“I HAVE A DREAM” 1963: IL DESIDERIO DEL SOGNO E LA REALTÀ DELL’INCUBO da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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“I HAVE A DREAM” 1963: IL DESIDERIO DEL SOGNO E LA REALTÀ DELL’INCUBO da IL MANIFESTO

Washington 1963. Il desiderio del sogno e la realtà dell’incubo

60 ANNI DI «I HAVE A DREAM» . Il sermone durò mezz’ora, la parte più celebre recitata a braccio «Questo è un inizio», esordì Martin Luther King Jr. Non era vero

Bruno Cartosio  27/08/2023

Il 28 agosto 1963, Martin Luther King accompagnò i neri americani agli sportelli della «banca della giustizia» per richiedere il pagamento della cambiale scaduta che gli Stati uniti avevano rilasciato al suo popolo. E che fino a quel momento avevano solamente fatto finto di pagare, rilasciando sempre «assegni scoperti». I neri avevano ragione nel pretendere che gli Stati uniti rispettassero gli alti principi che loro stessi si erano dati. E immaginando che un giorno fossero stati capaci di farlo, diventava possibile «sognare» un mondo di uguaglianza e di libertà per tutti. Fratelli.

QUEL GIORNO King fu l’ultimo a prendere la parola, introdotto dall’anziano ex sindacalista nero A. Philip Randolph come «la guida morale del nostro paese». Parlò come tale. La costruzione retorica del suo discorso fu perfetta. L’iniziale denuncia della vergogna storica del razzismo e delle infinite inadempienze del potere dovevano sollecitare l’indignazione morale dei presenti, ma anche aprire infine i varchi alla speranza, con la prefigurazione di che cosa sarebbe potuto essere un futuro di armonia tra le razze, invece che di prevaricazione e oppressione. Le reiterazione del «sogno», in crescendo, con le diverse immagini che di volta in volta dovevano illustrarlo e renderlo desiderabile, fu il culmine del discorso. Fino alla liberatoria e profetica invocazione finale: «Che la libertà risuoni dal fianco di ogni montagna. E se facciamo che la libertà risuoni, se facciamo che risuoni da ogni villaggio e ogni borgo, da ogni stato e ogni città, riusciremo ad avvicinare il giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici saranno capaci di prendersi per mano e cantare le parole del vecchio spiritual nero, ‘Liberi infine!, liberi infine, grazie a Dio onnipotente, siamo liberi infine!’».

Il sermone durò meno di mezz’ora. King pose molta cura nel prepararlo, nel dosarne le parole e costruirne la linea. A un certo punto ne abbandonò la lettura, si è detto, ed è certamente vero che Mahalia Jackson, dietro di lui, a un certo punto lo incitò: «Martin, digli di quel sogno!». King andò a braccio, non per la foga, ma perché sapeva a memoria quello che voleva dire; lo aveva già detto altre volte. E Mahalia lo richiamò al «sogno» perché ne conosceva sia i contenuti, sia l’efficacia: King aveva già impiegato quello stratagemma retorico poche settimane prima a Detroit, in un’altra manifestazione con più di centomila partecipanti.
King due anni dopo:

Ho continuato a pensare che le attuali istituzioni si potessero riformare, un piccolo mutamento qui e uno là. Ora la penso in modo del tutto diverso

Questo «millenovecentosessantatré è un inizio», disse King nelle battute iniziali. Non era vero, naturalmente. Il movimento di cui lui stesso era testimone vivente era in atto da quasi dieci anni. E ne era testimone anche A. Philip Randolph, il sindacalista che nel 1941 aveva chiamato a una Marcia su Washington dei lavoratori neri che Roosevelt aveva evitato soltanto emettendo un Ordine esecutivo con cui bandiva le discriminazioni basate «sulla razza, sul credo, sul colore, sull’origine nazionale» negli impieghi pubblici e nelle industrie impegnate nella produzione bellica. Allora e nel dopoguerra la segregazione razziale e le discriminazioni nei luoghi di lavoro non cessarono, nella realtà. Nel 1963, la grande manifestazione «per la libertà e il lavoro» diceva che era necessario un nuovo inizio.

DUE ANNI PIÙ TARDI, dopo l’assassinio di Malcolm X a febbraio e dopo la rivolta nera di Watts a Los Angeles, King riconobbe che il sogno si era trasformato in «un incubo». Diede ancora momentaneamente fiducia a Lyndon Johnson per le sue politiche sociali, ma dopo i loro fallimenti e dopo l’inizio dell’escalation in Vietnam fu costretto ad ammettere di avere sbagliato: «Ho continuato a pensare che le attuali istituzioni si potessero riformare, un piccolo mutamento qui, un piccolo mutamento là. Ora la penso in un modo del tutto diverso. Credo che si debba avere una ricostruzione dell’intera società, una rivoluzione di valori», con una «ridistribuzione radicale del potere economico e politico» e una «ricostruzione radicale» della società. Malcolm X si era avvicinato a King, e l’ultimo King si era avvicinato all’ultimo Malcolm. Ma ormai era tardi. Aveva contro i grandi media e Washington. Non era più riconosciuto come guida morale della sua gente, e dopo le rivolte del 1967 il suo ruolo politico era contestato da altri protagonisti, da altre forze.

Tuttavia, la rabbia per il suo assassinio nel 1968 scatenò l’ultima grande sollevazione nera in tutto il paese. Nel 2018, a cinquant’anni da allora, i lavoratori della McDonald’s di Memphis, dove fu ucciso dopo aver partecipato allo sciopero dei netturbini, scesero in sciopero proprio il 4 aprile per ricordare il suo impegno per la «giustizia economica e razziale». E ora, a sessant’anni di distanza, nonostante i mutamenti legislativi conquistati dal movimento per i diritti civili, la temporanea presenza di un afroamericano alla Casa Bianca ha avuto ancora il potere di risvegliare il razzismo che sembrava dormiente nelle istituzioni e nella società.

Nessuno parlò di sogno realizzato quando fu eletto Obama. Anzi, come scrisse Kareem Abdul-Jabbar dopo l’assassinio poliziesco di George Floyd, il 25 maggio 2021, negli Stati Uniti il razzismo è dappertutto, è come «il pulviscolo atmosferico». E come decenni prima, gli eredi di Martin e Malcolm sono stati costretti a un altro nuovo inizio, tornando nelle strade a gridare che le vite nere contano.

La liberazione, un’incompiuta che soffoca ancora

60 ANNI DI «I HAVE A DREAM» . Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui – come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe

Alessandro Portelli27/08/2023

Come finisce il discorso di Martin Luther King del 28 febbraio 1963, lo ricordiamo tutti – la perorazione sul sogno, la luminosa visione futura. Quello che ci ricordiamo in pochi è come comincia: con un doppio riferimento alla storia. Le prime parole sono «Five score years ago» (e cioè «Cento anni fa»: score vuol dire venti).

Evocano l’incipit («Four score and seven years ago», 87 anni fa) del discorso del 1863 in cui Abraham Lincoln annunciava l’emancipazione degli schiavi rinviando al 1776 e all’indipendenza. Fin dalle prime parole, King avverte che la liberazione degli afroamericani è il compimento della liberazione del paese; ma questa liberazione è incompiuta, e quindi incompiuto è il paese.

King prosegue con una metafora che sembra quasi preparare l’immaterialità della perorazione conclusiva appoggiandola a una base di rapporti concreti – prepara il volo utopico finale partendo dal linguaggio mercantile, del commercio, del business: gli autori della Costituzione e della Dichiarazione d’Indipendenza, dice, «firmarono una cambiale (a promissory note) che ogni americano avrebbe ereditato. Era la promessa che tutti gli uomini – si, uomini neri come i bianchi – avrebbero goduto dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità (…) Invece di onorare questa sacra obbligazione, l’America ha dato ai neri un assegno a vuoto (…) E noi oggi siamo qui per incassare questo assegno».

Ecco, il sogno resta sogno finché la cambiale non è pagata. Se li mettiamo insieme ci rendiamo conto che il sogno non era mero desiderio ma un concreto programma politico, basato sulle fondamenta stesse del paese. La ribellione all’America realmente esistente si legittima con il richiamo all’America nascente idealizzata. Finché questo debito non è saldato, l’America tradisce se stessa.

E continua a farlo. Molti anni prima di King, il poeta afroamericano Langston Hughes domandava: «Che ne è di un sogno rimandato? Avvizzisce come un chicco d’uva al sole, marcisce come una piaga purulenta, puzza come carne marcita, si affloscia come un carico troppo pesante – o esplode?». È esploso molte volte questo sogno differito per una cambiale non pagata – a Harlem, a Watts, a Detroit, a Milwaukee, a East Saint Louis…

Per due volte, King usa una bella parola sonora: sweltering. Vuol dire «soffocante»: «Questa soffocante estate del legittimo scontento nero» … «il Mississippi, uno stato che soffoca nell’afa dell’ingiustizia». Le rivolte dei ghetti avvengono quasi sempre d’estate. Ma per la giustizia e i diritti degli afroamericani, è sempre una soffocante estate, in cui – come Eric Garner, strangolato a New York, e come ha ripetuto per un’intera estate il movimento Black Lives Matter, la parola d’ordine è I can’t breathe, non respiro.

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