IL NUOVO FEUDALESIMO DELLE CENSURE AI SOCIAL da IL FATTO e IL MANIFESTO
Il nuovo feudalesimo delle censure ai social
FRANCESCO SYLOS LABINI 24 LUGLIO 2024
Lo scorso maggio l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato una mozione per il riconoscimento della Palestina con 143 voti a favore, 25 astenuti (tra cui l’Italia) e 9 contrari (tra cui gli Stati Uniti). La votazione non ha prodotto effetti concreti ma è stata significativa perché mette in luce l’isolamento internazionale dei Paesi occidentali e perché smuove le coscienze. Le comunità accademiche dei Paesi occidentali hanno mostrato sensibilità verso il problema anche grazie alle pressioni degli studenti che sono stati i primi a manifestare la solidarietà per la strage mostruosa in corso. Da un punto di vista istituzionale, però, poco si è mosso.
In Italia il Senato accademico dell’Università per Stranieri di Siena ha approvato all’unanimità il documento sugli eventi di Gaza in cui “condanna con fermezza la smisurata rappresaglia perpetrata dallo Stato di Israele a Gaza in risposta all’esecrabile e ingiustificabile eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023”. Più recentemente il Senato accademico dell’Università degli Studi di Siena, con una mozione approvata all’unanimità, si rivolge al Parlamento e al governo perché “l’Italia si unisca al gran numero di Paesi che, nel mondo, riconoscono ufficialmente lo Stato di Palestina”. Data l’importanza del documento, il sito Roars.it, dedicato alla politica dell’università e della ricerca e animato da una redazione di docenti universitari di cui faccio parte, ha pubblicato il documento e lo ha condiviso su Facebook che però non ne permette la pubblicazione. Questa situazione deve aprire una riflessione sulla libertà di espressione che da diritto costituzionale si trasforma nei fatti in una concessione arbitraria da parte dei signori delle piattaforme. Non si tratta di un caso isolato ma di una politica sistematica di soppressione di qualunque voce critica verso Israele. Human Rights Watch (Hrw), una delle più importanti organizzazioni non governative, ha pubblicato un report lo scorso dicembre in cui denuncia che le politiche di Meta hanno messo a tacere le voci a sostegno della Palestina e dei diritti umani dei palestinesi su Instagram e Facebook, nell’ondata di maggiore censura dei social media in seguito alle ostilità iniziate il 7 ottobre 2023.
Tra ottobre e novembre 2023, Hrw ha documentato rimozioni e altre soppressioni di contenuti Instagram e Facebook sul tema della Palestina, anche in merito a violazioni dei diritti umani. Meta ha un passato ben documentato di repressioni troppo ampie di contenuti relativi alla Palestina. In questo contesto, Hrw ha riscontrato che il comportamento di Meta non rispetta le sue responsabilità in materia di diritti umani, e che dovrebbe iniziare a rivedere la sua politica sulle organizzazioni e gli individui pericolosi in modo che sia conforme agli standard internazionali sui diritti umani. Non sembra, tuttavia che qualcosa sia cambiato, e lo scontro sulla censura nei social media si fa sempre più aperto. Il 12 luglio 2024, Elon Musk, proprietario e presidente di X/Twitter (che non ha censurato il contenuto del nostro sito) ha affermato con un tweet che la Commissione europea “ha offerto a X un accordo segreto illegale: se avessimo silenziosamente censurato la libertà di parola senza dirlo a nessuno, non avrebbero cercato di emettere multe giornaliere relative alla spunta blu del sistema di verifica di X che potrebbe ammontare al 6% del fatturato annuo dell’azienda. Le altre piattaforme hanno accettato l’accordo. X no”. Il post di Musk è arrivato dopo che il commissario europeo Thierry Breton ha annunciato i risultati preliminari della Commissione secondo cui prima di Musk i segni di spunta blu “indicavano fonti di informazione affidabili”, ma ora violano il Digital Services Act perché, oggi, “chiunque può abbonarsi per ottenere tale stato verificato, pertanto la Commissione può “imporre multe e richiedere modifiche significative”. Poco dopo il suo post sull’accordo segreto, Musk ha dichiarato che intende portare la Commissione in tribunale se i suoi risultati preliminari saranno confermati e se quest’ultima persegue un’azione coercitiva contro X.
Nel suo ultimo libro Yanis Varoufakis (Tecnofeudalesimo, La nave di Teseo, 2023), sottolinea che le piattaforme digitali, come Facebook e Amazon, non operano più come imprese oligopolistiche quanto invece come feudi o proprietà private. In questo modo, le web factories stanno costruendo un nuovo modello sociale e di produzione del capitalismo completamente al di fuori delle leggi dei singoli Paesi, sollevando più di un interrogativo sul controllo democratico delle tecnologie che usiamo ogni giorno. Nella battaglia per il controllo dei social media, interessi privati e condizionamenti politici troppo spesso trovano un terreno comune a discapito dei diritti dei cittadini.
Stato di diritto e media. Meloni come Orbán?
RI-MEDIAMO. La rubrica settimanale a cura di Vincenzo Vita
Vincenzo Vita 24/07/2024
Ora che è stata rieletta senza i voti di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen renderà pubblico il Rapporto sullo stato di diritto tenuto in qualche cassetto per fare una cortesia alla Presidente del consiglio italiana?
In quel testo, si sussurra, vi sarebbero giudizi non commendevoli sullo stato dell’universo mediatico nell’età della destra al governo. Del resto, basti vivere in questo mondo per accorgersi di una vera e propria invasione del nostro immaginario. E questo non riguarda solo il Tg1, diventato ormai il megafono ufficiale del regime, bensì pure le varie filiere dell’infosfera: dalle pressioni su consistenti parti della stampa, all’occupazione della Rai, all’atteggiamento verso il diritto di cronaca (il diluvio di querele temerarie), all’assenza di una visione riformatrice. Ora sarebbe augurabile che almeno le componenti democratiche e progressiste dell’assemblea di Strasburgo ponessero con urgenza il problema della trasparenza, invitando la responsabile di Bruxelles a rendere pubblico il documento, con l’apertura di un adeguato dibattito.
E anche nel parlamento italiano avrebbe senso chiedere conto di una vicenda tanto misteriosa quanto assurda. Del resto, l’Italia in Europa è una sorvegliata speciale, ormai vicina all’Ungheria di Orbán nel giudizio prevalente.
Diversi giorni fa creò allarme la pubblicazione del Centre for media pluralism and media freedom «Monitoraggio del pluralismo dell’informazione nell’era digitale», pubblicato dall’European University Institute e dal Robert Schuman Centre for Advanced Studies.
Nel rapporto in questione si indagano varie aree tematiche con indicatori di pericolo presentati in una scala da 0 a 100%. Da 0 a 33% rischio basso; da 34 a 66% medio; da 67 a 100% alto.
Naturalmente, nelle più di 50 pagine del Rapporto si prendono in esame le piaghe che affliggono il sistema: dalla scarsa autonomia del servizio pubblico radiotelevisivo alla mancanza di una disciplina non retriva sulla diffamazione. Un passo inquietante riguarda il dato offerto da Ossigeno informazione sui giornalisti minacciati nel 2023: ben 500. Di cronaca coraggiosa si può morire, come dimostra la tragedia di Gaza, andrebbe aggiunto.
Ma il rischio tocca una percentuale da bollino rosso (61%) nel capitolo sul pluralismo di mercato. Qui si incrociano le assenze e le fragilità della legislazione con l’insufficiente trasparenza delle proprietà e la malattia antica della concentrazione. Il discorso tocca da vicino il nervo scoperto dell’irrisolto conflitto di interessi, che evoca il legame tra Mediaset e Forza Italia, ma non solo. Si tratta di una ferita, che contribuisce ad appannare l’immagine italiana e a condizionare l’edificio democratico.
A tale fotografia negativa si unisce il pericoloso 72% sul quale si attesta l’indicatore della sostenibilità dei media, che la caduta vertiginosa della carta stampata fa traballare. E non restituiscono equilibrio alla situazione le incerte linee sull’innovazione. Al proposito, il testo è piuttosto aspro. Le modalità di finanziamento del comparto non vanno bene, si sottolinea. Talune testate, si scrive, rispettano solo formalmente i requisiti richiesti per accedere alle risorse dell’apposito Fondo, suscitando non pochi dubbi. Si guarda con preoccupazione all’applicazione delle norme sulle campagne elettorali, dove un emendamento della destra al Regolamento varato dalla commissione parlamentare di vigilanza ha permesso una presenza ultronea degli esponenti del governo nelle trasmissioni televisive. A rischio è proprio l’indipendenza del servizio pubblico, che abbisogna di una vera e rigorosa riforma.
Il punteggio peggiore (72%), tristemente, è raggiunto – però – dalla scarsissima eguaglianza di genere, restituendoci così un’impressione definitivamente negativa. Il Rapporto, curato per l’Italia da un gruppo di stimati docenti (Giulio Vigevani, Gianpietro Mazzoleni, Nicola Canzian e Marco Cecili) si conclude con numerose raccomandazioni, precise e condivisibili. Che le parole si traducano ora in iniziative concrete, rimettendo tra le priorità dell’agenda argomenti a lungo elusi e rimossi.
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