ISRAELE STA APPLICANDO LA “LEGGE DEL TAGLIONE” da IL FATTO
Israele sta applicando la “legge del taglione”
DANIELA RANIERI 18 OTTOBRE 2023
Nel 1920, il filosofo ebreo Walter Benjamin, che morirà suicida nel 1940 sul confino franco-spagnolo cercando di sfuggire ai nazisti, scrive il saggio Sulla critica della violenza. Per Benjamin esistono tre forme di violenza: quella legittima (“l’uso della forza entro rapporti morali”, che mira alla conservazione del potere), quella rivoluzionaria (che ha come fine il cambiamento dei rapporti di forza o la destituzione del potere) e quella divina, che “conserva il diritto attraverso la punizione”, eliminando una violazione con un atto immediato.
Quale giustizia sta applicando Israele con l’assedio di Gaza? Per i commentatori italiani non ci sono dubbi: la giustizia legittima, l’unico mezzo per ottenere un fine giusto (la sconfitta dei terroristi di Hamas) a costo della morte di migliaia di palestinesi innocenti.
Nell’intervista per Al Jazeera (pubblicata dal Fatto) Marc Lamont Hill chiede al ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon se – stante che le azioni di Hamas sono una violazione della legge internazionale – la punizione collettiva di Gaza non sia un crimine di guerra e una punizione collettiva; il ministro dice: “Perché credi che il mondo stia con noi, tutti i media internazionali erano lì, queste sono le nuove regole del gioco”.
In realtà sono regole antichissime, incompatibili con lo Stato di diritto. Per Benjamin, quando la violenza si inscrive nel diritto positivo (dello Stato) e non in quello naturale (della legge del più forte), essa non è mai mezzo, e il suo fine stesso è l’instaurazione di violenza e potere.
La Bibbia è piena di episodi del genere (come l’assedio di Gerico nel Giosuè), ma non i libri di Storia: nelle società umane è inusuale che si metta sotto assedio un’intera popolazione per rappresaglia fuori da un contesto di guerra per (ri)conquistare territori o risorse. L’atto di ritorsione separato dalla volontà di impadronirsi di un territorio assume la qualità della eradicazione del Male; un suo analogo recente è la guerra all’Iraq “per” l’11 settembre, quando l’amministrazione Usa si è dovuta inventare il possesso di “armi di distruzioni di massa” per giustificare la “guerra al terrore” che doveva preservare l’Impero del Bene.
In questi casi non si tratta di giustizia, ma di vendetta. Giustizia sarebbe, come scrive Daniel Barenboim su Repubblica, il diritto di Israele di esistere col concomitante diritto del popolo palestinese: “Entrambe le parti devono riconoscere i loro nemici come esseri umani… Gli israeliani devono anche accettare che l’occupazione della Palestina è con questo incompatibile”.
C’è del pensiero magico e qualcosa di mitologico in questa vendetta, come se un’azione violenta potesse obliterarne una pregressa, anche se comporta il sacrificio di innocenti, considerati perdite collaterali e scarti. Il loro sterminio è considerato il male minore rispetto al male maggiore rappresentato dalla vittoria di Hamas, come ci fossero solo queste due alternative. Hannah Arendt, filosofa ebrea amica di Walter Benjamin e depositaria delle sue volontà, scrisse che chi sceglie il male minore dimentica troppo in fretta che sta scegliendo il male. Si agisce come se nelle prerogative della forza/potere ci fosse la capacità di riavvolgere il tempo e di emendarlo, lavando il sangue col sangue. È un frammento di civiltà primitiva piombato in una delle società più tecnologicamente evolute del pianeta, una democrazia con a capo un primo ministro “incompetente” e “populista”, circondato da “fanatici messianici e opportunisti spudorati”, come ha scritto Yuval Noah Harari.
Presso parte della nostra intellighenzia l’agire di Israele è considerato un giusto eccesso di logos per ristabilire l’ordine dopo il caos omicida. Ma questa è la legge del taglione, la logica della società della pietra, dove vince chi maneggia meglio clave e bastoni, evoluti in armamenti sofisticati: è il pre-logico e pre-politico che non contempla riflessione, ma solo l’assoluto della vendetta indiscriminata, come se per osmosi Hamas avesse contagiato tutto il popolo palestinese, composto per metà da bambini e adolescenti. Il popolo avrebbe “esultato”, ha detto qualcuno, alla notizia dell’eccidio: ma se anche avesse esultato il 100% della popolazione, Israele si starebbe assumendo il ruolo di giustiziere divino, tale che da una parte avremmo gente che esulta, dall’altra un esercito che la bombarda. È semplice, dicono costoro: o stai con Israele o con Hamas (così un sondaggio per Rep). Invece è complesso. Si possono trovare ributtanti il terrorismo e l’antisemitismo e deprecare la politica di apartheid di Israele contro il popolo palestinese. L’atto violento è “immediato”, mentre la politica si fonda sulla mediazione. Il suo fine è la riconciliazione tra esseri umani, che non può mai essere ottenuta a ogni costo, bensì attraverso la coincidenza di fini e mezzi. Concludeva Benjamin: “È possibile la composizione non violenta dei conflitti? Certo. L’accordo non violento si realizza ovunque la cultura dei cuori metta a disposizione degli uomini mezzi puri di intesa. Ai mezzi legittimi e illegittimi di ogni genere, che pure tutti insieme sono violenti, possono contrapporsi come mezzi puri i mezzi non violenti. Gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace sono la loro precondizione soggettiva. La loro manifestazione oggettiva è determinata dalla legge che mezzi puri non sono mai mezzi di soluzione immediata, ma sempre di soluzioni mediate”.
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