LA CATASTROFE DELLE URNE VUOTE. LE CAUSE DI UN FALLIMENTO da IL MANIFESTO e IL FATTO
Regionali: corruzione, opacità, mediocrità. Le cause di un fallimento
REGIONALI. La principale sorpresa di queste elezioni regionali non viene dall’esito del voto, largamente anticipato dall’insipienza delle opposizioni prima ancora che dai sondaggi. Quel che più colpisce è la diserzione dalle […]
Pino Ippolito Armino 16/02/2023
La principale sorpresa di queste elezioni regionali non viene dall’esito del voto, largamente anticipato dall’insipienza delle opposizioni prima ancora che dai sondaggi. Quel che più colpisce è la diserzione dalle urne nelle due regioni che rappresentano per motivi vari la parte più avanzata della società italiana. È certamente vero che la partecipazione al voto, dal dopoguerra a oggi, è andata via via scemando; il 18 aprile del ‘48 andò al voto il 92% degli italiani, alle ultime elezioni politiche, lo scorso 25 settembre, il 73%. Quasi un elettore su cinque in meno nell’arco di poco più di settant’anni. Ma il voto regionale indica qualcosa di assai più pervasivo e dirompente.
Le prime elezioni per i consigli regionali si sono svolte il 7 giugno 1970. Allora nel Lazio votò il 92% degli elettori e in Lombardia il 96%; oggi si registra un’affluenza, rispettivamente del 37% e del 42%. Un vero e proprio crollo della partecipazione, più di un elettore su due in meno a 50 anni dalla nascita del nostro regionalismo. Questa massiccia astensione dal voto rivela la distanza praticamente incolmabile fra le istituzioni e i cittadini. Il regionalismo italiano è fallito, crollato sotto il peso di troppi scandali, di amministrazioni lontane e opache, di classi politiche mediocri ma fedeli ai partiti grazie a leggi elettorali che sono state appositamente studiate per conservare il potere. E probabilmente non basta.
Il decentramento attuato non trova corrispondenza nei bisogni reali della società italiana. Il servizio sanitario nazionale, in particolare, spacchettato per venti ha sortito prestazioni sempre più inadeguate, maggiori profitti privati a danno del pubblico, oscena competizione per trasferire risorse economiche dalle regioni più povere a quelle più ricche. La sinistra, cui si deve il primo impulso per la nascita dell’istituto regionale, dovrebbe tornare a riflettere su decentramento e autonomie, particolarmente ora che, nonostante la crescente distanza fra governi regionali e cittadini, si vorrebbe mettere in atto la disastrosa riforma del Titolo V della Costituzione.
Ma dov’è la sinistra? L’esito elettorale in Lazio e in Lombardia rafforza la convinzione che le promesse elettorali generose ma improvvisate, come quella di Unione Popolare, non danno buoni risultati. Sappiamo da tempo che il Partito Democratico non si fa portavoce di radicali critiche a un sistema economico, il neoliberismo, che rischia di trascinare il genere umano all’estinzione per la sua congenita incapacità a separare sviluppo e profitti, progresso economico e distruzione dell’ambiente. Sappiamo anche che una parte non marginale dell’elettorato italiano tradizionalmente di sinistra, ancora disposto ad andare a votare per far muro contro le destre, sceglie il Partito Democratico, per l’assenza di un soggetto politico alternativo e maturo che fatica a farsi strada per l’insufficiente forza delle sua comunicazione ma ancor più per non aver fatto fino in fondo i conti con le eredità del passato.
In queste circostanze non c’è contraddizione nel lavorare per la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra e nell’auspicare che le convulsioni per la definizione di una linea politica e per l’individuazione di una leadership portino infine il Partito Democratico ad abbandonare le cause comuni con le destre per abbracciare quelle che furono storiche della sinistra.
La valanga astensionista è il delitto perfetto dei partiti
REGIONALI. I partiti non svolgono più, e da tempo, le funzioni che a loro assegna la Costituzione. Nella rappresentanza dei ceti sociali così come nella democrazia interna
Filippo Barbera 16/02/2023
Alla loro prima prova elettorale nel 1970, Lombardia e Lazio portarono al voto rispettivamente il 95,5% e il 91,7% degli aventi diritto. Nello spazio di cinque decenni, l’affluenza ai seggi per le Regionali è passata al 41,7% per la Lombardia e al 37,2% per il Lazio. A Roma ha votato circa un elettore su tre (35,17%). Come ormai accade da anni a questa parte, l’astensionismo è correlato alla classe sociale, all’istruzione, al reddito e alla zona di residenza. La “voice” è diventata un esercizio per pochi, mentre i molti preferiscono “l’exit”. Per alcuni questo non è un problema da affrontare, anzi è considerata una tendenza “naturale” dei sistemi liberal-democratici. La post-democrazia è ineluttabile, inutile combatterla. Un realismo cinico che, legittimando l’inazione, avvera la profezia a cui si riferisce e non vede l’enorme portata del disastro che le elezioni regionali appena trascorse ci consegna.
Ancora più grave è la mancata elaborazione pubblica di quanto accaduto, le pseudo-spiegazioni fornite da un ceto politico che è il principale responsabile del non voto. Le prime reazioni all’esito elettorale, infatti, sono sconfortanti. Si parla di tattiche, di alleanze fatte e non fatte, di errori (degli altri) e di meriti (dei vincitori). Una gara tra perdenti, dove ci si accontenta di essere “il primo partito dell’opposizione”, di alleanze estemporanee o di candidature popolari senza un popolo a cui parlare. Nessuno sguardo lungo, nessuna capacità di scavare alla vera base del disastro: la crisi di rappresentanza. Una crisi che ha radici profonde e cause lontane dal tatticismo elettorale.
Perché sempre più astensione? Due ragioni sono – o dovrebbero essere – al centro dell’analisi di chi abbia ancora a cuore l’idea di democrazia rappresentativa e la funzione costituzionale dei partiti politici. Ne scriveva, già nel 2016, Luigi Ferrajoli in un formidabile articolo dove proponeva di “separare i partiti dallo Stato per riportare i partiti nella società (in “Lo Stato. Rivista semestrale di Scienza costituzionale e teoria del diritto”, anno IV, n. 6, gennaio-giugno 2016, pp. 11-33). In questa lettura, la crisi di legittimità dei partiti coincide con la crisi del rapporto di rappresentanza, l’essenza più intima della democrazia rappresentativa. Praticamente un suo sinonimo. Le forme di democrazia diretta sono certo importanti, ma mai sostitutive della democrazia rappresentativa. La possono e devono rafforzare, nutrire, accompagnare e sostenere. Ma nessuna società complessa e stratificata può basarsi solo sulla democrazia diretta.
Se il rapporto di rappresentanza è debole, tutta l’architettura democratica entra in profonda crisi. Così, non stupisce che i partiti siano all’ultimo posto della graduatoria della fiducia istituzionale degli italiani, come segnala l’Istat: poco meno di una persona di 14 anni e più su quattro è completamente sfiduciata mentre almeno una su due assegna scarsi livelli di fiducia. Il paradosso di cui non sentiremo parlare nei prossimi giorni è che i partiti sono sempre (e giustamente) invocati come co-essenziali alla democrazia, “senza partiti non c’è democrazia” come si sente spesso affermare, senza però mettere a tema il nodo della loro la scarsa democrazia interna, l’incapacità di rappresentare gli interessi dei gruppi più deboli, la maggiore trasparenza e il pluralismo dei processi decisionali che dovrebbero caratterizzarli.
I partiti non svolgono più, e da tempo, le funzioni loro assegnate dalla Costituzione. Anzi, ne sono i principali traditori, proprio perché proprio ai partiti e ai rappresentanti eletti era assegnato il compito di attuare la Costituzione. A ciò si aggiunga che i rapporti tra società, economia e Stato si sono completamente ribaltati. Oggi il ceto politico non solo manca di un’adeguata selezione e formazione, non solo i partiti non sono considerati degni di fiducia e sono organizzazioni a bassissima democrazia interna, ma siamo di fronte alle conseguenze di un cambiamento “sistemico”.
Da tempo, non è più la politica a governare l’economia in nome di interessi sociali da proteggere, ma sono sempre più i poteri economico-finanziari che – spesso su scala globale – impongono la loro agenda alla politica. Non stupisce quindi che i partiti abbiano abdicato al loro ruolo costituzionale, trascinando la politica nel Maelström. Per questo, continua Ferrajoli, è urgente una riforma democratica dei partiti sulla base dell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Ciò agevolerebbe sia la separazione e l’autonomia dei partiti dallo Stato, sia l’efficacia dei diritti politici dei cittadini e, quindi, la loro fiducia verso il sistema politico.
Sono però proprio i partiti attuali il maggiore ostacolo a tale riforma, essendo ormai assimilati a comitati d’affari che presidiano i rapporti di scambio tra politica ed economia. A fronte di questo quadro, la domanda corretta che non sentiremo a commento del disastro sotto i nostri occhi non è “perché astenersi”, ma “perché votare”.
Brecht, Gramsci e la catastrofe delle urne vuote
Silvia Truzzi 16 FEBBRAIO 2023
Nella fantasiosa baraonda di commenti alle Regionali, quello che più ha fatto discutere è l’intemerata di Carlo Calenda sugli elettori che sbagliano, come un tempo i compagni. Ma l’azionista con la “a” minuscola si riferiva ai numeri dei risultati e non a quelli ben più catastrofici dell’astensione: solo quattro elettori su dieci sono andati a votare. C’è la crisi della politica, c’è la distanza tra rappresentati e rappresentanti, c’era l’esito scontato vista la divisione di quel che resta della sinistra e la compattezza della destra: i soliti bla bla distratti da talk-show che alle urne desertificate dedicano il tempo che va dalla chiusura dei seggi ai primi exit poll. Ma c’è anche quello che in una poesia Bertolt Brecht chiama l’analfabetismo politico. “Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, né s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali”.
La colpa, questa la vulgata, è di una classe politica che da decenni è “la peggiore di sempre” perché al peggio non c’è mai limite e il fondo non lo si tocca mai. I tentativi di recuperare protagonismo da parte dei cittadini, come è stato all’inizio del Movimento 5 Stelle, sono diventati, subito, la degenerazione populista, disprezzata e umiliata dagli organi di informazione (che invece hanno osannato tutti i tecnici, da Monti a Draghi, mai votati da nessuno).
In uno dei passaggi meno noti del suo “discorso contro gli indifferenti” (1917), Antonio Gramsci dice: “Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? (…) I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa”. Il male, come si vede, è antico e l’unico vaccino che lo poteva combattere è stato progressivamente (e consapevolmente) depotenziato: la scuola, che per tutti i partiti è sempre “da rimettere al centro”, alla fine viene costantemente ignorata perché un popolo di sudditi fa più comodo di un popolo di cittadini informati, accorti e consapevoli.
Siamo di fronte al fallimento della parte meno citata dell’articolo 3 della Costituzione (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). L’analfabetismo politico è il figlio legittimo e voluto dell’analfabetismo funzionale perché rende impossibile l’esercizio della cittadinanza, l’accesso al mercato del lavoro in condizioni di parità per chi parte svantaggiato, l’emancipazione da condizioni di indigenza. Quell’“istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” (sempre Gramsci) è un compito ancora, drammaticamente, urgente.
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