“È IN ATTO IL PIANO PER CACCIARE I PALESTINESI DAL SUD DI HEBRON” da IL MANIFESTO
«È in atto il piano per cacciare i palestinesi dal sud di Hebron»
Masafer Yatta Parla Hamdan Ballal, residente a Susiya, premiato con l’Oscar per il film No Other Land. «Il mio villaggio ha ricevuto 43 ordini di demolizione. Cosa aspettarsi se non un atto di forza definitivo?»
Michele Giorgio 18/04/2025
«I coloni israeliani vogliono queste colline, questi terreni per i pascoli, questa luce, questi tramonti, perché sono meravigliosi. Susiya è isolata, siamo lontani dai centri abitati più grandi, eppure per me resta il posto più bello del mondo», ci dice Mohammad mentre, nella sua abitazione fatta di legno e lamiere, ci offre un caffè. Aspettiamo di intervistare Hamdan Ballal, vincitore di un premio Oscar assieme agli altri tre registi (il palestinese Basel Adra e gli israeliani Yuval Abraham e Rachel Szor) del documentario No Other Land. Lo scorso 25 marzo, Ballal è stato aggredito e ferito da coloni israeliani entrati nella sua abitazione a Susiya, poi è stato arrestato senza motivo dai soldati e liberato solo il giorno dopo. Mohammad, intanto, ci racconta di Susiya, della sua storia antica e dell’aumento delle scorribande dei coloni che da anni tentano di mettere fine all’esistenza del villaggio.
Vicende che riguardano tutta quell’area, Masafer Yatta, e le colline a sud di Hebron che Israele ha proclamato «zona di addestramento militare, 918». La popolazione palestinese è a rischio di espulsione. Intorno regna il silenzio, rotto solo da un cane che abbaia e dal vento che soffia tra i teli stesi sopra le abitazioni per proteggerle dalla pioggia e dal freddo. Nel frattempo, arriva Hamdan Ballal. Appare un po’ stanco, ma dopo tre settimane non mostra più sul viso e sulla testa i segni dell’attacco subito. «Sto meglio, mi sono ripreso e sono tornato al lavoro», dice. «Purtroppo, non è così per i miei bambini», aggiunge, «quel momento è stato durissimo per loro. Hanno visto il padre aggredito e poi arrestato senza alcun motivo dai soldati. Voglio che dimentichino, o almeno che sentano che le cose possono andare meglio».
Le cose però non vanno meglio, ogni giorno apprendiamo di nuovi raid a Um al Kheir, Jinba e altri villaggi di Masafer Yatta. Poche ore fa è stato ferito un altro palestinese.
Sì, è vero. Dopo che mi hanno attaccato, la situazione è addirittura peggiorata. I coloni sono entrati nel villaggio di Jinba e cinque abitanti sono stati feriti. Non basta. L’esercito è tornato di notte e ha distrutto tutto: la scuola, le case, le cucine, tutto. Qui a Susiya la violenza dei coloni non si limita ad attacchi alle persone o alle case. Va oltre. Da un po’ di tempo usano come arma persino le loro pecore: le portano a pascolare qui per distruggere le nostre coltivazioni.
Perché tanta pressione dei coloni sul tuo villaggio?
Dicono che è un luogo storico, biblico. E per questo vogliono cacciarci via. E usano varie strategie. Mentre ero in ospedale, ad esempio, mio nipote mi ha chiamato per dirmi che i coloni stavano facendo pascolare le loro pecore proprio fuori casa mia. Non importa se sei ferito o stai morendo, loro vanno avanti.
Pensi che l’aggressione che hai subito fosse collegata al premio Oscar?
Non ho una risposta certa, ad averla sono solo i miei aggressori. Tendo però a credere al collegamento con l’Oscar, perché mi colpivano alla testa, intenzionalmente. Come se volessero dirmi che pensare, ragionare, produrre informazioni, cultura e film non serviranno a mutare la mia condizione di occupato. Qui comandiamo noi, hanno creduto di affermare. Non ne sono sicuro, però è questa la sensazione. Allo stesso tempo, quanto mi è accaduto rientra nella strategia complessiva volta a cacciare tutti i palestinesi dalle colline a sud di Hebron. Il loro piano ha subito un’accelerazione. Prima, ad esempio, i coloni provenivano solo dalle zone vicine, ora sempre più spesso arrivano anche da altre parti della Cisgiordania. C’è un crescente coordinamento tra quelli nel nord e quelli del sud. Si organizzano per attaccare insieme. Ci sono persone mai viste prima che partecipano agli attacchi.
A tuo avviso, il piano di espulsione generale della gente di Susiya e di tutta Masafer Yatta è sul punto di scattare?
Susiya ha ricevuto 43 ordini di demolizione. Oltre a questo, cosa possiamo aspettarci se non un atto di forza ampio e definitivo? I segnali sono evidenti e inquietanti. Ogni momento c’è un nuovo attacco. A Masafer Yatta tutti hanno paura. Quando mandano i bambini a scuola, hanno paura che i coloni facciano loro del male. I pastori, quando escono con le pecore, hanno paura per le loro famiglie a casa. Conosciamo l’obiettivo di Israele, ma non possiamo immaginare quale sarà il prossimo metodo che userà contro di noi. Siamo indifesi, anche se gli attivisti internazionali e locali fanno del loro meglio per aiutarci.
A questo proposito, dopo che hai vinto il premio, alcuni palestinesi ti hanno criticato per aver realizzato No Other Land con degli israeliani, attuando una “normalizzazione tra occupato e occupante”.
Rispondo che sono cresciuto vedendo attivisti israeliani venire qui da più di vent’anni per sostenere i palestinesi. Molti di loro sono stati attaccati, imprigionati, alcuni sono stati feriti. Queste persone non sono dei normalizzatori, e con il tempo si è creato con loro un rapporto di fiducia. Susiya è stato demolito tante volte, e chi c’era a ricostruirlo per permetterci di rimanere nella nostra terra? Gli attivisti israeliani più sinceri, quelli che credono che ciò che stiamo affrontando sia una pulizia etnica, l’apartheid. Sono pochissimi, è vero, ma lottano assieme a noi per la sopravvivenza di Susiya e di tutta Masafer Yatta.
Tende in fiamme, a Gaza una famiglia sterminata nella «zona sicura»
Striscia continua Dieci uccisi ad al-Mawasi. Senza aiuti cresce la malnutrizione, allarme dell’Onu: le 175 cucine comunitarie ancora attive forniscono un milione di pasti. Non abbastanza per due milioni di persone. Per Israele, però, «non c’è nessuna emergenza»
Eliana Riva 18/04/2025
Aumenta la malnutrizione acuta a Gaza e diminuisce il numero di bambini che ricevono alimentazione supplementare. L’ultima relazione pubblicata dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani riporta che a marzo, su 91.769 bambini sottoposti a screening, 3.696 sono stati ricoverati per malnutrizione acuta, registrando un aumento rispetto al mese precedente.
I DATI NON TENGONO conto delle prime due settimane di aprile quando, secondo gli esperti Onu, la situazione potrebbe essere ulteriormente peggiorata. L’Ufficio di coordinamento per gli affari umanitari ha denunciato che le autorità israeliane continuano a negare le missioni di supporto alla popolazione.
Il blocco delle forniture mediche sta mettendo in pericolo la vita di un numero sempre maggiore di pazienti, mentre bombardamenti e ordini di sfollamento (che comprendono il 69% della Striscia) hanno indotto le organizzazioni internazionali ad abbandonare la maggior parte dei centri per curare la malnutrizione.
Dopo la chiusura delle panetterie gestite dal Programma alimentare mondiale, le 175 cucine comunitarie ancora attive distribuiscono quotidianamente circa un milione di pasti. Non abbastanza per soddisfare le esigenze di una popolazione composta da più di due milioni di persone, per la maggior parte completamente dipendenti dall’assistenza alimentare. A soffrire maggiormente sono come sempre i più piccoli. A marzo sono diminuiti del 70% i bambini che ricevono integratori alimentari. Le conseguenze della malnutrizione sono molto gravi, soprattutto sotto i cinque anni, con il rischio di danni irreversibili allo sviluppo cerebrale.
LE NAZIONI UNITE, le organizzazioni umanitarie presenti a Gaza con operatori, medici, infermieri, tecnici e le autorità palestinesi raccontano quotidianamente gli orrori umanitari della Striscia. Tutti denunciano la situazione disperata causata dal blocco degli aiuti, dai bombardamenti, dagli sfollamenti, dagli attacchi ai rifugi, alle tende e agli ospedali. Tutti, tranne l’esercito israeliano, che continua a raccontare una realtà capovolta.
Il quotidiano Haaretz ha riportato le dichiarazioni dei vertici militari secondo cui a Gaza non esisterebbe alcuna emergenza: «Il monitoraggio della situazione umanitaria ha indicato che ci sono forniture sufficienti per la popolazione». L’esercito ha fatto sapere anche che si sta discutendo sull’ingresso futuro di aiuti, «al fine di evitare una crisi umanitaria e di rispettare il diritto internazionale».
Ma le dichiarazioni del ministro della difesa Israel Katz dicono tutt’altro. Dopo essere stato pesantemente criticato dai suoi stessi alleati di governo per aver ipotizzato l’ingresso di aiuti, seppur con un nuovo meccanismo di totale controllo israeliano, ha dovuto specificare che «nessuno consentirà l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, né si stanno facendo preparativi di questo tipo».
NON SI TRATTA solo di cibo e di medicine ma anche del blocco di mezzi pesanti e tecnici per recuperare i corpi rimasti sotto le case abbattute, spostare le macerie per aprire percorsi verso gli ospedali, le cucine di comunità, i pozzi d’acqua, rimuovere gli ordigni inesplosi. Un’inchiesta della Reuters ha rivelato che gli sforzi internazionali per aiutare a spostare le bombe non detonate sono stati ostacolati da Israele, il quale dall’inizio della guerra ha impedito l’ingresso di oltre duemila articoli necessari per le operazioni di sminamento.
Quando i giornalisti hanno chiesto spiegazioni al governo degli Stati uniti, proprietario della maggior parte delle bombe lanciate a Gaza, il portavoce Brian Hughes ha risposto solo che la Striscia è un luogo invivibile e che «costringere gli abitanti a rimanere tra ordini inesplosi è disumano».
A Gaza ieri i bombardamenti hanno ucciso dall’alba al tramonto almeno 29 persone. Israele ha fatto sapere di aver colpito in due giorni 110 «obiettivi». Un attacco drone a una scuola-rifugio dell’Onu a Jabaliya ha ucciso sei palestinesi. Nella tarda serata di mercoledì il bombardamento a un campo tende nell’area «umanitaria» di al-Mawasi ha causato una terribile strage. Dieci persone ammazzate, membri della stessa famiglia, tra cui molti bambini, bruciati vivi tra la plastica e il nylon dei rifugi improvvisati. Uno di loro, Ahmed Zuhair Abu Al-Rous, era bloccato su una sedia a rotelle.
I MILITARI hanno organizzato incursioni in tutta la Cisgiordania occupata. A Yatta, sud di Hebron, l’esercito ha chiuso strade e posizionato cecchini sui tetti delle case per scortare alcune decine di coloni israeliani decisi a visitare un sito archeologico nella città palestinese. Anche il complesso della Moschea di al-Aqsa è stato nuovamente invaso dai coloni.
Circa duemila, sotto la protezione della polizia israeliana e accompagnati dal parlamentare Zvi Sukkot, hanno passeggiato e tenuto rituali religiosi mentre i militari impedivano ai palestinesi di entrare sulla Spianata delle Moschee.
No Comments