia, il legno e gomma. E in più anche alcuni prodotti derivati come il cuoio, il cioccolato, i mobili, il carbone e la carta stampata.
Tra il 2008 e il 2017, due terzi dei prodotti legati alla deforestazione maggiormente consumati nell’UE sono stati l’olio di palma (in blu) e la soia (in rosso), secondo l’analisi della Commissione.
Alcuni prodotti come il mais, i biocarburanti e il bestiame non sono stati inclusi nell’elenco, nonostante fossero stati previsti in un primo momento, mentre è stata inserita la gomma, originariamente esclusa.
L’inclusione del mais e della gomma nella legislazione “richiederebbe uno sforzo molto grande e un onere finanziario e amministrativo significativo con un ritorno limitato nel contenimento della deforestazione”, si legge nel rapporto di valutazione d’impatto della Commissione. Il commercio di questi prodotti nell’UE è elevato: circa 2,8 miliardi di euro all’anno per il mais e 17,6 miliardi di euro per la gomma.
Per Andrea Carta, avvocato di Greenpeace, la proposta di legge rappresenta un “atto legislativo innovativo” e una “vera svolta” per il commercio: “Immaginate se si potesse usare lo stesso modello per i minerali, i metalli, la plastica, i tessuti, [o] per escludere il lavoro forzato, il lavoro minorile, le violazioni dei diritti umani”.
Secondo il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), la riduzione della deforestazione e del degrado forestale riduce le emissioni di gas serra. Il rapporto speciale dell’IPCC sui cambiamenti climatici e la terra stima che il 23% delle emissioni globali di gas serra causate dall’uomo tra il 2007 e il 2016 provenga dall’agricoltura, dalla silvicoltura e da altri usi del suolo. Secondo la valutazione d’impatto, senza la legge, il consumo e la produzione di beni che l’UE si prefigge comporterebbero la deforestazione di 248.000 ettari entro il 2030, una superficie pari alla copertura forestale combinata di Svizzera e Paesi Bassi. Ciò equivale a 110 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 all’anno entro il 2030.
Secondo le stime, la legge porterà a una diminuzione della deforestazione del 29% entro la fine di questo decennio, il che si tradurrà in almeno 71.000 ettari di foresta meno colpiti dalla deforestazione e dal degrado forestale a partire dal 2030. Ciò significherebbe una riduzione di almeno 31,9 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 ogni anno con un risparmio annuale di almeno 3,2 miliardi di euro.
La legge è stata accolta con favore dai paesi dell’Unione Europea, secondo i quali contribuirà a ridurre il contributo dell’UE alla deforestazione nel mondo. Ma in molti hanno criticato il regolamento per gli effetti che potrebbe avere sui paesi extra-UE e sui piccoli agricoltori.
Le undici persone morte in India a causa di un’ondata anomala di calore estremo mostra cosa succede se città e Stati non sono preparati agli impatti della crisi climatica
Una ondata di calore estremo ha provocato la morte di 11 persone e il ricovero di altre 50 durante un evento governativo alla periferia di Mumbai in India. La temperatura massima registrata ha superato i 35°C.
Raramente negli ultimi anni sono morte così tante persone per il caldo in un unico evento. Un campanello di allarme, scrive Somini Sengupta sul New York Times, per una nazione estremamente vulnerabile ai rischi del riscaldamento globale. L’anno scorso l’India è stata colpita da una lunga ondata di calore e quest’anno la stagione calda è iniziata con un anticipo anomalo. È stato registrato, infatti, il mese di febbraio più caldo della storia del paese.
Le temperature sono salite in modo inaspettato, prosegue Sengupta. Prima dell’evento non era stata segnalata alcuna allerta termica per la zona, e a metà pomeriggio il Dipartimento meteorologico aveva emesso un comunicato stampa che avvertiva di un aumento delle temperature massime, ma che si riferiva ai cinque giorni successivi sull’intero Stato del Maharashtra. Nulla insomma faceva presagire cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
Secondo i rapporti meteorologici locali, gli alti livelli di umidità, che a mezzogiorno oscillavano tra il 60 e il 70%, sono stati un fattore fondamentale. È proprio questa una delle lezioni da imparare, spiega Sengupta. In alcune zone costiere, l’umidità è considerata un fattore di allarme per il caldo. Ma non viene inserita in modo uniforme nelle allerte di calore per tutte le aree.
Quanto accaduto mette in evidenza quanto siano impreparati molti governi locali e statali ad affrontare i pericoli del caldo estremo.
Un rapporto di un think tank indiano indipendente, il Centre for Policy Research, ha rivelato questi rischi solo poche settimane fa. Il rapporto ha riconosciuto alle agenzie governative il merito di aver creato un sistema di allerta precoce per le ondate di calore e di aver lavorato in modi creativi per diffondere i messaggi, tra cui jingle radiofonici, cartelloni pubblicitari, messaggi WhatsApp e cortometraggi su YouTube.
Ma il rapporto ha rilevato che poche città e Stati indiani dispongono di piani d’azione contro il caldo, progettati per proteggere vite e mezzi di sussistenza. Molti di essi avevano obiettivi ambiziosi, come la creazione di centri di raffreddamento e il miglioramento dell’accesso all’acqua. Ma la maggior parte mancava di fondi. Molti di essi non avevano nemmeno un modo per identificare i cittadini più vulnerabili. La maggior parte “ha una visione eccessivamente semplificata del rischio”.
La cosa forse più preoccupante è che i piani d’azione statali e locali contro il caldo non sono sempre disponibili al pubblico, conclude Sengupta. Lo Stato di Maharashtra non aveva ancora un piano pronto nonostante febbraio sia stato uno dei mesi più caldi di sempre, non è chiaro se fosse già in vigore al momento della tragedia di domenica e se questo avrebbe permesso di evitare morti e ricoveri.
Immagine in anteprima: Densità di CO2 nell’atmosfera. L’immagine è il risultato di una simulazione realizzata a novembre 2015 dal ‘Earth science program’ della NASA per studiare l’impatto che una riduzione della capacità della terra e degli oceani di assorbire una parte dell’anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili avrebbe sul livello di concentrazione atmosferica di questo gas. Credit: NASA/GSFC. Licenza: Public Domain.
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