BOLOGNA: “LA SENTENZA NON BASTA” da IL MANIFESTO
La sentenza non basta
Giuseppe di Lello 02/08/2024
Bologna, 2 agosto 1980. Dall’archivio de «il manifesto», la riflessione di Giuseppe Di Lello a vent’anni dalla strage: sul piano politico-istituzionale ancora non c’è nessuna soluzione
Editoriale di prima pagina da «il manifesto» del 2 agosto 2000
Venti anni dalla strage alla stazione di Bologna: una nuova occasione per riflettere sull’essenza di questo stato, sulla immodificabilità delle sue prassi a fronte dello stragismo politico e nonostante le tanto auspicate alternanze, le promesse di trasparenza mai mantenute. Fu una strage fascista, come recita la lapide che ricorda le vittime, e per il disprezzo per la vita dimostrato dagli attentatori e le finalità stabilizzanti perseguite dagli stessi, l’aggettivo non teme smentite. Ma fu anche una strage di stato, nel senso che in questi anni abbiamo dato a questa locuzione riferita a tante altre stragi e a tanti altri misfatti.
Come unica consolazione istituzionale ci si dice che quella di Bologna è una delle poche stragi con gli esecutori individuati e condannati, Giusva Fioravanti e Francesca Mambro.
Non vogliamo rifare il processo al processo, ma ribadire che questa soluzione, giudiziariamente poco consolatoria, non lo è affatto sul piano politico-istituzionale. È poco consolatoria sul piano giudiziario perché si è trattato di un processo altamente indiziario e non troppo convincente nelle motivazioni.
La verità giudiziaria deve essere convincente e condivisibile, come prescrive la Costituzione: si impongono infatti, un pubblico dibattimento per un controllo democratico del contraddittorio nonché la motivazione della sentenza per un controllo della valutazione delle prove e delle argomentazioni che determinano il verdetto. A ciò consegue il diritto di dissentire, anche nel caso specifico, da quelle argomentazioni e valutazioni, per evitare che la verità giudiziaria assuma la terribile valenza di una verità immutabile e indiscutibile.
Sul piano politico-istituzionale la conclusione della vicenda è inaccettabile, come tutte le altre simili, passate e seguenti, perché è assurdo credere che gli spezzoni di stato coinvolti agissero per fini propri: su questo punto attendiamo, pretendiamo una risposta che non può accomodarsi nell’ergastolo comminato a Mambro e Fioravanti. Fu una strage stabilizzante per difendere interessi più o meno occulti e perciò, come per Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Capaci o via D’Amelio la verità vera sarà difficilmente accertata.
Ora che la stabilizzazione di quegli interessi sembra essere sul punto di realizzarsi (il suggello delle prossime elezioni è maledettamente vicino) la verità sulle stragi diventerà sempre più un miraggio. Potrebbe la sinistra di governo tentare di risalire la china dicendo qualcosa di sinistra su queste stragi, confessando anche la propria impotenza nel fare chiarezza per il persistente dominio di quegli interessi e apparati istituzionali che tuttora li difendono?
Sarebbe un passo avanti, piccolo, ma importante: certo più importante di tante retoriche solidarietà espresse a chi vuole giustizia per i propri morti.
Il precedente dell’Italicus nel gorgo dei depistaggi
Bologna, 2 agosto 1980. L’attentato neofascista del 1974 provocò 12 morti e 50 feriti. Nessuna condanna
Davide Conti 02/08/2024
Il 31 luglio 1980 il giudice Angelo Vella chiudeva la sentenza-ordinanza sulla strage neofascista del treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti e 50 feriti). Nella conferenza stampa del giorno dopo lo stesso Vella dava notizia del rinvio a giudizio di tre imputati. Si trattava di Mario Tuti, Piero Melentacchi e Luciano Franci membri del gruppo toscano del Fronte Nazionale Rivoluzionario, una delle sigle dell’eversione nera nate all’indomani dello scioglimento del Movimento Politico Ordine Nuovo del novembre 1973.
Nel 1992 tutti saranno definitivamente assolti dalla Cassazione. Ancora oggi, per lo Stato italiano, non esiste colpevole.
Fino al 1 agosto 1980 quella era, nell’immaginario collettivo, la strage di Bologna poiché aveva colpito un treno nella provincia della città. Così la chiamò Pasolini nella sua celebre invettiva civile «Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974».
Meno di 48 ore dopo l’incriminazione dei neofascisti per l’Italicus, la strage di Bologna avrebbe cambiato luogo di riferimento spostandosi nel cuore della città; facendo 85 morti e 200 feriti; scrivendo un nuovo tragico capitolo del romanzo nero della Repubblica. Per il massacro del 2 agosto 1980 la Corte d’Assise d’Appello ha confermato, nel luglio scorso, la condanna di Paolo Bellini (neofascista, ’ndranghetista e collaboratore del Ros dei carabinieri), Piergiorgio Segatel (all’epoca capitano dei carabinieri) e Domenico Catracchia ovvero l’amministratore del condominio di via Gradoli a Roma (di proprietà di tre società riconducibili al Sisde) dove nel 1981 i Nar installarono una loro base.
I tre si aggiungono ai neofascisti Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini (condannati definitivamente), a Gilberto Cavallini (condannato in appello) e ai mandanti/depistatori individuati in Licio Gelli e Umberto Ortolani (capi della P2); Federico Umberto D’Amato (capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno), Mario Tedeschi (senatore del Msi e direttore de Il Borghese).
A cinquant’anni di distanza la strage dell’Italicus racconta molto di ciò che avvenne prima e dopo quel 4 agosto 1974. Anticipa lo stretto legame tra manovalanza neofascista e P2 (con quest’ultima che «svolse opera – scrive la Commissione presieduta da Tina Anselmi – di istigazione agli attentati e di finanziamento dei gruppi della destra extraparlamentare toscana»); narra dei depistaggi eseguiti da alti esponenti degli apparati di forza e dei servizi segreti; rievoca l’apposizione del segreto di Stato da parte di due Presidenti del Consiglio (Spadolini nel 1982 e Craxi nel 1986) di fronte alle richieste di documenti da parte della magistratura; ricorda che la strage fu preceduta (come quella di piazza Fontana) da una serie di attentati sulle linee ferroviarie (29 gennaio Silvi Marina, nei pressi di Pescara; 9 febbraio treno Taranto-Siracusa; 21 aprile Vaiano, provincia di Pisa); che seguì la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio) e che venne seguita dall’attentato a Terontola (9 gennaio 1975).
Rammenta, infine, di un falso propalato dal padre della destra di ieri e di oggi: Giorgio Almirante. Il segretario del Msi (all’epoca alle prese con la richiesta di autorizzazione a procedere approvata dal Parlamento contro di lui per ricostituzione del partito fascista) annunciò al capo dell’Ispettorato Antiterrorismo Emilio Santillo l’attentato dell’Italicus 19 giorni prima della strage, accusandone i gruppi della sinistra extraparlamentare: «Siamo stati in grado – disse Almirante alla Camera il 5 agosto 1974 – di comunicare il mattino del 17 luglio al dottor Santillo che un attentato era in via di preparazione alla stazione Tiburtina.
L’informazione era inesatta solo per un particolare di notevole importanza, perché si parlava del Palatino, il treno Roma-Parigi, e non dell’Italicus. Io fui in condizioni di mandare un biglietto al dottor Santillo e di farlo seguire da una telefonata. Gli mandai un biglietto nel quale erano indicati i nomi dei presunti organizzatori dell’attentato. So per certo che quei tre indiziati o presunti indiziati o presunti colpevoli o presunti organizzatori appartengono a gruppi extraparlamentari di sinistra operanti in Roma e più esattamente all’Università di Roma».
A pulire gli occhi da queste falsità ci penserà la «Piazza bella piazza» cantata da Claudio Lolli a Bologna il giorno dei funerali delle vittime, quando le alte cariche democristiane dello Stato saranno sonoramente contestate da una massa di popolo consapevole della vera matrice dell’eccidio.
Dopo mezzo secolo di impunità resta anche un’ultima evocativa immagine: quella del ferroviere Silver Sirotti che, in servizio sull’Italicus, tentò di spegnere le fiamme dell’incendio per salvare le vite dei passeggeri e morì travolto dal fuoco. Vittima aggiunta della strage come era stato nel dicembre 1969 un altro ferroviere, Giuseppe Pinelli, morto innocente nella Questura di Milano all’alba del primo capitolo del romanzo nero della Repubblica.
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