IRAN, LA REPRESSIONE DI UNA SOCIETÀ ORMAI CAMBIATA da IL MANIFESTO
Iran, la repressione di una società ormai cambiata
PROSPETTIVE IRANIANE. A un anno di distanza dalla morte di Mahsa Jina Amini, la società iraniana si trova a fare i conti con grandi cambiamenti socio-culturali in un contesto di forte repressione […]
Paola Rivetti* 16/09/2023
A un anno di distanza dalla morte di Mahsa Jina Amini, la società iraniana si trova a fare i conti con grandi cambiamenti socio-culturali in un contesto di forte repressione da parte dello stato. Quali conseguenze avrà questa impasse?
Le immagini di donne, più o meno giovani, che si muovono apertamente senza velo nella capitale Teheran e nelle altre città iraniane ci raccontano di una trasformazione culturale e politica ormai già avvenuta nella società, e che ha a che vedere con l’indiscutibile diritto delle donne a controllare il proprio corpo e a scegliere per sé stesse in autonomia.
Inoltre, queste immagini ci raccontano anche della diffusione senza precedenti di un sentimento di ribellione e audacia che, sebbene da sempre presente nella società, non si era mai espresso con tanta evidenza nello spazio pubblico.
Sono state tante, l’anno scorso, le testimonianze di chi rimaneva sorpresa dal fatto che, invece di riprenderle e insultarle, gli uomini alle manifestazioni applaudissero e sostenessero le donne che si toglievano il velo e lo davano alle fiamme.
E in tante, oggi, dicono che non si torna più indietro: il rapporto tra la società e lo stato è irrimediabilmente cambiato. Complice il protagonismo di una generazione che non ha conosciuto la delusione per il fallimento del movimento riformista negli anni 2000 e la repressione decennale seguita al cosiddetto Movimento Verde del 2009, oggi sono in tanti a non avere paura.
Lo stato, dal canto suo, ha negli ultimi 12 mesi agito con violenza per recuperare il controllo su quegli spazi pubblici, ma anche privati, attraversati da tanta voglia di cambiamento e di resistenza. Per farlo, si è mosso su diversi fronti.
Non solo ricordiamo, nel corso dello scorso anno, le repressioni violente, le condanne e le esecuzioni di giovani manifestanti, il misterioso avvelenamento di migliaia di studentesse, l’assedio alle università e la persecuzione di colleghe, colleghi e studenti perché considerati vicini al movimento contestatario o bollati come «agitatori».
Ricordiamo anche le leggi restrittive che sono state approvate e che hanno rafforzato l’obbligo del velo sui posti di lavoro e nelle università, e che hanno reso difficile l’accesso ai metodi contraccettivi e all’interruzione di gravidanza, col chiaro scopo di rafforzare un potere di stampo patriarcale; ricordiamo anche la riabilitazione della cosiddetta polizia morale, tornata a pattugliare le strade, e l’installazione di telecamere per il riconoscimento facciale che servono, tra le altre cose, a individuare e punire coloro che non sono coperte in maniera appropriata. A tutto ciò, va aggiunta l’azione repressiva dello stato nelle aree di confine del paese come il Kurdistan e il Sistan-Baluchistan, non a caso abitate da minoranze etniche e religiose, che in queste ultime settimane hanno visto molti arresti.
Eppure, la società sembra attraversata da processi di cambiamento inarrestabili, nonostante gli sforzi del governo centrale. Con quali prospettive? Dal 1979, la società iraniana è stata sottoposta a un processo di politicizzazione quasi totalizzante. La perenne mobilitazione, rivoluzionaria prima e nazionalista in seguito, e le continue commemorazioni dei martiri e del loro estremo sacrificio «per la patria e la rivoluzione», hanno forgiato una società ben conscia dell’importanza di valori quali la giustizia e la libertà, coscienza rafforzata da una grande opera di alfabetizzazione, scolarizzazione e modernizzazione portata avanti dallo stato. In molti, in questi anni, mi hanno fatta riflettere su come sia paradossale che lo stato pretenda che la popolazione non si accorga della mancanza di giustizia e libertà in Iran, vista la socializzazione politica imperniata su questi valori. In tante mi hanno anche detto che, se i martiri fossero vivi, starebbero dalla nostra parte.
La repressione dello stato difficilmente riuscirà ad arrestare le trasformazioni politiche e culturali che vediamo in Iran, anche se le proteste sono diventate ormai sporadiche o si sono spostate dalle piazze fisiche a quelle virtuali. Tuttavia, in un contesto globale caratterizzato da un arretramento dei valori progressisti e democratici, e nel quale le politiche autoritarie e repressive sono normalizzate, lo sviluppo del movimento Donna Vita Libertà dipende anche dal sostegno che sarà in grado di raccogliere dagli altri movimenti femministi e anti-razzisti, veri attori della resistenza all’autoritarismo neoliberale che caratterizza la nostra epoca.
*Docente associata alla Dublin City University
Stallo dell’accordo sul nucleare, mentre Teheran guarda a Oriente
JCPOA. Biden prende tempo e gioca su più tavoli. Londra, Parigi e Berlino hanno deciso di rinnovare le sanzioni alla Repubblica islamica
Farian Sabahi 16/09/2023
Un anno di proteste è coinciso con un anno di stallo per l’accordo nucleare firmato a Vienna il 14 luglio 2015. Prevedeva la fine graduale delle sanzioni, in cambio di un limite all’arricchimento dell’uranio nelle centrali sottoposte a ispezioni dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica. Il movimento Donna, vita libertà ha contribuito a rallentare la ripresa dei negoziati sul nucleare perché gli Stati uniti e l’Europa speravano che il dissenso facesse cadere, o perlomeno traballare, la Repubblica islamica. Così non è stato: ayatollah e pasdaran sono ancora al potere, la repressione di regime continua a mietere vittime e – per fare fronte alle sanzioni occidentali – le autorità di Teheran portano avanti una politica di buon vicinato e stringono alleanze guardando a Oriente. Stati uniti ed Europa hanno fatto male i conti e perso l’occasione di contenere il programma nucleare iraniano.
A FIRMARE il Jcpoa (Piano d’azione congiunto globale) erano stati i negoziatori iraniani e i 5+1, ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite più la Germania. Il presidente statunitense Barack Obama aveva siglato l’accordo, ma il Congresso non lo aveva ratificato. Insediatosi alla Casa Bianca, Donald Trump si era ritirato unilateralmente dall’intesa l’8 maggio 2018, con il pretesto che era indispensabile inserire il divieto – per l’Iran – di perseguire un programma balistico. Richiesta irricevibile per ayatollah e pasdaran, memori dell’invasione dell’Iran da parte delle truppe irachene di Saddam Hussein che aveva scatenato una guerra durata dal 1980 al 1988. Durante quel conflitto, nessun paese aveva voluto vendere missili all’Iran, motivo per cui gli iraniani sanno di dover fare da sé.
IN SEGUITO al ritiro unilaterale degli Usa, le imprese europee avevano abbandonato i progetti di business con Teheran per timore delle sanzioni secondarie del Tesoro statunitense. Esattamente un anno dopo, di fronte a un’Europa incapace di mantenere fede agli impegni sottoscritti a Vienna, nel maggio 2019 le autorità di Teheran avevano ricominciato ad arricchire l’uranio al di sopra della soglia concessa.
Che senso aveva rispettare un accordo che gli altri firmatari avevano deciso di violare, mantenendo in essere le sanzioni e mettendo così in grave difficoltà l’economia iraniana? In questi anni Teheran ha continuato ad arricchire l’uranio al di sopra della soglia concessa e, per questo, due giorni fa Londra, Parigi e Berlino hanno deciso di mantenere in essere le sanzioni all’Iran in scadenza il 18 ottobre.
In questo contesto, l’amministrazione Biden gioca su più tavoli. Prende tempo, nella speranza che il regime iraniano collassi, ma anche per timore che tendere la mano ad ayatollah e a pasdaran possa inimicare una parte dell’elettorato e mettere a rischio un secondo mandato. La diplomazia continua, comunque, a fare il suo lavoro. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha dichiarato in un’intervista pubblicata il 3 settembre sul quotidiano moderato Ettelaat che, su iniziativa del sultano dell’Oman, Teheran e Washington stanno lavorando a un nuovo documento che sostituirà il Jcpoa. Su questo gli Stati uniti tacciono, ma intanto stanno per essere consegnati all’Iran i 6 miliardi di dollari congelati nelle banche sudcoreane dopo la scadenza del waiver sul petrolio iraniano concesso dagli Usa a Seul. In concomitanza con la restituzione di queste somme, vi è lo scambio di cinque prigionieri statunitensi in carcere in Iran con cinque iraniani detenuti negli Usa.
DI FRONTE a un Occidente che impone sanzioni e sostiene il dissenso in Iran e nella diaspora, le autorità di Teheran portano avanti una politica di buon vicinato e stringono alleanze guardando a Oriente.
L’Iran ha aderito alla Shanghai Cooperation Organization, grazie alla mediazione di Pechino a marzo ha riallacciato relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, e ad agosto è stato invitato a far parte dei Brics.
Infine, ieri sono iniziati a Riad i primi colloqui di pace tra governo saudita e governo yemenita degli Huthi, in carica dal 2014 a Sanaa e sostenuti dall’Iran. L’impressione è che l’Occidente sia diventato superfluo, in un Medio Oriente in cui a esercitare l’arte della diplomazia sono l’Oman e la Cina.
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