Felicità, parola proibita
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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Felicità, parola proibita

Pubblichiamo la recensione al libro di Piero Bevilacqua, Felicità d’Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo (Laterza, 2017) apparsa sull’ultimo numero della rivista della Società dei territorialisti/e.

di Ilaria AGOSTINI, da “Scienze del territorio“, n. 6 (monografico: Le economie del territorio bene comune), 2018

La felicità che suona nel titolo dell’ultimo libro di Piero Bevilacqua ha valore politico. Felicità d’Italia è soprattutto un libro sulle avanguardie attuali, sulle alternative di esistenza, sugli avamposti anticapitalistici, dove la parola ‘felicità’, «parola proibita nella regressione calvinista delle società opulente», è matrice di mondi futuri, «progetto di più avanzata civiltà». Lo storico calabrese offre oggi ai lettori uno strumento di lotta valido per un conflitto da intraprendere, quale «lievito di libertà e di progressiva emancipazione» dalle passioni tristi del neoliberismo, nei territori della Penisola: coste e aree interne, città e ‘borghi’.

Ricomporre il quadro delle istituzioni di «ordine inferiore» – che, secondo l’intuizione di Carlo Cattaneo, presiedono alla formazione della «cultura e [del]la felicità dei popoli» –, ricostruire la storia delle istituzioni che producono spazi e socialità (Fadini), esaminarne dappresso le forme, il benessere che esse generano, «scoprirne il loro costituire, talora, l’intima tessitura di una civiltà», fornisce alla «coscienza collettiva del nostro tempo armi più esperte per la loro possibile rinascita, difesa e incremento». Indagine e conoscenza sono finalizzate dunque all’acquisizione di competenze nuovamente generatrici di felicità; competenze antiche da cui ripartire, ricondotte nei quattro capitoli del libro: alimentazione e cucina; città ed ecosistema urbano; canzone napoletana; associazionismo e cooperazione emiliana.

Quattro ambiti tematici che costituiscono il pretesto per una sapida ricognizione della varietà degli ambienti geografici e urbani offerti dallo Stivale, varietà già espressa sinteticamente da Lucio Gambi in un passo caro all’Autore che, infatti, lo cita testualmente: «L’Italia lungo i 1200 chilometri dalla catena alpina al mare d’Africa squaderna una varietà di condizioni fisiche quanto se ne trova in altre regioni della Terra su un arco meridiano di 3 o 4 migliaia di chilometri».

Con la premessa che il supporto geografico è il «luogo dove nascono e si intrecciano i saperi, si elaborano le culture, si svolgono e si annodano i rapporti umani e sociali, […] esplodono i conflitti, si costruisce il tessuto delle società con i toni e i colori di una storia che ha sedimenti profondi nei luoghi, nel loro secolare vernacolo», Bevilacqua accelera sulle potenzialità territoriali e trasporta il lettore in un voyage d’Italie che rincuora e, al tempo stesso, nel puntuale disvelamento delle ferite inflitte agli ambienti descritti, fa rimpiangere quanto perduto. In questa spirale narrativa che si ripropone nelle quattro sezioni del libro, l’Autore fa immediatamente seguire al rimpianto l’impulso all’azione creativa, al risarcimento territoriale, sempre accompagnato dal riscatto sociale.

Come lo fu in Cattaneo – «fonte originaria che ispira il progetto del nostro viaggio» – in Bevilacqua l’analisi e l’elaborazione culturale sono irresecabili dai territori, dalla loro esplorazione e dalla loro conoscenza.

E allora il mondo multiforme della cucina nazionale si connette narrativamente alla varietà degli ambienti: all’alpeggio estivo sulle Alpi; ai vigneti terrazzati valdostani; ai castagneti, vigneti e alberi da frutto delle colline prealpine lombarde e piemontesi; alla cerealicoltura, alle foraggere e alle risaie padane; ai promiscui dei rilievi appenninici e preappenninici nell’Italia centrale; alla ciclità delle greggi transumanti dell’Appennino centromeridionale verso Lazio e Puglie; agli sterminati coltivi a grano duro dei latifondi meridionali; ai ‘giardini mediterranei’ della Sicilia; alla pastorizia sarda.

Nella varietà pulviscolare di produzioni locali, i nomi dei frutti ne testimoniano la provenienza, spesso legata ai centri minori: della sola Campania, il testo ricorda «la rinomanza di cui godevano allora Arienzo per le ciliege, le mele, le pesche e le albicocche; Amalfi e Giugliano per le pesche; Procida per le albicocche; Posillipo per le mele bianche e l’uva moscatella; Somma per le visciole e le pere; Sorrento per le pesche, le prugne e le mele; San Pietro per i fichi», et cætera.

Le città si rivelano  meravigliose, «rinascimentali e barocche, medievali e neoclassiche, gotiche, normanne, arabe e bizantine». E innumerevoli: «dov’è possibile – si chiede lo storico – trovare in un singolo territorio nazionale, senza considerare Roma, una sequela così fitta di città come Trento, Milano, Bergamo, Brescia, Pavia, Torino, Genova, Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Trieste, Mantova, Bologna, Modena, Ferrara, Piacenza, Ravenna, Firenze, Pisa, Siena, Pistoia, Arezzo, Lucca, Napoli, Bari, Lecce, L’Aquila, Reggio Calabria, Palermo, Messina, Catania, Cagliari?»

A Napoli, «l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio» (Pasolini), il «paese cantatore» si mostra nella sua ricchezza di espressioni canore, coreutiche e teatrali: canzoni, tammurriate, farse, ecloghe, cavaiole, frottole, trastulli, commedie pubbliche, opere buffe, sceneggiate, macchiette, canzoni di giacca, strambotti, villanelle, gavotte, tarantelle, ‘mperticate, ‘ntrezzate, moresche. 

Le pagine scorrono e mettono in mostra la «ricca tradizione puramente orale» che ha conformato paesaggi e società. Contesti che memorizzano il fare e il saper fare, e che, aveva intuito Françoise Choay, costituiscono un monumento globale «di nuovo tipo» qualificabile come ‘poietico’. La loro perdita, avvertiva la filosofa francese, potrebbe perciò «essere irrimediabile».

Bevilacqua vi aggiunge speranza. Fare leva proprio sui «saperi tramandati che non reclamano diritti d’autore» – o «sulla ‘coscienza dei luoghi’» – consente agli individui di «superare il loro ‘sbriciolamento’ consumistico, di fondare e in parte ritrovare un nuovo potere collettivo». Unire «lotta e pubblica felicità».

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