IL PD È IL PARTITO DEI RICCHI, MA IL PSOE VINCE TRA I POVERI da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL PD È IL PARTITO DEI RICCHI, MA IL PSOE VINCE TRA I POVERI da IL MANIFESTO e IL FATTO

Il Pd è il partito dei ricchi, ma il Psoe vince tra i poveri

LA SPAGNA E NOI – La rilevazione mostra come i socialisti ottengano i migliori risultati tra le fasce popolari perdendo voti tra i ceti più privilegiati

 SALVATORE CANNAVÒ   26 LUGLIO 2023

È davvero uno strano animale il Psoe spagnolo che con Pedro Sánchez ha sostanzialmente salvato la pelle alle elezioni del 23 luglio. Un’animale che si colloca pienamente nel quadro delle socialdemocrazie europee, riuscendo ancora a mantenere un radicamento tra la parte povera della popolazione, votato da lavoratori e lavoratrici, ottenendo i migliori risultati nelle zone a più alto tasso di disoccupazione.

È stato il quotidiano El Diario a pubblicare un’analisi dettagliata sul voto ai singoli partiti sulla base del “reddito medio” dei vari territori, facendo emergere una realtà che in Italia non è più presenta da tempo: a votare per il Psoe è soprattutto la parte con meno reddito a disposizione.

I dati dicono infatti che nella fascia del 10 per cento più povero della popolazione, il partito di Pedro Sánchez, che ha ottenuto a livello nazionale il 31,7%, balza al 36,9 e mantiene percentuali ancora alte anche tra il 10 e il 20% più povero (32,6%) e tra il 20 e il 30% (33,7%).

Anche il Partito popolare guidato dal “moderato” Alberto Núñez Feijóo ottiene nella fascia più povera risultati superiori alla media nazionale (33,05%) ma in rapporto al Psoe sono scarti meno rilevanti. Il Pp arriva al 36,6% tra il 10% più povero e al 37,5% tra la fascia che si colloca tra il 10 e il 20% più povero.

La differenza importante si rintraccia nell’altro lato dell’indagine: il Pp ha un grande picco, il 37,4%, tra il 10% più ricco della popolazione mentre il Psoe in questo segmento sociale scende drasticamente al 22,8%. I dati sembrano confermare, dunque, la ragione sociale del partito il cui nome significa “Partito socialista operaio di Spagna”. Che sembra più radicato nei settori popolari di quanto sembra esserlo la coalizione alla sua sinistra, Sumar, di Yolanda Diaz. Questa, infatti, da una media nazionale del 12,3% scende drasticamente al 9,2% tra il 10% più povero della popolazione e al 10,3% nella fascia tra il 10 e il 20% più povero. Si attesta invece sui propri valori medi tra il 10% più ricco, 12,5%, ma fa un balzo nella fascia collocata tra il 10 e il 20% più ricco dove ottiene il 14,5%. Ha basi più popolari dell’estrema sinistra, invece, la destra radicale di Vox che da una media nazionale del 12,4% sale al 14,2% tra il 10% più povero, addirittura al 15,1% tra il 10 e il 20% più povero per scendere all’11,6% tra il 10% più ricco.

Se la definizione di sinistra elitaria, quindi, non si può utilizzare per un partito, il Psoe, che nella strategia fondamentale resta ossequioso dei dettami europei e fedelissimo della Nato, la definizione sembra adattarsi di più a Sumar, consegnando all’analisi un paradosso curioso.

I dati fanno a pugni con analoghi sondaggi sulla sinistra italiana, come quello realizzato da Cluster17 per il Fatto lo scorso settembre. Ad attrarre il voto dei redditi più bassi in Italia, si leggeva, era infatti il M5S che schizzava al 28% tra chi guadagna meno di 1.000 euro al mese. Esattamente il contrario del Pd, allora diretto da Enrico Letta, che raccoglieva, in quel sondaggio, l’11% tra gli elettori il cui reddito è collocato tra i 1.000 e i 1.500 euro al mese, il 24% tra coloro che guadagnano tra i 2.000 e i 3.000 euro, il 28% tra i 3 e i 5.000 euro al mese. Ma oltre i 5.000 euro di reddito mensili, il Pd di Enrico Letta otteneva il 35% confermandosi così il primo partito tra i ricchi, esattamente come il Pp in Spagna.

I dati sono poi stati confermati dalle rilevazioni effettuate in seguito al voto del 22 settembre. Secondo un’analisi Ipsos, infatti, gli operai hanno votato soprattutto FdI e Lega punendo “pesantemente” i partiti di centrosinistra in grado di recuperare solo tra i pensionati. Secondo l’Infodata del Sole 24 Ore, invece, “il consenso del centrosinistra e soprattutto quello del terzo polo crescono in quei collegi in cui il reddito medio è più alto. Per il Movimento 5 Stelle sembra invece valere il ragionamento inverso”. Ad avvicinarsi di più al Psoe spagnolo, ennesima anomalia, sembra così il partito di Giuseppe Conte.

Mezzogiorno, salario minimo e lavoro nero

NORD-SUD. Dal 2008 al 2022, i salari nel Mezzogiorno hanno perso il 12% di potere reale, mentre nel Centro-Nord la perdita è stata contenuta al 3%

Tonino Perna  26/07/2023

Gli ultimi dati Istat-Svimez confermano il trend che vede i salari nel Mezzogiorno perdere di potere d’acquisto. Il fenomeno riguarda tutta l’Italia, ma è ancora più grave nel Sud: dal 2008 al 2022, i salari nel Mezzogiorno hanno perso il 12% di potere reale, mentre nel Centro-Nord la perdita è stata contenuta al 3% , gli occupati con un contratto a termine sono il 22,9% contro il 14 % del Centro-Nord, ed il part-time involontario riguarda circa il 75% dei dipendenti a termine contro meno del 50% nel Centro-Nord. E ancora: i dipendenti con retribuzione lorda oraria inferiore ai 9 euro l’ora sono il 25,1% contro il 15,9% del Centro-Nord. E qui ci fermiamo un attimo perché questi dati vanno approfonditi.

Quando Tv e stampa nazionale dicono “un lavoratore su quattro al Sud è pagato meno di 9 euro l’ora” dicono una cosa parzialmente vera, in quanto la realtà è ben più grave. Infatti, dal calcolo bisogna togliere i lavoratori della Pubblica Amministrazione che nel Mezzogiorno arrivano a 1,4 milioni su un totale di circa 4 milioni di lavoratori dipendenti. Con questa banale sottrazione possiamo dire che nel settore privato un lavoratore su 2,7 , pari al 37 per cento, ha una paga orario inferiore ai 9 euro.

C’è poi da sollevare il pesante velo che copre il lavoro nero nel Sud. Diverse ricerche sul campo ci dicono che si è fortemente ridotto il lavoro nero tout court, vale a dire il lavoratore totalmente clandestino. In molti settori, dall’agricoltura al commercio e all’edilizia, specie le piccole imprese, hanno scelto da anni la strada del lavoro part-time per coprirsi da eventuali controlli. Solo che i lavoratori in questi settori spesso firmano per un contratto di tre-quattro ore giornaliere, su cui vengono regolarmente registrati e assicurati, ma poi di ore ne fanno almeno il doppio e, quando va bene vengono pagati in nero, certamente ad un salario orario nettamente inferiore ai 9 euro. Se domandate ad uno di questi lavoratori perché non denuncia o non lascia, la risposta è sempre la stessa: se denunci non lavori più da nessuna parte, in ogni caso non ci sono condizioni di lavoro alternative.

Chi conosce le dinamiche reali del mercato del lavoro sa perfettamente che gli ispettori del lavoro sono insufficienti, non di rado sono soggetti a corruzione, e nei casi migliori chiudono un occhio, più spesso due, per non comminare sanzioni che metterebbero in crisi le aziende più piccole nei settori tradizionali. Si possono fare le migliori leggi del mondo a difesa di lavoratori, ma se poi non c’è un controllo sulla loro applicazione la realtà non cambia.

E’ una situazione insostenibile per molti giovani e per molte famiglie che devono fare i conti con una continua perdita di potere d’acquisto, da più di un ventennio a questa parte. Garantire un salario minimo orario di 9 ore, inferiore a quello di molte potenze industriali (nella Ue, in Nord America, Giappone) è non solo un atto di civiltà per una Repubblica che si dice fondata sul lavoro, ma ha anche un vantaggio sull’economia del nostro paese, perché incrementa la domanda interna che latita da molto tempo.

Il record raggiunto dalle esportazioni nel 2002 (oltre 500 miliardi di euro!) se è un dato positivo da una parte, dall’altra rende fragile ed esposto alle crisi internazionali la nostra struttura economica.

Sarebbe auspicabile che mentre si introduce il salario minimo di 9 euro orari, si riduca il cuneo fiscale per le piccole imprese nei settori sovra menzionati (agricoltura, piccolo commercio, edilizia), e si rendano realmente operativi, incrementando e qualificando gli addetti, gli Ispettorati del lavoro.

Una drastica riduzione del cuneo fiscale non può essere generalizzata per l’alto costo per le finanze pubbliche, ma potrebbe essere avviata per le piccole imprese, inferiori ai dieci addetti, nei settori a basso valore aggiunto, più esposti alla concorrenza sul costo del lavoro. Insomma, partendo dalla sacrosanta richiesta di un salario minimo si possono modificare i rapporti di forza esistenti nei diversi mercati del lavoro, a vantaggio dei lavoratori e delle piccole imprese, spesso anello debole di una catena che trasferisce il valore aggiunto da chi produce a chi commercializza, per arrivare ai fondi di investimento e alla finanza speculativa.

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