LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE, BILANCI E DOMANDE RADICALI da IL MANIFESTO
La Corte penale internazionale, bilanci e domande radicali
TEMPI PRESENTI A proposito del volume «Giustizia universale?», della giurista e docente Chantal Meloni (il Mulino). L’autrice, tra le altre cose, ha collaborato con il «Palestinian Centre for Human Rights» di Gaza e ha lavorato sui casi dell’Uganda, del Congo e del Darfur. Il 20 a Milano (Fabbrica Esperienza) presentazione del libro insieme a quello di Roberta De Monticelli
Niccolò Nisivoccia 15/10/2024
È appena uscito dal Mulino Giustizia universale? Tra gli Stati e la Corte penale internazionale: bilancio di una promessa, di Chantal Meloni (pp. 272, euro 22). Ed è un libro che s’inscrive nel medesimo solco nel quale, di recente, si è collocato anche Umanità violata di Roberta De Monticelli, ma da un punto di vista speculare. Se in Umanità violata è una filosofa a confrontarsi con il diritto nei suoi elementi costitutivi, in Giustizia universale? è viceversa una giurista a confrontarsi con una domanda la cui matrice è prima di tutto filosofica. Vale a dire: è possibile concepire l’esistenza di una «giustizia universale»? È questa la domanda radicale da cui il libro sembra scaturire, e da cui derivano anche le successive domande più strettamente giuridiche: se una «giustizia universale» può essere concepita, è ragionevole aspirare anche alla sua realizzazione?
SE È VERO che questa è la promessa su cui si fonda il senso stesso della giustizia penale internazionale: e cioè il fatto di poter rappresentare un «ecosistema» che sia «capace di porre fine all’impunità degli autori dei più gravi crimini internazionali, quali genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressioni»; se questo è vero, la promessa è stata mantenuta? O almeno: esistono i presupposti perché possa esserlo? In Umanità violata l’argomento specifico del discorso è ciò che sta accadendo a Gaza, dallo scorso 7 ottobre e da troppi decenni; qui invece è la giustizia penale internazionale in tutte le sue declinazioni. Però è identica, nei due libri, la tensione etica che li anima.
Chantal Meloni è una giurista, come si è detto, ma non è solo una teorica: è una docente di diritto penale, specializzata in diritto penale internazionale, ma collabora attivamente anche a molti progetti che la vedono coinvolta nel corpo vivo delle questioni (in passato, fra le molte cose, ha collaborato con il Palestinian Centre for Human Rights di Gaza e lavorato come assistente dei giudici della Corte penale internazionale sui casi dell’Uganda, del Congo e del Darfur; attualmente collabora, ad esempio, con l’European Centre for Constitutional and Human Rights di Berlino). E parla dunque con grande e completa cognizione di causa quando delinea i tre elementi da cui l’ecosistema della giustizia penale internazionale risulta costituito: la Corte penale internazionale, la giurisdizione universale e la società civile. È il cuore del libro, la sua parte preponderante: sono i tre capitoli centrali, ricchissimi anche nei riferimenti bibliografici (tanto alla letteratura italiana quanto a quella straniera).
La Corte penale internazionale, in primo luogo: nata nel 1998, per effetto dello Statuto adottato al termine della Conferenza diplomatica di Roma, quale frutto di un lungo percorso iniziato all’indomani della Seconda guerra mondiale. Un «punto di rottura con il passato», sottolinea la stessa Meloni; «un’istituzione rivoluzionaria», l’aveva subito definita Antonio Cassese (che della giustizia penale internazionale è sempre stato uno dei più autorevoli protagonisti).
Per la prima volta, come osserva ancora Chantal Meloni, veniva istituita «una giurisdizione penale internazionale permanente e non retroattiva», laddove fino ad allora l’unico modello conosciuto era stato quello, «imposto dalle potenze vincitrici o dal Consiglio di sicurezza dell’Onu», di tribunali internazionali ad hoc ed ex post (il cui primo esempio era stato Norimberga). La giurisdizione universale, in secondo luogo: intesa come facoltà dei singoli Stati, esercitabile in via sussidiaria rispetto alla Corte penale internazionale, di far valere «la propria potestà punitiva in relazione a una determinata fattispecie criminosa, a prescindere dall’esistenza di qualsiasi criterio di collegamento con i fatti, ossia indipendentemente dal luogo in cui si verifica, dalla nazionalità dell’autore del reato o dalla nazionalità della vittima», al fine di «punire una condotta che integra un crimine internazionale, anche a prescindere dai propri interessi nazionali» (e qui si pensi al processo che si era celebrato in Israele contro Adolf Eichmann, su cui Hannah Arendt aveva scritto La banalità del male, o a quello contro Pinochet in Spagna).
LA SOCIETÀ CIVILE, infine: perché il diritto è un campo vasto, e nessuna norma e nessuna pratica potrebbero mai pretendere di esaurirsi in sé stesse e di imporsi dall’alto secondo schemi precostituiti. Questo significa, nel caso della giustizia penale internazionale, che il suo progresso non sarebbe possibile senza il sostegno di tutte quelle organizzazioni private – alle quali Chantal Meloni assegna appunto il nome omnicomprensivo di «società civile», preferendolo a quello di «ong» anche per via delle accezioni negative assunte da questo termine negli ultimi anni «a causa di campagne volte a sminuire la portata del lavoro fatto o a mettere in dubbio la genuinità dei fini perseguiti» – impegnate «nella difesa dei diritti umani» e dedicate «alla lotta all’impunità per i crimini internazionali». Da questo punto di vista la società civile non solo può svolgere, come spesso svolge, un ruolo fondamentale in chiave propulsiva rispetto all’apertura delle indagini, ma è fondamentale anche in un senso più ampio, in chiave culturale: nella promozione di una consapevolezza più diffusa, collettiva, rispetto alle questioni in gioco.
Non essendo l’autrice solo una teorica, tutto questo è comunque molto più di una semplice ricostruzione di un quadro, proprio perché la giustizia penale internazionale è una realtà nella quale l’autrice stessa è immersa personalmente. Fisicamente, potremmo anche dire. E si sarà già capito che la sua risposta a quella domanda originaria – è possibile concepire una «giustizia universale»? – è decisamente affermativa: non solo è possibile, ma è anche necessario. Certo: non sempre la giustizia penale internazionale, in questi anni, ha dato buona prova di sé. I casi affrontati, sia dalla Corte che dai singoli Stati, sono stati numerosi: ma non basta. Troppo di frequente, in particolare, la sensazione è quella di un’eccessiva deferenza nei confronti degli Stati più potenti.
E QUINDI «l’universalità della giustizia penale a fronte della commissione dei più gravi crimini contro l’umanità» rimane «un’aspirazione e non ancora una realtà», così come lo stesso ecosistema della giustizia penale internazionale appare a sua volta «ancora imperfetto». Tuttavia la promessa che lo fonda mantiene per intero la propria validità, anche solo come impegno da assumere concretamente: è questo che ci dice Chantal Meloni. E le medesime parole sulle quali si conclude Umanità violata possono allora valere anche qui, alla fine, come analogo segno di fiducia e speranza: la giustizia sarà sempre possibile, ha scritto Roberta De Monticelli, fino a quando ci ricorderemo che «le decisioni finali non sono mai i sistemi o le istituzioni a prenderle, senza il volto o la mano di un individuo che firma un atto, o un atto contrario. E se ‘ordine e giustizia non vanno sempre a braccetto’ non è colpa della Storia (…) ma degli individui in carne ed ossa che hanno approvato questo divorzio». Non sono forse parole, infatti, che possiamo ripetere anche in relazione alla «giustizia universale»?
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Il volume di Chantal Meloni verrà presentato domenica 20 ottobre a Milano (ore 19, FE Fabbrica Esperienza, via Brioschi 60) insieme al volume di Roberta De Monticelli Umanità violata.
Le autrici saranno in dialogo con Niccolò Nisovoccia.
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