CODICE PENALE COME STRUMENTO DI GOVERNO da IL MANIFESTO e IL FATTO
Codice penale come strumento di governo
Il progetto La bulimia degli esecutivi e la regressione del giudiziario da potere a strumento di governo non sono fenomeni nazionali ma tendenze mondiali
Andrea Fabozzi 28/02/2025
Non basta il titolo per giudicare una riforma. Una volta scritte in Costituzione, le norme vanno fatte vivere ed è facile prevedere che le modifiche di marca governativa all’ordinamento della magistratura avranno effetti negativi sulla già pessima situazione della giustizia italiana.
Ormai la polemica politica si nutre di modifiche costituzionali immaginate, le etichette e gli slogan che le accompagnano servono a confondere. Meglio guardare alle intenzioni di chi propone le riforme, soprattutto quando sono apertamente dichiarate. Così il monocameralismo che voleva Renzi non era quello di Ingrao, il presidenzialismo che spinge Meloni non è quello sul quale ragionava Calamandrei, la separazione delle carriere sulla quale ha messo la firma Nordio non è quella sostenuta da Vassalli.
Le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici sono già profondamente separate. Molte norme sono intervenute negli anni per alzare una barriera e oggi i giudici che passano a fare i pm sono meno dell’1%, quelli che da pm vanno a fare i giudici ancora meno. Non è un bene. Discorso diverso è quello della familiarità tra requirenti e giudicanti che però ha a che vedere con le routine di lavoro e che dunque riguarda anche i rapporti tra magistrati di primo grado e di appello, tra magistrati e avvocati. Rapporti ineliminabili, per quanto un imputato che spera di essere assolto o di vedere la sua condanna riformata non li considera tali, a buon diritto. Ma questo è l’ambito dell’etica personale: se è scarsa non si recupera scrivendo una legge.
C’è invece un’altra separazione che la Costituzione prevede sia netta e che netta non è: la separazione tra la magistratura e il potere politico. È soprattutto a questa che alludono le previsioni costituzionali di autonomia e indipendenza e che troppe volte in concreto vanno a sfumare. Per responsabilità della politica ma non solo.
Per esempio è assai problematica l’abitudine dei magistrati di contendersi gli uffici di diretta collaborazione con il governo di turno e di assegnarseli con logiche di corrente. È per tradizioni del genere che la magistratura in questo paese non rappresenta affatto, storicamente, un contropotere, come insistono invece i tanti ministri a caccia di nemici. Alla favoletta della casta rossa non crede evidentemente neanche Nordio, che ne ha a lungo fatto parte, la smentiscono i risultati delle elezioni interne all’Associazione magistrati e la realtà di tanti uffici giudiziari nel paese, dove toghe inamovibili sono un pezzo del potere costituito.
Proprio per questo i proclami della destra al governo dicono molto di più del testo della sua riforma. L’intenzione dichiarata è quella di «limitare il potere» dei giudici, e più ancora dei pm, dove il potere di cui si parla è quello di andare contro i desideri dell’esecutivo. Lo scandalo nasce infatti ogniqualvolta ordinanze e sentenze non coincidono con le idee o gli obiettivi repressivi del governo. Quando invece si procede contro attivisti come fossero terroristi, quando si assecondano teoremi sulla pericolosità delle ong, quando si riempiono le carceri di persone ai margini, non c’è alcun problema.
Certo, non basta ancora. Meglio, soprattutto per una coalizione al potere che fa del codice penale uno strumento di governo, molto meglio sarebbe portare pienamente la pubblica accusa nell’ambito dell’esecutivo (riportare, guardando alla storia). Il pm che è il terminale delle indagini della polizia giudiziaria ha questa inclinazione naturale, oggi però non è (solo) l’avvocato dell’accusa e gode delle garanzie e delle tutele di autogoverno dei giudici. Potrebbe perderle.
La bulimia degli esecutivi e la regressione del giudiziario da potere a strumento di governo non sono fenomeni nazionali ma tendenze mondiali. Dagli ordini esecutivi di Trump agli attorneys in giù, c’è già un ricco panorama di pessimi esempi. Proprio per questo quando il governo cita sistemi imparagonabili al nostro per spingere la separazione delle carriere è il caso di spaventarsi. Tutti sistemi, peraltro, dove l’indipendenza non è prevista.
In definitiva non uno dei disastri della giustizia italiana può trovare giovamento da una modifica costituzionale, per curarli ci vorrebbero investimenti e depenalizzazione. I magistrati sono parte di una macchina che produce più ingiustizie che giustizia, più sofferenze che ristoro, e i cittadini tendono a vederli come corresponsabili. Anche per questo lo sciopero non scalda i cuori dei dannati, nei gironi dei tribunali (pur avendo effetti scarsissimi sui tempi dei processi, eterni in ogni caso). Ma è bene sapere che se il quadro oggi è desolante non è detto che non possa peggiorare. Con la riforma accadrebbe senz’altro.
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La questione in genere è ridotta a una specie di derby calcistico: i magistrati ostili alla separazione delle carriere, gli avvocati – in particolare i penalisti – che la vogliono ardentemente. La semplificazione riflette in buona parte la realtà, ma non del tutto. Se infatti gli organismi di rappresentanza dell’avvocatura (in primis l’Unione delle Camere penali) sono schierati a testuggine a favore della riforma, esiste una fronda di legali diffidenti verso il progetto del governo, consapevoli che una magistratura meno indipendente potrebbe non convenire nemmeno a loro e ai loro clienti. Tra i difensori “eretici” anche vari principi del foro, professionisti dai clienti prestigiosi e dalle parcelle milionarie, alcuni dei quali hanno scelto di manifestare insieme ai magistrati nella giornata di sciopero indetta in tutta Italia contro il ddl costituzionale.
All’assemblea pubblica a Roma, ad esempio, tra le poltrone del cinema Adriano è comparso Franco Coppi, il penalista più famoso d’Italia: 86 anni, professore emerito di Diritto penale alla Sapienza, vanta tra i suoi assistiti Silvio Berlusconi, Giulio Andreotti, Gianni De Gennaro, Francesco Totti, Sabrina Misseri e tanti altri. Coppi non ha mai nascosto di ritenere la separazione delle carriere inutile e dannosa, “un’enorme spendita di quattrini e di mezzi” (la citazione è di una sua intervista al Fatto) senza alcun beneficio pratico. All’assemblea ha scelto di non intervenire: “Sono venuto per ascoltare”, ha detto. Ma a omaggiarlo dal palco è stato un suo vecchio allievo, il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Rocco Maruotti, che ha ripetuto una sua riflessione pubblica: “Io non ho mai perso un processo perché il giudice apparteneva alla stessa categoria del pm, semmai l’ho perso perché ho sbagliato qualcosa io o perché ha sbagliato il giudice. Invece attendo ancora di conoscere un elenco dei vantaggi che dovrebbero derivare dalla separazione delle carriere, l’ho chiesto da tempo, non ho ancora ricevuto risposta”.
Sul palco invece c’era un altro pezzo da novanta della classe forense, Giuseppe Iannaccone. Fondatore di uno degli studi più importanti di Milano, in carriera ha difeso il gotha della finanza italiana e in questo periodo è alle prese con i guai giudiziari di Chiara Ferragni. A fine gennaio ha scritto una lettera ai colleghi invitandoli a non sottovalutare i pericoli della riforma: “Non scordiamoci di essere prima cittadini italiani e poi avvocati. L’indipendenza della magistratura è una tutela per ognuno di noi”. All’evento di Roma, ospite del dibattito organizzato dall’Anm, è stato nettissimo: “Sembra che la separazione delle carriere abbia obliterato ogni altro problema. Non c’è più il sovraccarico degli uffici, la carenza di personale, i tempi lunghi della giustizia. Vogliono limitare il potere dei pm perché hanno un’insofferenza nei confronti della funzione giurisdizionale”, ha attaccato.
Dall’alto della sua esperienza, poi, Iannaccone assicura che in Italia non c’è alcun “servilismo della funzione giudiziaria rispetto a quella requirente”: “Prendiamo il caso Mps, il più grave scandalo bancario della storia repubblicana. La Procura di Milano ha investito la sua immagine in quel processo: è stata bocciata prima dall’ufficio gip e poi a dibattimento. O ancora il caso Eni-Nigeria, a cui pure la Procura teneva moltissimo: ogni rivolo di quel processo è finito in assoluzione, e addirittura qualche pm procedente è stato oggetto d’indagine. Vuol dire che la magistratura ha gli anticorpi non solo per garantire l’indipendenza dei giudici dai pm, ma anche per punire chi abbia violato le regole”.
Tra i critici anche uno dei più celebri civilisti italiani, Guido Alpa, accademico dei Lincei e professore emerito alla Sapienza. “Tecnicamente la separazione non è necessaria, perché il passaggio di funzioni ormai non esiste quasi più. Si tratta di una scelta politica a cui io sono contrario, perché la Costituzione prevede una magistratura indipendente e con questa riforma si rischia una perdita di autonomia”, spiega al telefono. All’assemblea di Genova si è espresso nello stesso senso un altro big, l’ex presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin: “Il controllo sull’operato dei giudici spetta agli avvocati nel processo, non a un potere esterno. Se il giudice non è indipendente il mestiere dell’avvocato è inutile”, il senso del suo ragionamento.
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