Il cerchio di gesso. Recensione
di Piero BEVILACQUA –
Il cerchio di gesso – che sembra riprendere il titolo di un dramma teatrale di Bertoldt Brecht – è in realtà il segno che la polizia scientifica traccia intorno ai fori lasciati dai proiettili in seguito ad una sparatoria. E questo titolo, molto provocatoriamente, fu dato a una rivista da un gruppo di intellettuali di varia provenienza politica e formazione, all’indomani dell’uccisione, a Bologna, l’11 marzo del 1977, dello studente Francesco Lorusso. La grande manifestazione di protesta che investì la città provocò un’ondata di repressione poliziesca che portò alla chiusura di Radio Alice: una voce indipendente fra le più popolari d’Italia. In quel momento Bologna venne a incarnare uno dei punti di più aspro conflitto tra forze politiche di sinistra radicale e il potere istituzionale nelle sue varie incarnazioni. Ma in quell’anno memorabile, che produsse gravi lacerazioni nel corpo della sinistra tradizionale, i conflitti nella città emiliana possedevano una intelligenza anticipatrice che a 40 anni di distanza non possono non sorprendere. È una sensazione che si prova leggendo oggi Il cerchio di gesso. Antologia (1977-1979) a cura di Vittorio Boarini, Giulio Forconi e Giorgio Gattei, Pedangron Bologna , 2018 ( pp.318 € 18). La raccolta antologica ospita scritti di varie dimensioni e impegno, che vanno da una lunga poesia civile di Roberto Roversi su Bologna e sul recente eccidio, al saggio introduttivo di Gianni Scalia – uno di primi a lasciare il gruppo per dissensi interni – a scritti degli stessi curatori, di Luigi Ferrajoli, Federico Stame, Pietro Bonfiglioli, Giuseppe Caputo, Anna Panicali e vari altri. In coda le testimonianze di quella breve esperienza a 40 anni di distanza, di Bigalli, dello stesso Boarini, Bernardino Farolfi, Forconi, Gattei, Maurizio Maldini e Paolo Pullega.
Il senso di anticipazione che si percepisce in questi scritti intrigano lo storico che guarda a quei fatti dalla catastrofe politica dei nostri giorni. Quegli intellettuali che protestavano contro forme intollerabili di violenza e di sopraffazione, in realtà cominciavano a esprimere non solo disagio per un welfare cittadino avviato al declino, ma un dissenso sempre più dispiegato nei confronti della politica nazionale del PCI, ispirata dalla dalla scelta del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana. Nelle parole di Gianni Scalia le ragioni della rivista, che sono quelle di una rivolta intellettuale e morale molto ampia, si comprendono con rara chiarezza. E sono parole per il nostro tempo:
«Dovrebbe essere semplice da capire: il Potere diventa assoluto, e funziona come tale se manca l’opposizione al potere, se l’opposizione fa parte del potere, si “compromette” col potere, se il potere si produce e si riproduce con il consenso dell’opposizione».
Scalia e gli altri, in effetti, vedevano da Bologna e dall’Emilia, vale a dire dal punto più alto del successo egemonico del PCI, l’inizio del suo storico dissolvimento. E lo scorgevano marxianamente – vale a dire con l’insuperabile bussola analitica di Marx – nel progressivo disancoraggio della sinistra istituzionale dalle sue radici di classe: «Quello che ci minaccia è la perdita della “memoria” di classe, nella classe che è irriducibilmente espropriata ed è irriducibilmente, potenzialmente rivoluzionaria, perché c’è sempre la divisione intollerabile di oppressi e oppressori, di sfruttati e di sfruttatori». Parole queste ultime che suoneranno arcaiche ai politici perbene della sedicente sinistra dei nostri giorni, impegnata a conseguire sempre più scarsi consensi elettorali, piuttosto che organizzare e rappresentare le classi lavoratrici e i ceti subalterni.
Non è qui possibile dar conto dei temi affrontati dalla rivista nei suoi pur pochi anni di vita. Basti qui accennare almeno al fatto che negli scritti antologizzati in questa pubblicazione si riflette anche il generale processo involutivo verso cui si avviava la vita civile del nostro Paese. Repressione e rivolta si fronteggiavano in quegli anni in una contrapposizione lacerante. Tutta «la società – scriveva Boarini in un saggio dell’ottobre 1978 – è idealmente e materialmente in armi: il pluralismo politico e sociale sembra tendere a identificarsi con una pluralità di partiti o gruppi armati». L’ombra del terrorismo calava sulla realtà italiana finendo col rendere “criminale” ogni critica radicale alla società divisa in classi.
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