ISRAELE, GUAI A PRENDERE DECISIONI IN PREDA ALL’IRA da IL FATTO e IL MANIFESTO
Israele, guai a prendere decisioni in preda all’ira
FABIO MINI 12 OTTOBRE 2023
Una città, una fortezza, una prigione, un campo profughi, un covo terroristico, un fulcro della resistenza del popolo palestinese, un campo di sterminio. Gaza è tutto questo e non solo. L’ultimo attacco di Hamas a Israele, sotto l’aspetto puramente tecnico-militare è stato un raid condotto da forze paramilitari con metodi da operazioni speciali e tecniche terroristiche.
Un attacco ibrido, si direbbe oggi, se non fosse che la guerra e soprattutto il terrorismo comprendono aspetti multiformi. L’azione militare di Hamas è stata pianificata con cura e una buona dose di morbosa fantasia. Se il suo scopo era dimostrare la vulnerabilità del sistema difensivo israeliano e la capacità di forze speciali o insurrezionali di colpirlo, è stato raggiunto, ma lì si ferma. Perché le azioni “militari” di questo tipo abbiano un effetto prolungato o duraturo hanno bisogno di un apparato potente. Hamas ha tratto vantaggio dalla sorpresa e dal ricorso a metodi efferati e terroristici, ma non è sostenuto da un solido apparato bellico. Anzi, nello stesso ambito palestinese è in conflitto con diverse altre espressioni della resistenza. Il suo successo iniziale è perciò destinato a durare poco e servirà a peggiorare la propria situazione e soprattutto quella del popolo palestinese.
La potente struttura delle forze israeliane si è subito riavuta dalla sorpresa e ora cinge d’assedio tutta la Striscia di Gaza. Gli israeliani hanno i mezzi, la rabbia e la dottrina per farlo. È israeliana la concezione della Dahiya, ovvero della rappresaglia sproporzionata nei confronti dell’avversario a prescindere se sia o meno armato, combattente, donna o bambino come fu l’intervento nell’omonimo quartiere sciita di Beirut spazzato via nel 2006 e di nuovo attaccato nel 2013. L’ideatore, generale Eisenkot, per aver serenamente detto che la Dahiya non era un’opzione fantasiosa, ma una pianificazione accurata, si guadagnò la stima dell’ambasciatore americano e divenne poi capo di tutte le forze armate. L’azione “militare” di Hamas sembrerebbe non aver tenuto conto della capacità israeliana di ritorsione, ma in realtà l’azione è stata organizzata e decisa su questa certezza.
Hamas non gode del favore di nessuno, neppure degli stessi che forniscono soldi, armi e munizioni. L’unico punto di forza è la sua determinazione nel colpire Israele. L’azione militare volutamente eccessiva e sanguinaria non ha obiettivi militari e neppure territoriali o il depotenziamento delle forze israeliane peraltro impossibile. Hamas ha “semplicemente” voluto fare di Gaza la vetrina sulle nefandezze d’Israele e siccome quelle del passato non hanno ottenuto nulla ha approfittato della fragilità del quadro internazionale e dello stesso governo israeliano per provocarne di nuove.
La risposta di Netanyahu e dei suoi sostenitori internazionali e interni è stata immediata: pensando al superare le difficoltà personali, ha cercato consensi con le minacce di “soluzione finale”. Le misure già adottate con il blocco totale e la negazione di sopravvivenza per tutti gli abitanti della Striscia vanno in questa direzione, ma la strada è disseminata di trappole: la distruzione di Gaza comporta milioni di vittime non combattenti, il blocco totale non lascia scampo ai terroristi, ma neppure ai profughi ed è un crimine internazionale, l’impegno distruttivo a Gaza, comporta l’esposizione a nord, la soppressione dei militanti di Hamas perseguita con l’eliminazione dei palestinesi di Gaza mette a rischio gli accordi di Abramo con l’Arabia Saudita e aliena le simpatie degli stessi americani e della comunità ebraica in generale; nessuno in Israele vuole oggi sentire dai propri governanti le stesse parole pronunciate dai nazifascisti nei loro confronti, nessuno vuole l’allargamento del conflitto fuori e dentro Israele.
La rioccupazione militare di Gaza vorrebbe essere evitata perché onerosa anche in termini di perdite fra i soldati e gli ostaggi, ma secondo il diritto internazionale e il Consiglio di sicurezza, l’occupazione israeliana di Gaza non è mai cessata nonostante il ritiro unilaterale del 2005 e il diritto internazionale prevede più obblighi che diritti per gli occupanti ai quali impone la salvaguardia e il sostentamento della popolazione civile. In punta di diritto, è proprio l’incapacità di Gaza di gestire la propria sicurezza e di dover sottostare alla sorveglianza e alle incursioni israeliane dal cielo, dal mare e dai confini terrestri a determinare il dovere israeliano di proteggere i civili palestinesi, a prescindere che esista o meno un governo eletto. Ed è una trappola la criminalizzazione dei palestinesi che così si rivolgono all’eroicizzazione e martirizzazione dei militanti di Hamas. Israele sta facendo leva sulle immagini delle atrocità perpetrate da Hamas in tre giorni di combattimenti non per motivare alla guerra, ma per incitare alla vendetta. La giustizia e gli stessi palestinesi vorrebbero l’individuazione e punizione dei responsabili, ma quelle immagini stanno alimentando l’odio nei confronti di tutti i palestinesi e la loro richiesta di altrettanta vendetta per i sessant’anni di violenze, soprusi, distruzioni e massacri che essi hanno dovuto subire. Non siamo più in guerra, ma in una faida. E il compito di farne comprendere la differenza spetta proprio a quei soldati che si preparano a entrare nel campo minato dell’odio. È militare e antico il detto “in guerra non si prendono le decisioni in preda all’ira”.
L’insidia della Striscia, una doppia trappola per Israele
ISRAELE/PALESTINA. La trappola di Hamas a Gaza è scattata una prima volta e può entrare in azione anche un seconda perché un’azione militare massiccia nella Striscia presenta rischi altissimi che vanno dalla popolazione civile, ai militari, agli ostaggi
Alberto Negri 12/10/2023
La trappola di Hamas a Gaza è scattata una prima volta e può entrare in azione anche un seconda perché un’azione militare massiccia nella Striscia presenta rischi altissimi che vanno dalla popolazione civile, ai militari, agli ostaggi. Gli esperti israeliani e internazionali ne sono convinti. Come sottolinea Sami Cohen professore a Science Po di Parigi e autore di molti libri sul Medio Oriente e Israele c’è stato un fallimento a due livelli, uno di intelligence, l’altro politico imputabile in gran parte a Netanyahu. Cohen è molto chiaro: i servizi di sicurezza interni, lo Shabak, fino qualche tempo erano ben informati su quanto accadeva a Gaza ma negli anni recenti hanno trascurato le fonti interne ad Hamas per affidarsi alla sorveglianza elettronica e ai “muri”. Un grave errore. Secondo fonti dell’intelligence italiana Hamas in questi anni non ha contato soltanto sul fattore armi ma sul training dei giovani militanti addestrati a fare contro-informazione. Dimenticate gli shabab che tirano le pietre esercitandosi sulle montagne di spazzatura a Jabalya. In poche parole i militanti dovevano far credere agli israeliani che non erano loro il vero obiettivo di Hamas ma l’Anp di Abu Mazen in Cisgiordania dove per altro il movimento nel 2006 aveva vinto le elezioni, oltre che nella Striscia di Gaza.
Ma il fallimento dell’intelligence non è stato casuale. Questi fallimenti derivano spesso da una narrativa politica e militare che distorce la realtà. Basti pensare alla Yom Kippur di 50 anni fa quando gli israeliani disponevano di tutte le informazioni possibili _ e persino della collaborazione di Ashraf Marwan, genero di Nasser come spia a fianco di Sadat – ma secondo la narrativa strategica dei vertici militari ritenevano l’Egitto troppo debole per attaccare.
Il trauma del 1973 è ancora molto vivo e il paragone con il Kippur è immediato perché questo attacco è arrivato proprio il giorno dopo l’anniversario. Stavolta però Israele non si trova a dover affrontare un esercito regolare com’era all’epoca quello egiziano. Deve fronteggiare gruppi di uomini disposti a tutto, armati soltanto di kalashnikov e lanciarazzi, che combattono una guerra di tipo diverso. Il Paese è sotto choc perché il fallimento militare e di intelligence è stato enorme. Soprattutto se si pensa che l’organismo di intelligence militare noto come “Unità 8200” sorveglia la vita dei palestinesi e che Israele controlla tutte le reti telefoniche fisse e mobili, è davvero incredibile che non si siano resi conto che stavano organizzando un assalto di questa portata. In questi anni Netanyahu ha sostenuto con insistenza che Hamas non costituisse un pericolo maggiore per Israele e che non era necessario mantenere una massiccia presenza di intelligence a Gaza. L’obiettivo di Netanyahu era dimostrare anche alla comunità internazionale che i palestinesi non costituivano più un problema per i suoi «piani di pace» perché erano troppo deboli e divisi tra Hamas e Al Fatah.
L’arroganza di Netanyahu sfiora la deriva criminale, secondo il noto giornalista israeliano Merovon Rapoport (Local Call e la rivista online +972 Magazine) che in un’intervista al sito Gariwo afferma: «L’esercito israeliano era ormai concentrato quasi tutto in Cisgiordania. Per proteggere i coloni e gli insediamenti erano stati dispiegati ben trentatré battaglioni mentre lungo la frontiera con Gaza ce n’erano soltanto tre». Vuol dire che lo stesso livello di addestramento dell’esercito non è più paragonabile a quello di una volta, perché negli ultimi vent’anni i soldati sono stati chiamati a svolgere quasi esclusivamente compiti di polizia, ad arrestare bambini o lanciatori di pietre nei villaggi. Si è quindi trovato impreparato a fronteggiare miliziani armati in un conflitto irregolare.
Ma è il dato politico, oltre quello di intelligence e securitario, quello più stringente. Il governo di Netanyahu è dominato – ora nel gabinetto di coalizione per la guerra entrano i militari – da estremisti religiosi ossessionati dagli insediamenti ebraici in Cisgiordania. E tutta questa attenzione è stata la sua rovina: per restare in sella, affrontare i guai giudiziari e dettare la divisiva campagna sulla giustizia aveva bisogno del sostegno di Smotrich e di Ben Gvir, i due “falchi” dell’estrema destra, e questo lo ha condotto insieme al Paese verso il baratro di Gaza. Come uscirne? Una conquista militare di Gaza via terra avrebbe un esito tutt’altro che certo, significherebbe la morte di decine di migliaia di abitanti, quella degli ostaggi e una grave crisi di rifugiati. Hamas non è un esercito, sono formazioni delocalizzate, da guerriglia e terrorismo. Inoltre ora palpabile è il rischio di una guerra regionale su larga scala, con il possibile coinvolgimento di Hezbollah in Libano e perfino della Siria.
Finora tutto ha tenuto grazie al patto tra Russia e Israele che consente allo Stato ebraico di bombardare in Siria i pasdaran iraniani alleati di Mosca e di Assad, come sanno bene tutti, da Teheran ad Ankara. L’unica alternativa al caos è la diplomazia, la ripresa dei negoziati per uno Stato palestinese senza passare attraverso le false e ormai improbabili scorciatoie delle monarchie del Golfo. Altrimenti scatterà la parte due della trappola.
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