“IL BRASILE È TORNATO”, L’AMERICA LATINA RESPIRA da IL MANIFESTO
Jessé Souza: «Per Lula all’inizio sarà difficile, ma farà molto per i poveri, gli indigeni e l’ambiente»
INTERVISTA. La vittoria elettorale contro Bolsonaro vista da uno dei più grandi sociologi brasiliani viventi. «Il vero problema oggi è il razzismo, che si presenta anche sotto nuove maschere. Quanto al golpe, non ci sarà: Washington ha già riconosciuto il risultato…»
Claudia Fanti 01/11/2022
Il senso di sollievo è indescrivibile, anche al di là delle frontiere brasiliane. Per tutte le persone che hanno a cuore la democrazia, la sorte dei poveri e degli indigeni, la sopravvivenza dell’Amazzonia, la vittoria di Lula è la fine di un incubo. Lasciarsi alle spalle il bolsonarismo, tuttavia, non sarà per nulla facile: il peso che avrà al Congresso, le proteste golpiste di queste ore per le strade, la profonda polarizzazione del paese rivelata dal voto indicano che non si è trattato appena di una parentesi. Ne abbiamo parlato con Jessé Souza, uno dei più grandi sociologi brasiliani viventi, autore, tra molte altre opere, del celebre libro A elite do atraso, sul patto dei detentori del potere per perpetuare una società forgiata sulla schiavitù.Il Brasile può finalmente respirare…
Il sollievo è enorme. E non credo che ci sarà un tentativo di golpe. Gli Stati Uniti, come pure l’Europa, hanno già riconosciuto la vittoria di Lula e in America Latina non ci può essere un colpo di stato senza l’autorizzazione degli Usa. Sul piano interno, poi, c’era più di un milione di persone ad ascoltare il discorso di Lula nell’avenida Paulista durante festa per la sua vittoria. Un discorso magnifico, emozionante: c’era molta gente che piangeva. Le persone sono consapevoli che il paese sta voltando pagina rispetto alla tragedia assurda e orribile che Bolsonaro ha rappresentato per il Brasile e per il mondo.
Il bolsonarismo, però, è tutt’altro che scomparso. Perché è ancora così forte?
Le persone, in effetti, non capiscono come i poveri possano essere bolsonaristi. La vera causa va individuata nel razzismo, una questione a cui ho dedicato la vita intera. In Brasile, come negli Stati Uniti, non è più possibile dire apertamente che i neri sono inferiori o che devono morire: il razzismo si presenta sotto nuove maschere, come quelle della lotta contro la corruzione e della guerra al crimine. Ma è sempre il sentimento razzista alla base del voto per Bolsonaro. A votare per lui non sono stati i più poveri, per esempio i nordestini. Ma hanno votato per lui i bianchi poveri e razzisti di São Paulo e del Sud del paese, quelli che si trovano sulla scala sociale appena un gradino sopra i neri, quelli che sono fieri di essere bianchi di origine europea, di avere un cognome italiano o tedesco. São Paulo è uno stato abitato in gran parte da gente di origine italiana. Si tratta di persone anch’esse umiliate, ma a cui nessuno ha spiegato perché lo sono. Sono molto distanti dai discendenti degli europei laureati e colti che hanno costituito la piccola classe media brasiliana.
C’è una legione di bianchi che sono poveri, non hanno una laurea, non hanno cultura, non hanno altro che la loro pelle bianca. È in loro nome che Bolsonaro ha scatenato la sua crociata contro le università, contro la cultura, contro l’arte. E l’estrema destra, tanto degli Stati Uniti quanto di qui, usa la stessa tattica: sono i neri i responsabili di quanto accade e il Pt è il loro alleato.
E nel resto del paese cosa è successo?
Il resto del paese è meticcio e nero. Ma è anch’esso razzista. A Rio gli evangelici, poveri e in molti casi anche neri, sono pure loro oppressi, ma, di nuovo, nessuno – men che meno la stampa, venale e in mano ai ricchi – spiega loro quali siano le cause di questa oppressione. E così si contrappone al povero che è onesto un povero che è criminale, e che è nero. Un nero catalogato come onesto, umiliato per tutta la vita, abbraccia questa visione come un naufrago fa con una boa di salvataggio. La necessità morale dell’essere umano di essere riconosciuto e rispettato è il bisogno più importante della vita sociale. Non è l’economia come pensano in tanti. La necessità primaria è il riconoscimento sociale. E questo riconoscimento, se in alcuni paesi, come in Scandinavia, può essere universalizzato, in altri, come negli Stati uniti e in Brasile, diventa un’arma utilizzata per umiliare chi è più in basso di te.
Questa è, in fondo, l’essenza dell’estrema destra. Questa è l’essenza del bolsonarismo. Che siano razziste le élite che hanno in mano il paese e la classe media bianca che si sente superiore per le sue origini europee è ovvio: per queste è la lotta alla corruzione la maschera del razzismo. Per le classi povere, per i bianchi poveri di São Paulo e del Sud e per gli evangelici poveri meticci e neri il razzismo è frutto della manipolazione di Bolsonaro.
Il paese che Lula si trova ora di fronte è più conservatore, diseguale e diviso di quello da lui governato vent’anni fa. Riuscirà a riconciliarlo?
Sono convinto che sia possibile. Anche perché una parte, benché minoritaria, della stessa élite era insoddisfatta di Bolsonaro. Bolsonaro è un fascista. Il suo progetto era di fare del Brasile un’altra Ungheria. Di dominare, dopo il Congresso, anche la stampa e la Corte Suprema, e così concentrare i tre poteri nelle sue mani. Un processo che sarebbe sfociato in una lunghissima dittatura. E alcuni, all’interno delle élite, hanno cominciato a rendersene conto. La Rede Globo, per esempio. E gli stessi giudici della Corte Suprema. Buona parte dell’élite brasiliana è fascista, ma quella che non lo è si è resa conto che era meglio puntare su un presidente come Lula.
Il punto principale è contare su una stampa che sia veramente libera e in grado di spiegare alle persone cosa avviene realmente. È facile smontare Bolsonaro. Tutto in lui è menzogna e frode. Bolsonaro è un comune delinquente, ha passato l’intera vita a rubare e sono aperti contro di lui decine di processi che sono stati finora bloccati. Dal primo gennaio non sarà più possibile farlo. Se si riuscisse a smascherare Bolsonaro e a mostrare la tragedia morale che rappresenta, questo potrebbe dare avvio a un importante processo di formazione e di riconciliazione. Per questo Bolsonaro non può essere amnistiato. Deve essere arrestato insieme a tutta la sua famiglia. Lo smascheramento morale di Bolsonaro porterebbe con sé il suo smascheramento politico. Chiaro che non sarà facile, ma ora vedo tutto con più ottimismo.
Lula è stato appoggiato da un ampio arco di alleanze. Il suo sarà un nuovo governo di conciliazione di classe?
Chiaro. I suoi governi sono sempre stati così. Ora è stata la minaccia rappresentata da Bolsonaro a unire le diverse forze. E a indurle a riconoscere che quanto avvenuto prima, la criminalizzazione di Lula e del Pt, è stato un errore. Lula stesso è consapevole che all’inizio sarà difficile ma sono convinto che riuscirà a fare molto per i poveri, per l’Amazzonia, per gli indigeni che sono stati decimati e che sono i custodi della foresta.
Lo scrittore e docente Bruno Cava ha scritto che Lula non sarà altro che un Biden brasiliano…
È un’enorme sciocchezza. Biden è un uomo dell’establishment statunitense, un membro dell’élite. Lula non lo è: dovrà cercare compromessi con questa élite, ma non appartiene ad essa.
Quali saranno le sue principali sfide?
Quella principale è la fame. Vivo a São Paulo ed è deprimente girare per le strade: non avevo mai visto una tale povertà. La seconda sfida più importante è la difesa degli indios e dell’Amazzonia.
Nei suoi precedenti governi Lula non aveva mostrato, tuttavia, una sensibilità ecologica.
Ora sì. Credo che abbia imparato molte cose durante il suo calvario. Penso che abbia capito che deve usare più accortezza con l’élite e non fidarsi mai. E poi che deve prendere sul serio la questione ambientale.
«Il Brasile è tornato», l’America latina respira
PROSPETTIVE CONTINENTALI. Una vittoria che rilancia i progetti di integrazione regionale modello Ue e l’indipendenza dagli Usa. Una buona notizia per Cuba stremata. E per l’Amazzonia, difesa anche da Petro in Colombia
Roberto Livi01/11/2022
«Il Brasile è tornato» sulla scena internazionale, ha detto Luiz Inácio Lula da Silva dopo la drammatica e storica vittoria su Bolsonaro. L’America latina e in particolare Cuba tirano il fiato. Non vi è dubbio che il successo del leader del Partito dei lavoratori brasiliano abbia un enorme peso per il subcontinente latinoamericano. E che ne cambi gli equilibri geopolitici.
Lula nel campo della politica estera avrà mani relativamente più libere rispetto alla pericolosa situazione interna ereditata da quattro anni di presidenza Bolsonaro. Negli ultimi 40 anni, dalla fine della dittatura militare, il Brasile si era distinto per una politica estera indipendente, pragmatica e professionale che aveva dato un forte prestigio al paese. Bolsonaro aveva rotto questa tradizione alleandosi con gli Usa di Trump e diventando una sorta di «paria internazionale», come lamentava una parte della diplomazia brasiliana.
FIN DALL’INIZIO della sua campagna presidenziale lo scorso maggio, Lula si era mostrato deciso a riprendere una sorta di leadership dello schieramento progressista latinoamericano. Dopo aver annunciato la sua alleanza col moderato Geraldo Alckmin – e dunque la scelta di occupare, seppur dinamicamente, una posizione di centro – aveva lanciato l’idea di una moneta unica per il subcontinente latinoamericano.
Indicando così di allinearsi con le tesi sostenute dal presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador (Amlo), sulla necessità di riorientare lo schieramento progressista su una politica di integrazione regionale pragmatica, avendo a modello l’Ue e capace di interloquire con gli Stati uniti su una base di indipendenza e sovranità regionale.
Dalla sua elezione nel 2018, per il peso economico e geopolitico del Messico, era toccato ad Amlo la guida di un tale schieramento che metteva da parte l’antimperialismo con forti connotazioni ideologiche dei tempi del presidente venezuelano Chávez. Amlo prendeva così la distanza dalla tesi che la crisi imperiale degli Usa comportasse la possibilità di una rapida decadenza dell’egemonia neoliberista.
Da domenica, e dopo le precedenti vittorie dei leader progressisti Gabriel Boric in Cile e Gustavo Petro in Colombia, il «ritorno» di Lula rafforzerà questo schieramento progressita pragmatico, che ormai allinea le cinque principali economie del subcontinente, Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile. Del resto sono stati proprio i presidenti di questi paesi i primi a congratularsi con il leader del Partito dei lavoratori per la sua terza presidenza. «Ha vinto Lula, benedetto il popolo del Brasile. Vi sarà uguaglianza e umanismo», ha commentato Amlo.
IL PESO del Brasile è un fatto evidente: è il gigante del subcontinente, con 214 milioni di abitanti, una delle maggiori economie mondiali e, secondo l’Fmi, con una crescita prevista del 2,8%. Avendo come base ormai consolidata il blocco con Argentina, Uruguay e Paraguay che ha dato vita al Mercosur (13 paesi), il centro della politica latinoamericana di Lula sarà volto a rafforzare l’altro organismo di integrazione regionale, la Celac (32 paesi dell’America latina e del Caribe) e a dare priorità all’associazione strategica con l’Unione europea.
Celso Amorim, uno dei consiglieri storici di Lula, pochi giorni fa ha assicurato che i temi ambientali saranno «un elemento centrale della politica estera di Lula, perché dalla questione climatica dipende la sopravvivenza del pianeta». E anche nel suo intervento di domenica il presidente eletto ha ribadito che , per quanto riguarda l’Amazzonia, la linea portante sarà «zero deforestazione».
Non solo, in collaborazione con la sua alleata nella campagna – ed ex ministra dell’Ambiente – Marina Silva darà impulso a una maggiore cooperazione internazionale per proteggere il “polmone della terra” e per promuovere misure contro il cambiamento ambientale.
«Costruiremo un Brasile sostenibile» ha ribadito Lula. Su questi punti potrà contare soprattutto su una manifesta affinità con Gustavo Petro, anche lui al governo in un paese amazzonico – meno con il cileno Boric e con Amlo. Il presidente colombiano infatti ha in più occasioni proposto uno sviluppo economico che sia basato prioritariamente su energie pulite ed è intenzionato a caratterizzare il suo governo con una politica ambientale di peso.
PER CUBA, infine, poter contare su un presidente del Brasile amico oltre che alleato è un fatto di importanza strategica. «Lula significa un trionfo a favore dell’unità, la pace e l’integrazione latinoamericana» ha affermato il presidente Díaz-Canel.
Nel mezzo di una grave crisi economica con evidenti risvolti sociali e mentre il presidente statunitense Biden mantiene la quasi totalità dello strangolamento economico-finanziario e commerciale dell’isola, il governo cubano ha bisogno dell’appoggio di uno schieramento politico latinoamericano forte, che possa trattare con Washington da una base non conflittuale.
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