COMBUSTIBILI FOSSILI, SI GIOCA A CARTE SCOPERTE da IL MANIFESTO
Combustibili fossili, si gioca a carte scoperte
CRISI CLIMATICA. Siamo sul crinale di un cambiamento d’epoca che modificherà – e ha già iniziato a modificare – rapporti di forza tra Paesi, aggregati industriali, settori economici
Giuseppe Onufrio* 30/11/2023
Lo “scoop” della Bbc e del Centre for climate reporting, che ha rivelato l’intenzione della presidenza degli Emirati Arabi di usare la Cop28, dà il senso del conflitto perenne tra il fronte fossile e chi spera in un vero negoziato per contrastare la crisi climatica.
Papa Francesco, nella recente Laudate Deum, ha sottolineato come, accanto agli investimenti in rinnovabili, ci sono progetti di espansione petrolifera e del gas proprio negli Emirati. Mentre lo scorso giugno il Guardian ha denunciato lo scandalo dell’azienda petrolifera di stato degli Emirati chenon solo ha potuto leggere le e-mail da e verso l’ufficio del vertice sul clima della Cop28, ma è stata anche consultata su come rispondere alle domande dei media. Almeno possiamo dire che si gioca, più di prima, a carte scoperte.
Persino l’International Energy Agency nell’ultimo rapporto dice che le aziende petrolifere che vogliano rispettare gli obiettivi climatici devono anzitutto fermare l’espansione della produzione di petrolio e gas. Non esattamente come i piani industriali di Eni che espanderà la produzione e le conseguenti emissioni di gas serra, mentre minaccia cause di diffamazione contro chi attacca questa politica anticlimatica come Greenpeace e ReCommon.
Se sul tavolo negoziale a Dubai c’è la proposta di triplicare le rinnovabili, cosa positiva, l’obiettivo di fissare una strategia di uscita dalle fossili è fortemente contrastato da chi vende petrolio, gas e carbone. Ma questo è un obiettivo indispensabile per una via d’uscita dalla crisi climatica.
I colloqui negli Emirati Arabi Uniti chiudono un anno in cui gli scienziati del clima di tutto il mondo hanno stabilito in modo inequivocabile la necessità di tagli alle emissioni drastici e immediati per limitare il riscaldamento a 1,5 ºC e i modi per arrivarci. Ma la “resistenza fossile” – che ha sempre operato – ora sta facendo di tutto, e alla luce del sole, per rallentare il processo di transizione che, pur tra mille ostacoli, procede ma troppo lentamente.
Siamo sul crinale di un cambiamento d’epoca che modificherà – e ha già iniziato a modificare – rapporti di forza tra Paesi, aggregati industriali, settori economici. In questa fase di passaggio il settore del petrolio e del gas – dominato dai paesi produttori che detengono gran parte delle risorse, e dalle oil majors che detengono capacità tecnologica e una fetta di mercato – è in grande difficoltà: solo una fetta minima delle rinnovabili è controllata dai grandi attori petroliferi.
E questo perché il settore delle rinnovabili è caratterizzato da un modello economico agli antipodi: milioni di impianti piccoli e medi, migliaia di impianti a scala industriale costruiti e gestiti da moltissime aziende di ogni tipo. La Cina è in vantaggio perché ha iniziato a industrializzare in modo massivo per prima. Ed è questo un aspetto che viene usato contro la transizione, ma non si capisce perché, invece, per tanti altri settori come l’elettronica e la telefonia, questo argomento non venga usato. Per fortuna sulla questione climatica il dialogo Usa-Cina è ancora attivo.
Oltre a triplicare le rinnovabili, ci vuole un impegno a porre fine all’espansione di nuovi combustibili fossili da subito e una strategia di progressiva eliminazione. Questa dev’essere rapida, equa e completa con una tabella di marcia e chiari meccanismi di responsabilità, finanziamenti da attuare attraverso i piani nazionali.
L’altro aspetto rilevantissimo riguarda la definizione di un pacchetto finanziario credibile che sia commisurato alle esigenze del mondo reale, e che includa il lancio operativo di un nuovo Fondo per le perdite e i danni: chi ha maggiori responsabilità storiche per le emissioni di gas serra deve pagare le distruzioni e i danni che ha causato con la crisi climatica. Vedremo che ruolo giocherà il governo italiano, finora tutto sbilanciato col “Piano Mattei” sul versante fossile.
*direttore Greenpeace Italia
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SUMMIT. Si apre negli Emirati Arabi la più improbabile delle conferenze Onu sul clima. A fare da padrone di casa il Sultan Al Jaber, capo dell’azienda petrolifera di stato
Marinella Correggia 30/11/2023
Quale futuro per il clima – e/o le energie fossili? Alla Cop28, a Dubai, si danno appuntamento da oggi delegati da 200 paesi, governativi, non governativi, osservatori, imprese (mai una Cop ne avrà viste tante). In un contesto di tensioni e distrazioni internazionali e partendo da una realtà sconfortante.
È UN DISCO ROTTO: a otto anni dall’accordo di Parigi, gli impegni climatici rimangono largamente insufficienti e le politiche attuali nemmeno li rispettano. Come afferma l’Emissions Gap Report 2023: Broken Record del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), «se continuano le attuali politiche il riscaldamento globale potrebbe arrivare a 3°C; a 2,5°C rispettando tutti gli impegni nazionali di riduzione (Nationally Determined Contributions, Ndc) presentati dai paesi». Eppure occorre limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, per evitare soglie di non ritorno.
L’IMPATTO È ORMAI INNEGABILE. Oltre ai record meteo che si susseguono ogni anno, si assiste a una sempre maggiore frequenza e la gravità di eventi estremi. Le piogge arrivate dopo anni di siccità nel Corno d’Africa hanno portato inondazioni e sfollati anziché un aiuto per i raccolti. Onde di calore, incendi, alluvioni anche in Europa, Asia, America del Nord. A livello globale questo significa maggiore insicurezza alimentare e distruzione delle condizioni di vita soprattutto dei non abbienti. Il rapporto di Oxfam in vista della Cop28 spiega che l’1% più ricco, in termini di reddito, della popolazione mondiale è stato responsabile di una quota di emissioni di Co2 pari a quella prodotta da 5 miliardi di persone, ossia due terzi dell’umanità. La disuguaglianza porta spreco. Ogni aumento del riscaldamento globale può determinare impatti superiori ai limiti del possibile adattamento e comporta perdite e danni, soprattutto per i più poveri. Forse le conferenze sul clima andrebbero fatte da quelle parti. Nel frattempo, cosa è sul piatto (fumante) nella scintillante Dubai?
INTANTO, IL GLOBAL STOCKTAKE: i negoziatori esaminano il primo bilancio globale quinquennale sui «progressi» verso il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi, per poi decidere un piano globale da tradurre in politiche e obiettivi nazionali che saranno sottoposti a livello Onu nel 2025. Ma il piano, insistono i paesi del Sud, per essere giusto ed efficace deve essere basato sul principio della «responsabilità comune ma differenziata» delle nazioni e dei popoli (art. 2.2 dell’accordo di Parigi), e sui diversi livelli di vulnerabilità.
IL CONSENSO È PIÙ FACILE sulle energie rinnovabili e l’efficienza. Unione europea, Usa ed Emirati arabi uniti hanno ottenuto il sostegno di 100 paesi per triplicare entro il 2030 la potenza installata. Stati uniti e Cina, due colossi delle emissioni climalteranti, hanno concordato una spinta verso il rinnovabile e un’accelerazione della sostituzione di gas petrolio e carbone (senza parlare per ora di phase down ovvero riduzione); lavoreranno insieme sulle emissioni di metano e sull’inquinamento da plastica. L’Unione europea si pone come blocco ambizioso, accettando di impegnarsi per tagli del 65% delle emissioni lorde (al netto degli assorbimenti) entro il 2030 e zero emissioni nette entro il 2040.
SULLA FINANZA CLIMATICA (E RISARCITORIA), mezzo cruciale per l’applicazione di politiche del clima all’insegna dell’equità – e della stessa possibilità – occorre mobilitare strumenti aggiuntivi. L’idea di un fondo apposito per perdite e danni (Ldf) è nata nel 2022 alla Cop27. E’ destinato ai paesi impoveriti e vulnerabili che hanno già subito e subiranno danni gravissimi. Il Fondo avrà bisogno di centinaia di miliardi di dollari, ma quali paesi potranno accedere? Solo i più poveri? E chi lo finanzierà e da quando, fra i paesi con grandi responsabilità climatiche storiche e/o attuali? Tutto da decidere, a Dubai. Inoltre i paesi ancora chiamati in via di sviluppo avranno bisogno anche di almeno 200 miliardi di dollari annui per l’adattamento (termine ancora vago) a una realtà sempre più dura. E di molti altri fondi per passare a energie pulite e tutelare gli ecosistemi. Occorrerebbe magari convertire il debito (antica campagna); e invece la finanza climatica arriva spesso sotto forma di prestiti, a paesi già indebitati (è successo anche per il Pakistan, sott’acqua nel 2022, 30 miliardi di danni). Non solo: il costo del capitale è superiore, nei paesi considerati a rischio.
IL FUTURO DEI FOSSILI SARÀ UN ALTRO TEMA ARDUO. Nella visione che gli Emirati (e altri produttori del settore) sperano di vendere alla Cop28, non c’è l’estinzione di petrolio gas e carbone ma piuttosto l’inclusione (accanto alle rinnovabili). A Dubai si discuterà se abbracciare per la prima volta il phase-out, l’abbandono, per carità graduale!, di petrolio, gas e carbone, percentualmente i migliori amici dei cambiamenti climatici, per sostituirli con le alternative. Tutti gli occhi saranno sul presidente della Cop, Sultan al-Jaber, che è anche al vertice della compagnia petrolifera nazionale Adnoc. Jaber ha detto che la riduzione è «inevitabile», ma che l’industria del settore deve essere coinvolta nella lotta per il clima, con la riduzione delle emissioni nel suo operato. Finché ci sono, usiamoli. Infatti si estrae a più non posso dovunque. Ed ecco quindi delineata una possibile divisione, su come si combatte il riscaldamento globale: uscendo dall’estrattivismo fossile, oppure ricorrendo a tecnologie di cattura delle emissioni. Del resto la stessa Ue, pur promettendo il picco nei consumi di combustibili fossili in questo decennio, sull’abbandono degli stessi si è impegnata solo su quelli unabated, cioè non mitigati da marchingegni che riducano l’impatto sul clima.
IL GATTOPARDO PUNTA SULLA CATTURA. In Texas, riferisce Reuters, la Occidental Petroleum, grazie a un investimento di centinaia di milioni di dollari da BlackRock, sta costruendo un impianto per assorbire dall’atmosfera 500.000 tonnellate di CO2 all’anno (così, ha detto il suo amministratore, «si darà all’industria licenza di operare per 60, 70, 80 anni»). In Louisiana c’è un progetto analogo, con fondi governativi. Cosa faranno del gas catturato? La Direct air capture fa parte di una famiglia di costosissime e spesso inefficienti tecnologie. Il dibattito sul loro ruolo sarà importante a Dubai. I paesi Opec promuovono la rimozione e stoccaggio del carbonio, anziché rimuovere il problema, i combustibili fossili; evocano questioni di sicurezza, accesso, economicità. Ma l’agenzia internazionale per l’energia (Iea) ha bollato come «illusorio» questo approccio.
NATURALMENTE ANCHE IL SUD NON ESCE AFFATTO dal fossile, per ora. Ma, fa rilevare lo studio sul Global Stocktake condotto dal Centre for Science and Environment di New Delhi, «i paesi in via di sviluppo che devono rispondere a bisogni vitali, devono sì impegnarsi a reinventare la crescita ma hanno bisogno per questo di fondi dagli storici inquinatori», oltre ad avere diritto alla loro parte nel budget globale di carbonio rimasto (al massimo 500 Gt di Co2 equivalente).
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