Happy end. Ovvero, la classe morta
di Vittorio BOARINI –
Del film di Michael Haneke Happy End, presentato in concorso quest’anno a Cannes, la critica ha parlato ampiamente e ancora oggi, che l’opera è uscita nelle sale italiane, i nostri recensori le hanno dedicato largo spazio. Doverosamente perché l’autore, del quale dobbiamo ricordare Amour per gli evidenti richiami che sono presenti in Happy End, è uno dei cineasti più acutamente critici del Moderno, cioè della società contemporanea ingessata nel neoliberismo.
Lo stile di Haneke sembra essersi radicalizzato nello sguardo senza soggetto, totalmente impersonale, con cui viene osservata la realtà. Non è un ritorno a l’école du regard del nouveau roman francese, né una semplice parafrasi di Marx, l’uomo ridotto all’unico senso del vedere, perché nel nostro film lo sguardo senza soggetto è quello di uno smartphone o di una telecamera a circuito chiuso, cioè uno sguardo tecnologico, un vedere tecnicamente oggettivo la società disumanizzata (di Marx, semmai, potremmo citare il capitale divenuto un feticcio automatico).
Non sono i sentimenti infatti che uniscono una famiglia alto borghese di Calais, proprietaria di una grande impresa di costruzioni, della quale deve cedere tutte le azioni alle banche a garanzia di un prestito imprescindibile. Il capofamiglia, uno straordinario Jean-Louis Trintignant, ormai prossimo alla demenza senile, pensa solo al suicidio e confessa alla nipote tredicenne di avere soffocato la moglie perché ridotta allo stato vegetale. Gli affari sono curati dalla figlia, un’insuperabile Isabelle Huppert, alle prese con un figlio del tutto incapace di assumere un ruolo adeguato al suo status. Il fratello di lei, Mathieu Kassavitz, è un medico, divorziato da una moglie che muore per una strana intossicazione, dalla quale ha avuto la tredicenne a cui abbiamo accennato, che ha portato nella sua famiglia d’origine. Si è risposato e ha un figlio, ma ha anche un’amante con cui fa sesso digitalmente (i rapporti amorosi sostituiti da quelli informatici).
Nessuno prova sentimenti per gli altri e la nipotina, che ha tentato d’uccidersi, è legata da una sorta di complicità al nonno: lo asseconda nel suo ulteriore tentativo di togliersi la vita e cerca di fotografarne la fine. Forse i figli lo salveranno, da qui l’ironia di Happy End, che resta comunque un titolo antifrastico,perché la catastrofe della borghesia imprenditoriale è inarrestabile, come chiaramente alluso dalla scontata appropriazione da parte del potere finanziario della società di costruzioni.
Sfugge qualcosa al pessimismo ontologico? Non saprei, ma gli immigrati neri che in due significative scene del film contrappuntano la classe morta qualcosa vogliono dire.
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