IN SUDAN EMERGENCY RESTA APERTA PER GUERRA, “MA IL PEGGIO VERRÀ DOPO” da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IN SUDAN EMERGENCY RESTA APERTA PER GUERRA, “MA IL PEGGIO VERRÀ DOPO” da IL MANIFESTO

In Sudan Emergency resta aperta per guerra, «ma il peggio verrà dopo»

INTERVISTA. Il cardiochirurgo Franco Masini, capomissione a Khartoum: «È stato fondamentale non chiudere il Salam Center. Il timore ora, come in tutti i conflitti, riguarda le bande armate fuori controllo in cerca di bottini»

Marco Boccitto  27/04/2023

Abbiamo raggiunto al telefono a Khartoum Franco Masini, il medico a capo della missione di Emergency che ha tenuto aperto nella capitale sudanese il Salam Center, l’unico ospedale di tutta l’Africa che offre gratuitamente assistenza cardiochirurgica di alto livello. In questi giorni svolge lo stesso lavoro che fino al 2016 era di Gino Strada, solo che è costretto a farlo in una situazione assai precaria. «Sì, Gino qui aveva la sua base – dice – dove ha operato quasi fino all’ultimo. Ma la sua capacità di muoversi in queste situazioni critiche, anche per proteggere il personale e i pazienti, non è replicabile. Però mi fido degli standard di sicurezza di cui è dotata Emergency, anche per questo ho scelto di restare».Con tanti ospedali fuori uso e scontri armati così violenti avrete avuto un grande afflusso di feriti in questi giorni…

In verità no, finora non ci hanno portato feriti di guerra.

E come se lo spiega, si parla di migliaia di persone.

Forse perché siamo molto lontani dal centro e dalle zone interessate dagli scontri. A Soba abbiamo sentito delle esplosioni molto forti solo martedì, giorno in teoria di tregua, quando l’aviazione ha cercato di ripulire dai miliziani delle Rsf un ponte sul Nilo che si trova qui vicino. Noi abbiamo continuato a svolgere la nostra attività, solo che la settimana scorsa abbiamo dovuto smettere di fare operazioni, perché nella malaugurata ipotesi che qualcuno entri con cattive intenzioni, muovere dei pazienti ventilati in terapia intensiva sarebbe troppo rischioso. Poi abbiamo dimesso tutti quelli che potevano essere dimessi e che soprattutto potevano raggiungere la loro abitazione senza rischi: molti vivono in quartieri in cui non è possibile arrivare. Degli 80 pazienti che c’erano all’inizio della crisi ne sono rimasti cinque gravi in terapia intensiva e trenta nella guest house provenienti da Somalia, Etiopia, Burundi, Uganda e altri luoghi, che non possono rientrare. Oltre al Sudan serviamo una trentina di paesi diversi, perché il nostro è l’unico centro nel suo genere. Inoltre prima avevamo 400 persone che venivano ogni giorno per le terapie anti-coagulanti. Ora si sono ridotte a 150.

Al lavoro con lei, rinunciando alla possibilità di essere evacuati, sono rimasti in tanti.

Beh nel frattempo la situazione è cambiata. Emergency ha quattro strutture attive in Sudan: oltre al Salam Centre, c’è un ambulatorio pediatrico in un campo profughi disastrato vicino Khartoum che ospita 1 milione di persone, a Maio, ma abbiamo dovuto chiuderlo subito perché non era più sicuro né raggiungibile; poi si sono altri due ospedali pediatrici, a Port Sudan sul Mar Rosso e a Nyala. nel Darfur. A pieno regime parliamo di uno staff importante, 50 internazionali e circa 550 locali. il problema principale è stato fin dall’inizio l’organizzazione del personale locale, una buona parte non poteva tornare a casa e così abbiamo fatto una specie di accampamento dentro l’ospedale con materassi dappertutto. Molti altri era impossibile andarli a prendere. Però sono loro che ci stanno dando un grande supporto e che ci hanno chiesto di non chiudere, di rimanere qui perché l’ospedale è fondamentale. Solo ieri abbiamo avuto un paziente con arresto cardiaco, uno gravemente scompensato, uno con la valvola bloccata… Se non ci fossimo stati noi sarebbero finiti male. Però visto che siamo riusciti a ridurre il numero dei pazienti e che permangono rischi nello stare qui, ieri abbiamo lasciato la scelta di restare o partire ai singoli. Quindi ora siamo rimasti in sette qui a Khartoum, tutti italiani, più una decina di internazionali tra Port Sudan e Nyala. Gli altri ora sono in viaggio verso la Germania.

A Nyala i combattimenti sono stati particolarmente violenti.

Sì gli scontri sono arrivati davanti alla struttura, che però non ha subito danni. È risaputo che noi curiamo tutti senza distinzioni, quindi speriamo sempre di avere un occhio di riguardo. A Nyala il governatore locale si è adoperato per rifornirci di benzina e i gruppi combattenti non hanno infierito sull’ospedale.

Avete ancora canali aperti con le istituzioni a Khartoum? E quali, visto che il caos regna sovrano.

Purtroppo tutti i canali di comunicazione con le istituzioni sono interrotti, avevamo contatti con il governo, con il ministro della Sanità, abbiamo provato a riattivarli perché ci servivano dei lasciapassare, ma non ha risposto più nessuno.

Cosa vi aspettate nei prossimi giorni?

Il timore ora riguarda le bande fuori controllo che vanno in cerca di soldi, computer eccetera. Le notizie che abbiamo dal nostro responsabile della sicurezza parlano di irruzioni da parte di gruppi armati in alcune strutture del centro, che sono state razziate. È un corollario tipico in questi frangenti. E il disastro come sempre arriverà dopo, se e quando questa roba finirà: quelli che non hanno fatto i controlli né la terapia, quelli che non hanno potuto raggiungerci… Riorganizzare il lavoro sarà dura, peggio che dopo la pandemia. È una guerra, questa.

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