JOLLY, PETI & KIEV FRA TRUMP E MUSK da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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JOLLY, PETI & KIEV FRA TRUMP E MUSK da IL FATTO

Jolly, peti & Kiev fra Trump e Musk

Il destino dei nomi – Le pretese del duo Usa offrono vantaggi a loro se non proprio all’Ucraina. Metterla sul piano degli affari è l’asso di Donald: tra lui e Zelensky si gioca un match tra bari, con l’Ue a fare la parte del pollo

Fabio Mini   28 Febbraio 2025

Le parole chiave di questo periodo in tutto il mondo sono Elon, Musk e Trump. Giustamente, visto che le prime due si riferiscono all’uomo più ricco del mondo e la terza a quello più potente.
Tanto potente da potersi permettere il lusso di avere quello più ricco al suo servizio. Elon sta diventando il nome di battesimo di molti neonati, anche se in ebraico significa soltanto “quercia” e nella Bibbia di Elon ce ne sono diversi, ma poco noti e comunque Musk non è ebreo. Prima della notorietà raggiunta con quelle poche centinaia di milioni spesi per quel viaggetto spaziale che la cagnetta Laika aveva avuto gratis, il nome Elon in America evocava l’omonima prestigiosa Università della Carolina del Nord e Musk richiamava più la fragranza del muschio che un’automobile. Per gli anglofoni è invece più problematico sentir gridare, sussurrare, declamare e bestemmiare Trump. Lui vorrebbe passare alla storia come il pacificatore, il liberatore del mondo dal flagello della guerra, ma la parola trump, oltre a essere vista a caratteri cubitali sui grattacieli e le mete turistiche evoca il gioco delle carte, dove “trump” è il Jolly, l’asso nella manica, la carta vincente, oppure la volgarità della scoreggia anch’essa liberatoria. Il presidente Zelensky forse non conosce queste particolarità dei nomi, ma ci è finito in mezzo e rischia di essere stritolato. Musk può togliergli il supporto del sistema di comunicazioni satellitari che consente ai suoi soldati di sapere dov’è il nemico e quindi regolarsi da che parte andare, o ai cittadini di Kiev e della maggioranza degli ucraini non toccati dalla guerra che non hanno mai smesso di chattare di tutt’altro. Zelensky deve però aver “annusato” qualcosa di conosciuto.
Le pretese americane così sTrump-alate possono nascondere qualche cosa di buono per lui e qualche altro amico, se non proprio per l’Ucraina. Metterla sul piano degli affari è un suo asso nella manica. Ha sempre detto che dare le armi a lui sarebbe stato un grande affare per chiunque a partire dagli americani per finire (in tutti i sensi) agli europei. Era un affare quando ha venduto la maggior parte dei terreni coltivabili alle multinazionali, le riserve di carbone, gas, petrolio e terre più o meno rare ai soliti circoli privati oppure aver ceduto le risorse finanziarie del passato ai fornitori di armi, al netto delle commissioni, e quelle del futuro alla speculazione. Ha sempre parlato di affari ed è stato coerente sin dall’inizio quando, con questo argomento, convinse il Congresso americano, l’Unione europea e la Nato a entrare in guerra. Ha convinto che la sua guerra, meglio di qualsiasi altra è un buon investimento.

L’ammiraglio Bauer, predecessore del nostro Cavo Dragone alla presidenza del Comitato militare della Nato ha detto chiaramente in un forum di imprenditori che la guerra è un buon investimento. Se ne rammaricava un po’ visto che la gente ha il vizio di morire in guerra, ma insisteva che comunque rimane un buon investimento. Semmai qualche dubbio potevano sollevarlo gli ucraini destinati a morire ammazzati, ma non l’hanno fatto e si sono accontentati dell’onore di aver combattuto e sacrificato la vita, per chi e perché non lo sapranno mai e forse è meglio così. Zelensky deve aver capito che Trump bluffava e anche se non lo avesse capito lui qualcuno deve averlo convinto che accettare il contratto capestro poteva fargli avere qualche vantaggio e comunque non sarebbe stato chiamato a rispettarlo. Anche Trump deve aver cercato di incastrarlo proponendo l’accordo senza intenzione di rispettarlo. Se Zelensky non avesse accettato Trump avrebbe potuto accusarlo di non volere la pace, nemmeno alle sue condizioni. Infatti Zelensky pure accettando l’accordo non ha rinunciato all’opzione di rivolgersi all’Europa per continuare la guerra. Per il momento, la partita tra Trump e Zelensky è tra bari, ops pari, ma non è la vera partita.
Il gioco si fa più pesante quando si considera che anche la Cina ha un ruolo nella partita ucraina. Quella tra Trump, Putin e Xi Jinping è una partita che deve ancora iniziare ed è la più difficile. I tre sanno che è molto meglio non bluffare e per questo partono anche loro da terra terra: dai rapporti diplomatici. Non si tratta di concessioni reciproche, ma del tentativo di costruire qualcosa che offra un vantaggio. La Russia e la Cina tengono molto alle intese politiche che danno loro forza nelle relazioni internazionali e questa è anche la volontà degli altri paesi Brics che hanno bisogno di credibilità internazionale. In particolare la Russia conta sul proprio ruolo di equilibrio internazionale nel caso che gli Usa si sgancino dall’Europa e si rivolgano contro la Cina, così come la Cina può esserlo nel caso che gli Usa o l’Europa o entrambe intendano continuare la guerra contro la Russia.

Trump si dice infatti pronto a concedere la riapertura dei rapporti con entrambi, ma non la revoca delle sanzioni o dei dazi e nonostante l’impegno a non ritenere la Russia un nemico, non è sicuro che ciò che dice possa essere mantenuto né dalla sua amministrazione né da quelle future. Da parte sua anche la Russia si riserva di giocare le proprie carte migliori quando dovranno giungere a un accordo sulla cosa più importante: la sicurezza dell’intero continente europeo. Siccome non è detto che ci si arrivi è interesse russo trarre dal rapporto diretto con Trump il massimo possibile al livello immediatamente inferiore: la sicurezza russa. La cosa banale di questa partita è che ognuno dei tre giocatori, pur facendo i propri interessi, sta costruendo qualcosa per porre fine al conflitto. Lasciarli proseguire dovrebbe essere saggio se non altro per vedere cosa possono realmente fare le tre maggiori potenze.
Qui interviene l’Europa con le sue velleità. L’Europa intende far continuare la guerra all’Ucraina portandola quindi fuori dalle stesse trattative con gli Usa e tenta di costituire una sorta di Patto di Varsavia al contrario staccato dalla Nato. Quest’ultima si trova a un bivio: non può rinunciare alla copertura Usa che è a sua volta legata alla Russia nella deterrenza strategica, e se al vertice Nato di giugno Trump sosterrà ciò che ha dichiarato, di non riconoscere la Russia come nemico di fatto, sballa tutta la strategia Nato e incide sulle stesse risorse per la difesa collettiva. Come ripiego temporaneo l’Unione europea intende giungere a un cessate il fuoco, portare truppe e armamenti in Ucraina con la solita operazione umanitaria e prendere tempo per riarmare l’Ucraina, come già accaduto nel 2015. Oltre al fatto che la Russia dovrebbe rivedere la sua posizione di non voler truppe dei paesi Nato in Ucraina, la sola idea di mettere delle truppe europee e 400 testate nucleari nelle mani della nomenclatura comunitaria e di quella di tre o quattro Stati membri che da dieci anni giocano alla guerra fregandosene delle conseguenze, dei costi e della sostenibilità è follia pura. E lo dico con rammarico per essere sempre stato un europeista convinto anche nella realizzazione di un esercito europeo. La cosa più probabile è che in queste condizioni la guerra in Europa si aggravi e che sia la stessa Europa a dover sopportare le peggiori conseguenze a causa di una mania di gioco tragicomico.
Quella in corso tra Russia, Usa e Cina sul tavolo verde ucraino è una sorta di partita a tressette col morto o una a poker con il “pollo” e all’Europa toccano questi ultimi due ruoli. A tressette il morto non gioca e neanche si siede al tavolo, a poker “se nella prima mezzora di gioco non hai capito chi è il pollo vuol dire che sei tu”.

Lo sgomento atlantista per la fine della guerra

Domenico Gallo  28 Febbraio 2025

Sembra incredibile, ma è vero. Di fronte al negoziato intrapreso da Usa e Russia con l’obiettivo di porre fine al più presto a una inutile strage che ci ha portato sull’orlo di un conflitto nucleare, i vertici dell’Ue, i leader politici e il sistema dei media mainstream, vivono la prospettiva della fine dei combattimenti come un disastro politico che scompagina tutti i loro piani. Piani che puntavano al prolungamento e all’escalation della guerra, fino al punto da considerare inevitabile un conflitto armato diretto con la Russia.
Certamente è sconvolgente il rapido cambiamento di rotta che Trump ha imposto a un indirizzo politico consolidato nel tempo, che aveva attribuito alla Russia il ruolo del nemico da indebolire e da umiliare. Se due potenze nucleari che hanno la capacità di distruggersi a vicenda e di distruggere il resto del mondo, dopo essersi combattute duramente per interposta persona (Ucraina), decidono di sotterrare l’ascia di guerra, questa nuova situazione dovrebbe far tirare alla politica un sospiro di sollievo. Indubbiamente fa specie la brutalità con cui Trump ha liquidato Zelensky, attribuendogli la responsabilità di non aver impedito lo scoppio della guerra e di non averla fermata. In realtà Zelensky, pur essendo un attore comico, ha giocato il ruolo tragico che gli hanno attribuito Biden e la Nato; è stato un servitore fedele delle direttive ricevute d’oltreoceano. Adesso che non serve più, viene messo alla porta senza tanti complimenti. La stessa cosa succede ai camerieri europei della Nato che sono stati svergognati proprio da quella casa madre che avevano servito con “furore atlantico”, specialmente in Italia dove è ancora in atto una competizione fra il Pd e la Meloni per la primazia sul sostegno militare (e politico) al governo Zelensky. “È disonesto affermare che l’Ucraina sia in grado di distruggere la Russia sul campo di battaglia e tornare a una situazione pre-2014”, così si è espresso Marco Rubio qualche giorno fa dinanzi agli attoniti atlantisti europei. Il nuovo Segretario di Stato non ha contestato ai leader europei una previsione sbagliata sull’andamento della guerra. Ha detto qualcosa in più: ha messo in evidenza la malafede del dogma che ha guidato la politica europea e spinto l’Ucraina verso la propria autodistruzione. Non possiamo dimenticare il coro di insulti che si levò nel marzo dell’anno scorso quando Papa Francesco esortò l’Ucraina ad aprire un negoziato per porre fine al prolungamento di questa inutile strage: “È più forte chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca (…) quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare”.

Ovviamente la svolta di Trump non è guidata dai sentimenti umanitari del Papa, ma da ragioni di opportunità e di affari. Gli Usa hanno ottenuto dalla guerra tutto quello che potevano ottenere e non hanno interesse a continuare un conflitto che non possono vincere. Adesso possono tirare i fili del debito estero creato dalla guerra e depredare l’Ucraina delle sue risorse minerarie, le terre rare. Ciò non toglie che il ritiro degli Usa dal sostegno alla guerra contro la Russia apra un capitolo positivo nella storia europea, ponendo finalmente termine a un orrendo spargimento di sangue fra popoli fratelli e al rischio di una nuova guerra mondiale. Al contrario, il viaggio a Kiev di Ursula von der Leyen, scortata dal presidente del Consiglio europeo Antonio Costa e da Pedro Sánchez, per ribadire il sostegno politico e militare a Zelensky in occasione del terzo anniversario dell’invasione russa, ci fa capire che i vertici dell’Ue non vogliono rassegnarsi alla fine della guerra, come quei soldati giapponesi rimasti per quarant’anni nascosti nella giungla. In perfetta coerenza con questo orientamento che non si rassegna alla fine della guerra, il Consiglio Esteri, presieduto da Kaja Kallas, ha deliberato il sedicesimo pacchetto di sanzioni alla Russia.

Di fronte a queste sconvolgenti novità politiche, non possiamo far finta di non vedere: è evidente che ci troviamo in una fase di passaggio d’epoca, come lo fu l’89, quando l’abbattimento del Muro di Berlino segnò la fine della Guerra fredda. Nelle fasi di passaggio si aprono grandi opportunità di cambiamento, ma bisogna coglierle al volo prima che gli orizzonti si richiudano di nuovo. Il vero problema è quale sbocco dare al cessate il fuoco prossimo futuro: se deve trattarsi di una tregua permanente, come si è verificata in Corea dove, l’armistizio, dopo oltre settant’anni, non è sfociato in un Trattato di pace, oppure se dalla tregua delle armi si deve passare a un progetto di pace che coinvolga la Russia e tutti gli altri popoli europei e incida sulla vita della stessa Ucraina. Tregua o pace, questo è il vero dilemma. Abbiamo l’opportunità della pace, non dobbiamo lasciarcela sfuggire.

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