AL MERCATO: “SVENDITE E SCAMBI” da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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AL MERCATO: “SVENDITE E SCAMBI” da IL FATTO e IL MANIFESTO

La Corte dei Conti al governo: “Basta condoni: state consegnando salute, scuola&C. ai privati”

I PM CONTABILI – Avviso disperato: “Danni devastanti, fermatevi”. La replica: “Ne prepariamo un altro…”

CARLO DI FOGGIA   29 GIUGNO 2023

Il messaggio al governo è netto, ma la risposta pure. La Corte dei Conti chiede di smetterla con le sanatorie fiscali e lo fa con toni inusualmente duri, aulici, quasi ultimativi. La replica arriva dalla Lega e mostra la considerazione ottenuta: “Al lavoro per una ‘Pace Fiscale’ giusta e definitiva, nell’interesse dello Stato e di milioni di cittadini perbene che sono da troppi anni ostaggio della burocrazia. Pagare meno per pagare tutti!”, fa sapere una nota del Carroccio pochi minuti dopo, irridendo i vertici dei magistrati contabili a partire dal presidente Guido Carlino. Ennesimo segnale di fastidio dopo lo scontro che nelle scorse settimane ha spinto il governo a sottrarre alla Corte il controllo concomitante sul Pnrr, prolungando anche lo scudo erariale. Carlino ha difeso “il ruolo di garanzia” dell’istituzione. “Il controllore non opera per sé, ma nell’interesse pubblico”, ha rimarcato il procuratore generale Angelo Canale.

La condanna dei condoni è il tratto saliente del “giudizio di parificazione sui conti dello Stato 2022” presentato ieri dalla magistratura contabile. Il messaggio non è casuale, visto che nell’ultima manovra il governo ne ha inseriti una dozzina, grandi e piccoli (dallo stralcio delle cartelle fino a 1.000 euro a una nuova rottamazione, alla sanatoria delle liti tributarie) che – per ammissione del Tesoro – aprono un buco nei conti di 1,6 miliardi già il primo anno, quasi un record, visto che, di norma, almeno nel breve periodo questi provvedimenti permettono di fare cassa. Nel medio-lungo, invece, è un disastro. La Corte chiede di “abbandonare definitivamente il ricorso a provvedimenti che offrono per le difficoltà del recupero (e per esigenze di bilancio), la definizione agevolata dei debiti iscritti a ruolo e che, oltre a incidere negativamente in termini equitativi e sul contributo di ciascuno al finanziamento dei servizi pubblici, rischiano di comportare ulteriori iniquità”. Per dare un’idea, solo le “rottamazioni” e il “saldo e stralcio” decisi tra 2016 e 2018 “hanno visto la presentazione di più di 4,1 milioni di istanze per 53,8 miliardi di introito previsto, di cui per 33,6 miliardi vi è stato un omesso versamento”. Insomma, un buco stratosferico.

La memoria depositata da Canale, che accompagna la relazione, dedica al tema un intero capitolo ripercorrendo la storia dei condoni, un’abitudine iniziata già qualche mese dopo l’Unità d’Italia (la rinuncia alle sanzioni per le imposte evase sugli enti morali) e che ha raggiunto il suo culmine agli inizi dei 2000, nel secondo governo Berlusconi. Più di recente, la critica riguarda lo stralcio delle cartelle fino a 1.000 euro voluto nel 2018 dall’esecutivo gialloverde (32 miliardi cancellati) e quello fino a 5.000 euro (ma per redditi bassi) del governo Draghi (25 miliardi). In quest’ultimo caso non valeva nemmeno la giustificazione formale, ridurre il magazzino dei crediti ormai inesigibili del Fisco e aiutare chi è in difficoltà, visto che ha riguardato “perfino posizioni vive, interessate da procedure di rateizzazione in essere, finendo per accordare un beneficio a un vastissimo numero di soggetti, molti dei quali non colpiti dalla crisi”. Insomma, un regalo e basta. Entrambi sono provvedimenti fortemente voluti dalla Lega.

Le critiche si estendono anche ai condoni, di marca simile, inseriti nell’ultima manovra dal governo Meloni, soprattutto il nuovo saldo e stralcio (“un sistema perverso che si autoalimenta”, già contestato dalla Consulta): “Più i contribuenti sono consapevoli di una sostanziale impunità, tramite cancellazioni e condoni – si legge – più si allarga la platea degli evasori”.

I toni dei magistrati, come detto, sono quasi disperati: “La politica dei condoni mina alla radice la credibilità e l’equità del sistema, sottraendo alle imposte il significato di strumento democratico di finanziamento della cosa pubblica”, premiando il modus operandi dei furbi. Dietro c’è la vera partita in ballo, che per la prima volta la Corte dei Conti esplicita chiaramente: “Il sistema dei condoni ha mostrato tutti i suoi limiti, costringendo ai tagli di spesa della finanza locale, da anni privata di risorse indispensabili al funzionamento di Regioni, Province e Comuni”. Insomma, se si va avanti così, il sotto-finanziamento dei servizi pubblici sarà insostenibile e li consegnerà ai privati: “Allo slogan ‘meno tasse, più risorse con le quali comprare privatamente i servizi essenziali’ è preferibile, per la collettività, pagare tasse adeguate in cambio di servizi pubblici e sociali efficienti e funzionanti. La logica di mercato, ove applicata ai diritti fondamentali (salute, istruzione, assistenza), difficilmente raggiunge risultati soddisfacenti; non è equa, non è efficiente, non è efficace”.

Su Università e scuola vince sempre la linea B.

FRANCESCO SYLOS LABINI E REDAZIONE ROARS  29 GIUGNO 2023

La dipartita di Berlusconi ha aperto una riflessione sull’impatto dei suoi governi. Se guardiamo alle poche riforme promosse che non lo riguardavano personalmente, troviamo quelle della scuola e dell’università. Nel luglio 2010, un giornalista di una testata europea chiese a S.B., allora premier, spiegazioni sulle riforme della ministra Gelmini che, approvate con altri interventi legislativi, tagliarono circa 8,5 miliardi di euro alla scuola e 1,3 miliardi all’università, mai più recuperati. B. rispose con una domanda retorica: “Perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe migliori del mondo?”. C’era appena stata la crisi economica del 2008 e la risposta del governo italiano, quasi l’unico in Europa, fu quello di tagliare risorse a un settore chiave come quello dell’istruzione e della ricerca. Nel 2012, l’economista dell’Università di Chicago Luigi Zingales spiegò meglio l’obiettivo a Michele Santoro: “Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo. Dobbiamo prepararci per questo, non buttare via i soldi a fondo perduto”. La crisi del 2008 è stata l’occasione per rimodellare l’intero sistema dell’istruzione alla luce della leggenda del “gap formativo”, cioè che le esigenze tecnico professionali espresse dalle imprese non corrispondono alle professionalità disponibili nel mercato del lavoro: sarebbe il sistema dell’istruzione a essere inadeguato rispetto ai bisogni delle imprese e per questo va riformato. Questa idea ha accomunato gli estensori e i sostenitori della riforma Gelmini, tra cui ricordiamo gli entusiasti “Bocconi boys”. Nel 2012, economisti e intellettuali di questa area scesero in campo con la formazione politica di “Fare per fermare il declino”, naufragata dopo la scoperta che il candidato premier Oscar Giannino millantava titoli falsi dell’università di Chicago. Altri più sobriamente plaudivano, dettando la linea con sottili distinguo dal sito LaVoce.info.

Tutti i ministri (a parte l’effimero Lorenzo Fioramonti) che si sono susseguiti dal 2008 a oggi hanno rafforzato l’impostazione della riforma Gelmini, senza sanare il sottodimensionamento dell’università. Una parabola analoga hanno seguito anche le politiche per la scuola. Questo è avvenuto perché i maître à penser della Gelmini sono rimasti saldi ai loro posti di guida politica anche quando i governi hanno apparentemente cambiato colore: i consiglieri politici bocconiani hanno goduto di credito bipartisan, perché “meritevoli e competenti”. L’obiettivo di fondo è stato duplice. Ridurre organico e tempo scuola, rimodellando scopi e funzioni del sistema scolastico e drenando risorse verso un apparato esterno di misurazione standardizzata della sua presunta qualità, guidato per anni da funzionari della Banca d’Italia. Dall’altra, introdurre e consolidare un controllo politico sulla ricerca universitaria. Quale sia la reale funzione del sistema di istruzione ce lo ricorda un opuscolo redatto dal governo Renzi, intitolato “Investire in Italia”: “Un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi lo stesso profilo ha una retribuzione media di 48.500 euro l’anno”. Tecnici a buon mercato, insomma. Ma se non c’è richiesta di personale con alta qualifica formativa da parte del “mercato” perché investire in formazione? Il controllo politico della ricerca, invece, è garantito dall’agenzia di valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) che dovrebbe promuovere il “merito”. Nessun paese dell’Unione europea e neanche il Regno Unito ha un’agenzia con competenze e poteri paragonabili a quella italiana, fondata, è bene ricordarlo, dal Ministro Fabio Mussi nel secondo governo Prodi. Il vertice Anvur è di nomina politica: i politici, pertanto, oltre a intervenire sulle norme generali che regolano le carriere e i finanziamenti dei ricercatori, li tengono al guinzaglio dettando strampalate modalità di valutazione della ricerca scientifica. Questo si è tradotto nell’aumento della competizione tra ricercatori, accompagnata, paradossalmente, dalla mancanza di competizione tra linee di ricerca alternative. È sufficiente avere qualche rudimento di storia della scienza per sapere che le nuove idee nascono grazie alla diversificazione della ricerca e non con l’appiattimento verso il cosiddetto mainstream. Purtroppo, l’assenza di una visione politica e di un interesse effettivo da parte del mondo produttivo ha causato non solo un restringimento del sistema universitario ma anche ha reso asfittico l’impatto culturale dell’accademia: scuola e università sono viste come scuole di formazione professionale. E, purtroppo, l’attacco all’università è stato bipartisan senza segni di ravvedimento.

Regioni: il sì alle Province in cambio del 3° mandato

IL BARATTO – Il presidente del Friuli, il leghista Fedriga, scrive a nome dei suoi “colleghi” al ministro Calderoli: “Bene il ripristino, a patto che…”

LORENZO GIARELLI   29 GIUGNO 2023

Ci sta bene il ritorno delle province, ma concedete qualcosa anche a noi regioni. Magari il terzo mandato per i presidenti e qualche eletto in più nei consigli, oltre all’autonomia di cui tanto si parla. È questo il senso della lettera che il governatore friulano Massimiliano Fedriga ha inviato al governo a nome della Conferenza delle regioni, di cui è presidente.

Il testo è stato spedito dopo la riunione di una settimana fa, quando i presidenti hanno concordato la linea da far arrivare al ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, e ai due senatori di maggioranza che stanno seguendo da vicino l’iter del ddl sul ripristino delle province, ovvero il presidente della Commissione Affari costituzionali in quota FdI, Alberto Balboni, e la relatrice leghista Daisy Pirovano. Le regioni “confermano il pieno apprezzamento” per la riforma che punta a reintrodurre gli enti svuotati nel 2014, pur rilevando un paio di criticità sulle funzioni e le risorse da attribuire alle province: “L’articolo 4 assegna loro numerose funzioni anche nelle materie di competenza concorrente o residuale, nelle quali spetta alla regione la disciplina delle funzioni fondamentali”.

Osservazioni nell’interesse delle regioni, preoccupate pure dalla eventuale perdita di risorse. Ma il punto è un altro e arriva qualche riga più tardi: “In un’ottica che vede ciascun ente o istituzione recuperare pienamente autorevolezza e funzionalità, appare opportuno conferire una migliore operatività anche agli organi delle regioni”.

Quindi, la soluzione: “A tal fine, occorre consentire che gli organi esecutivi delle regioni possano adeguare il numero dei propri componenti alle esigenze organizzative, tenuto anche conto della definizione dei componenti delle giunte provinciali”. Una richiesta, quella di allargare le assemblee a qualche eletto in più, che come aveva anticipato il Fatto era già stata avanzata a Calderoli nell’ultima riunione tra il governo e i presidenti dei consigli regionali. Si arriva poi al terzo mandato: “Appare necessario estendere il limite di mandato per gli organi di vertice degli enti territoriali a tre legislature”. Il governo per il momento non ha dato risposte, ma è probabile che alla fine il ripristino delle province si accompagni a una più generica ridefinizione degli enti territoriali. Anche perché accontentare i presidenti delle regioni (inclusi quelli di centrosinistra) garantirebbe alla maggioranza un endorsement di peso nel percorso di riforme, in modo simile all’abolizione del reato di abuso d’ufficio. D’altronde la richiesta di far saltare il tetto dei due mandati è nell’aria da anni.

In Veneto, Luca Zaia ha già potuto fare da sé, aprendosi la strada al terzo incarico (ottenuto nel 2020), ma con la modifica chiesta dalla Conferenza avrebbe margine per una quarta legislatura. E allora il “Doge” leghista spinge i colleghi: “I cittadini sanno benissimo chi scegliere. Imporre un limite dei mandati significa dare degli idioti ai cittadini”. Musica per le orecchie, tra gli altri, di Michele Emiliano, Vincenzo De Luca, magari pure di Giovanni Toti e Stefano Bonaccini. Da vedere che ne dirà il Pd, visto che Elly Schlein si batte da tempo contro il terzo mandato di Vincenzo De Luca, mentre Bonaccini è su posizioni molto più morbide. Ma per i governatori conterà soprattutto, oltre alla sponda leghista (Matteo Salvini si è già detto a favore), il sì di FdI. Nulla osta da Luca De Carlo, senatore e coordinatore veneto del partito: “Siamo da sempre contro ogni iniziativa che contrasti con la volontà popolare, quindi anche ai limiti di mandato”. Più cauto Giovanni Donelli: “Valuteremo. Ma per i sindaci l’alternanza è segno di democrazia”. Trattative in corso.

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