DILAGA LA PROTESTA, ATENEI DI LOS ANGELES IN LOTTA PER GAZA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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DILAGA LA PROTESTA, ATENEI DI LOS ANGELES IN LOTTA PER GAZA da IL MANIFESTO

Dilaga la protesta, atenei di Los Angeles in lotta per Gaza

STATI UNITI. Reportage da Ucla e Usc, dove la polizia smantella l’accampamento solidale e arresta oltre 90 persone. Cancellata la cerimonia di laurea

Luca Celada, LOS ANGELES  27/04/2024

«Abbiamo cinque richieste», spiega Marie, studentessa del coordinamento Uc Divest che da l’altro ieri occupa il campus di Ucla. «Disinvestimento da aziende complici nel genocidio, come la Blackrock, interruzione delle collaborazioni accademiche con istituzioni israeliane, trasparenza sugli investimenti dell’università e che questa prenda una posizione a favore del cessate il fuoco. Infine respingiamo ogni repressione poliziesca sui campus». Parliamo nell’ultimo villaggio in solidarietà con la Palestina, quello sorto alla University of California di Los Angeles dove da giovedì un migliaio di studenti si sono appropriati dello spiazzo antistante Royce Hall, l’edificio neoromanico simbolo dell’ateneo.

Ucla è l’ultimo campus ad essersi aggiunto alla protesta che sta dilagando nelle università americane e coalizzando contro la guerra e la strage infinita di Gaza, un ampio movimento per la pace e contro la logica dell’oppressione.
Negli ultimi giorni la protesta si è allargata ad una cinquantina di atenei in oltre venti stati. In almeno 15 di questi la polizia ha effettuato arresti che sono complessivamente ormai oltre 550, in nessun caso ad oggi sono state formalizzate accuse contro i fermati, profilando l’uso delle forze dell’ordine come semplice strumento repressivo.

LE PROTESTE, pacifiche anche quando rumorose, sono degenerate solo dove c’è stato l’intervento della polizia, come ad Austin, dove sono state utilizzate cariche a cavallo, gas urticanti e proiettili di gomma. O alla Usc dove l’accampamento in solidarietà coi palestinesi è stato smantellato dai reparti antisommossa della polizia di Los Angeles e gli arresti sono stati più di novanta. Motivazione: gli studenti avrebbero «messo in pericolo gli agenti».

Il campus della University of Southern California è ora sigillato dall’esterno con guardie ad ogni cancello che filtrano esclusivamente gli studenti con documenti. Founders Park dove erano state erette le tende è deserto e transennato. In ultimo, l’università, piuttosto che rischiare ulteriori espressioni di dissenso, ha deciso di annullare del tutto l’annuale cerimonia di laurea, che proprio nel parco si sarebbe dovuta tenere il 10 maggio.

LA USC, si noti, ospita istituti di grande prestigio accademico ed autoproclamata cultura liberale come il Center for Advanced Genocide Research (dedicato allo studio delle «origini, dinamiche e dimensioni della resistenza al genocidio») o la scuola di giornalismo Annenberg che produce ricerca sulla libertà d’espressione. Se le richieste di disinvestimento dal complesso militare industriale avanzate dagli studenti hanno messo in chiaro una cosa, è però che per molti atenei la libertà di espressione di fatto arriva solo fino agli interessi aziendali.
«Anche per questo, la nostra strategia è di influire sulla politica degli Stati uniti contrastando i fondi universitari ‘complici’ della strage», mi spiega Marie all’altro capo della città, a Ucla A che è partecipata pubblica ma comunque dipende da un lauto endowment di investimenti privati (di 25 miliardi). «Se ottenessimo il disinvestimento, anche il governo sarebbe obbligato prenderne atto».

SUL “QUAD” del campus universitario frequentato da 45.000 studenti c’è aria di carnevale di lotta. Un migliaio di ragazzi hanno eretto un perimetro all’interno del quale hanno piantato tende, un tavolo-mensa ed uno con volantini e informazioni. Sotto ad un albero la “biblioteca da campo” in memoria di Refaat Alareer (il poeta palestinese ucciso a dicembre a Shijaiyeh, nella Striscia) presta libri gratis. Vicino all’entrata del recinto, dove c’è il tavolo delle iscrizioni, ragazzi in keffiyah informano chi entra delle regole del campo: maschere obbligatorie (anche per proteggere le identità da eventuali sanzioni), niente armi, divieto di droga, alcol e sigarette, rispetto degli spazi inclusivi e «dei pronomi». «Per favore non introdurre arachidi o banane (vi sono manifestanti con forti allergie)». Non esattamente l’accampamento terrorista e antisemita disinvoltamente riportato da autorità e tanta stampa mondiale. Alle 16 inizia un «seder di pace e libertà», caratteristica delle proteste in questa settimana di Pasqua ebraica.

«SIAMO UNA comunità ecumenica e variegata – precisa Marie – consideriamo la questione dell’antisemitismo una distrazione dalla questione che vogliamo mantenere centrale: fermare un genocidio in atto».
In uno slargo centrale c’è il microfono dei dibattiti e degli slogan ed attorno il caranvaserraglio variopinto di studenti radunati attorno alle varie tende, dal campo delle Latinas para Palestina a quella del Coordinamento solidale filippino. C’è gente che scrive al computer e gruppi che fanno yoga. Un uomo si aggira per il campo con un cartello su cui è scritto «Israeliano inorridito per la stage insensata di bambini». Un altro capannello in un angolo segue un corso di storia coloniale della Palestina. Ci sono bambini che giocano, mentre all’esterno un gruppo di docenti tiene uno striscione: «Professori e staff in solidarietà con gli studenti».

Ci sono, è vero, momenti di tensione, incentrati sui drappelli di contromanifestanti che sul perimetro dell’accampamento sventolano bandiere israeliane e cercano di innescare lo scontro urlando «Siete Hamas!» ed altri improperi al megafono. Sono quasi tutti maschi e ben palestrati, vestiti di nero. Mi avvicino e chiedo ad uno di loro chi rappresentino? «Solo amici», risponde, ma poi aggiunge, «Ero nell’ Idf (esercito israeliano, ndr), qui mi sembra di essere tornato al fronte… Insegno Krav Maga a studenti ebrei e ti posso dire che hanno paura». «Non mi sembra violento», dico accennando all’accampamento. «Aspetta e vedrai», mi risponde l’uomo. Mezz’ora dopo, con una mezza dozzina di compagni tenterà di sfondare i cordoni di sicurezza per strappare bandiere palestinesi ai manifestanti che reagiscono. La colluttazione viene sedata e gli schieramenti riprendono le rispettive posizioni.

È L’IMBRUNIRE e nel recinto i ragazzi musulmani dicono le preghiere della sera. Dice Marie: «Rimarremo qui fin quando le nostre richieste non verranno accolte».

I ragazzi lo sanno: la ricerca va decolonizzata

LIBERTÀ ACCADEMICA. In questo momento, l’ideologia sionista e la sua occupazione militare della Palestina stanno perseguendo, come in tutti i colonialismi, l’eliminazione dei nativi, proprio come in precedenza nell’imperium anglofono del Nord America, dell’Australia e del Sudafrica

Iain Chambers  27/04/2024

Forse, di fronte a uno Stato che persegue la pulizia etnica con intenzioni genocide, che rifiuta il diritto internazionale e si considera al di sopra delle decisioni delle Nazioni unite comportandosi come uno «Stato canaglia», è giunto il momento di parlare di come affrontare direttamente Israele. Se appartiene all’Occidente moderno e democratico, come sostiene, ha bisogno di una seria riforma o altrimenti di essere messo in quarantena.

La questione non deve essere semplicemente dominata dalle relazioni internazionali, richiede una risposta etica e democratica. Siamo chiari. Il sionismo, in quanto impresa esplicitamente coloniale – e i suoi fondatori non hanno avuto remore a riconoscerlo – non può essere democratico nelle sue intenzioni. La protezione del suo dominio etnocratico richiede la purezza razziale e l’apartheid, ora incarnati nel suo apparato giuridico e nella sua costituzione. L’opposizione a questa critica di Israele, invariabilmente etichettata come antisemitismo, è essa stessa un attacco alla democrazia e alla ricerca della giustizia storica nell’analisi sociale e politica.

In questo momento, l’ideologia sionista e la sua occupazione militare della Palestina stanno perseguendo, come in tutti i colonialismi, l’eliminazione dei nativi, proprio come in precedenza nell’imperium anglofono del Nord America, dell’Australia e del Sudafrica. La formazione violenta delle identità occidentali produce storie taciute e geografie dimenticate. Tuttavia, come ci insegnano i palestinesi, queste storie resistono e persistono. All’Orientale di Napoli il 23 aprile scorso si è tenuto un importante seminario su «Israele, l’industria delle armi e il ruolo dell’università».

Tra i contributi, c’era la presentazione dell’accademica israeliana Nurit Peled el-Hanan sul genocidio simbolico dei palestinesi nei libri scolastici israeliani. In questi testi, controllati e approvati dal ministero dell’Istruzione israeliano, non ci sono singoli palestinesi, ma solo una categoria anonima e disumanizzata chiamata arabi. Tra i palestinesi non ci sono scienziati, artisti, accademici o politici, ma solo un gruppo etnicamente distinto che minaccia la vita di Israele con il suo sottosviluppo e il suo terrorismo: il nemico del moderno Israele e del progetto sionista di civiltà occidentale.

Questa semiotica pedagogica, come ha illustrato in dettaglio Nurit Peled el-Hanan, è centrale nei meccanismi di razzializzazione di uno Stato di apartheid, nella sua educazione fascista (parole sue) e nel suo dominio militare sui colonizzati. Dire la verità al potere in questo modo ha un prezzo. Nurit Peled el-Hanan è stata recentemente sospesa dal suo incarico universitario. Oggi le università israeliane si dichiarano esplicitamente sioniste. Insistono sul fatto che il loro ruolo è quello di difendere il sionismo e la narrativa dello Stato etnonazionalista. Alla faccia della scientificità e della neutralità accademica.

Ora, questa narrazione non è limitata a un piccolo ma potentissimo Stato del Mediterraneo orientale. È stata adottata per decenni in tutto l’Occidente. Anzi, è stata storicamente coltivata fin dalle prime mappature del mondo all’inizio del XIX secolo, soprattutto da parte della Londra imperiale. Quello che l’intellettuale palestinese Edward Said, formatosi a Princeton e Harvard, ha definito in tempi più recenti «orientalismo», si è sedimentato nel senso comune dei pronunciamenti politici e culturali in Europa e Nord America: dalla Casa Bianca agli studi televisivi e ai giornali.

Contestare questa configurazione di conoscenza e la sua gestione del globo significa inevitabilmente impegnarsi in una discussione con la nostra società e con la creazione di noi stessi. Come ha detto acutamente James Baldwin: «Proprio nel momento in cui inizi a sviluppare una coscienza, devi trovarti in guerra con la tua società».

Mi piace pensare che questo sia un riassunto preciso di quello che è il lavoro critico e analitico. È anche il momento in cui si devono fare i collegamenti impensabili, ormai che la cortina di fumo liberale evapora e assistiamo all’esercizio brutale del potere nudo, tra il campo di sterminio di Gaza e l’esecuzione giuridica dei migranti nel Mediterraneo.

La conclusione è che le istituzioni occidentali, gli enti governativi, le agenzie di ricerca e le università, insieme alla più ovvia partecipazione dei produttori di armi, delle aziende tecnologiche e dei servizi finanziari, sono parte integrante di un apparato coloniale. Se la trasformazione del conflitto in capitale è una cosa, sostenuta in modo ipocrita dalla ricerca del benessere economico, la sua analisi critica è un’altra. Gli studenti qui in Italia e, soprattutto, nei campus americani, stanno giustamente insegnando ai loro insegnanti e amministratori quest’ultima prospettiva. Per evocare Hannah Arendt, stanno tirando fuori dai denti della storia ufficiale una narrazione più onesta e democratica della condizione umana.

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