10 MILA MORTI IN UN MESE COME IN 2 ANNI DI UCRAINA da IL FATTO
10 mila morti in un mese come in 2 anni di Ucraina
LE BOMBE E LE VITTIME CIVILI – Dal via libera alla reazione militare israeliana hanno perso la vita 9.485 persone di cui 3.900 bambini e 2.430 donne. I feriti sono oltre 24 mila
COSIMO CARIDI 5 NOVEMBRE 2023
Il ministero della Salute della Striscia pubblica ogni giorno il dato dei morti e feriti. A Gaza tutti i dicasteri sono controllati da Hamas e questo mina la credibilità dei numeri diffusi. “Non ho idea se i palestinesi stiano dicendo la verità su quante persone vengono uccise – ha detto il presidente Joe Biden – sono sicuro che degli innocenti siano morti, ma non ho fiducia nei numeri usati dai palestinesi”. Le cifre fanno paura. In quattro settimane di bombardamenti hanno perso la vita almeno 9.485 palestinesi – la soglia dei 10 mila potrebbe essere superata nelle prossime ore – di cui 3.900 bambini e 2.430 donne. I feriti sono oltre 24 mila. Per la natura del conflitto è difficile distinguere i miliziani morti dai civili. Ma per capire l’ampiezza della tragedia si considerino i dati ucraini: in 20 mesi di conflitto sono morti circa 10 mila civili, 554 erano bambini mentre i feriti sono 17 mila. “In Ucraina c’è una guerra tra due eserciti – spiega il generale Fabio Mini –, a Gaza c’è un esercito che combatte una popolazione. Qualche migliaio di miliziani in mezzo a due milioni di civili. Israele per colpire un singolo combattente non si fa scrupolo di uccidere tutti quelli che ha attorno”. Per la comunità internazionale 40 razzi russi sono un pesante bombardamento notturno. Su Gaza, nella prima settimana, sono state lanciate quasi 1000 bombe al giorno.
La conta dei morti ucraini viene aggiornata da Kiev e confermata dalle Nazioni Unite. A Gaza manca questo passaggio, ma non è (solo) una responsabilità di Hamas. L’Unwra, l’agenzia Onu che lavora nella Striscia, ha ridotto al minimo la sua operatività, ha smesso di distribuire aiuti e ha comunicato che almeno 70 dei suoi dipendenti sono stati uccisi dai bombardamenti dell’aviazione israeliana. Tel Aviv ha più volte indicato come inaffidabili i dati delle Nazioni Unite, perché troppo “favorevoli” ai palestinesi. Un altro livello di controllo potrebbe essere svolto dai giornalisti che coprono il conflitto. Il governo israeliano, come nell’operazione militare del 2021, impedisce alla stampa internazionale l’ingresso nella Striscia. Mentre i giornalisti locali sono diventati un bersaglio per le bombe.
Il portavoce dell’Idf (forze armate israeliane) ha confermato di non poter garantire la sicurezza ai giornalisti palestinesi. Almeno 30 reporter sono stati uccisi a Gaza dai raid aerei. È il numero più alto di giornalisti morti in un conflitto dal 2000. Inoltre il governo di Benjamin Netanyahu solleva dubbi sulla loro affidabilità: se vivono nella Striscia devono essere in qualche modo compiacenti o controllati da Hamas.
Una possibilità per valutare i numeri comunicati quotidianamente dal ministero dalla Salute di Gaza è analizzare quanto avvenuto in passato. Purtroppo non mancano le operazioni militari israeliane che hanno provocato migliaia di morti nella Striscia. Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch, in un’intervista al Guardian ha affermato di non aver visto prove che i numeri siano stati manipolati: “Monitoriamo le violazioni dei diritti umani nella Striscia di Gaza da tre decenni, compresi diversi conflitti – ha spiegato l’operatore umanitario – e in genere abbiamo ritenuto affidabili i dati forniti dal ministero della Salute”.
Anche secondo le Nazioni Unite negli ultimi 17 anni, dall’ascesa al potere di Hamas, i dati sulle morti forniti dagli organismi del governo islamista di Gaza possono essere ritenuti aderenti alla realtà, con un tasso di errore del 4%. “I numeri potrebbero non essere perfettamente accurati minuto per minuto – ha detto al Washington Post Michael Ryan, del Programma per le emergenze sanitarie dell’Organizzazione mondiale della Sanità – ma riflettono in gran parte il livello di morti e feriti”.
Prendendo in considerazione gli scontri del 2008, 2014 e 2021 i dati trasmessi da Hamas sono stati sostanzialmente confermati dall’Onu e da ricerche di istituti indipendenti. Nell’estate del 2014 si è svolto il conflitto più sanguinoso, fino quello in corso, tra Hamas e Israele. A distanza di pochi mesi dal cessate il fuoco, il numero dei morti registrato dai gazawi, prima aspramente criticato da Israele, è stato sostanzialmente confermato da tutti. Secondo l’Autorità palestinese i deceduti furono 2.322. Le Nazioni Unite inviarono degli emissari che arrivarono a un numero simile: 2.251. In un report del ministero degli Esteri israeliano i morti palestinesi erano poco meno 2.125. Nello stesso documento l’esercito di Tel Aviv si autoassolse, buona parte dei gazawi sarebbero caduti sotto il fuoco amico di Hamas. Il think tank israeliano Jerusalem Center for Pubblic Affair fece la stima più bassa in assoluto: 2.100 palestinesi morti negli scontri di quell’estate. Mentre gli attivisti per i diritti umani di B’Tselem avevano contato 2.202 deceduti.
Nelle scorse settimane, il momento che ha messo più in dubbio l’attendibilità delle informazioni provenienti da Gaza è stato l’attacco all’ospedale Al-Ahli. Immediatamente dalla Striscia è stato diramato un comunicato in cui si parlava di 500 morti. Per giorni si è dibattuto se l’esplosione fosse stata causata da un razzo palestinese difettoso/intercettato o se l’Idf avesse sganciato una bomba dal cielo. Il numero reale dei morti non è stato confermato, ma diversi analisti, confrontando immagini e informazioni sull’impatto, ritengono siano tra i 100 e i 300. Lo stesso ospedale Al Alhi era stato bombardato altre due volte la settimana precedente. Giovedì 26 ottobre, in un’operazione di trasparenza, il ministero della Sanità di Gaza ha rilasciato un documento di 212 pagine con i settemila morti registrati fino a quel momento dall’inzio del conflitto. C’erano nomi, numeri di carta d’identità, età e sesso.
Una copia del rapporto visionata da Ap conteneva il nome di 6747 palestinesi e si leggeva che altri 281 corpi non erano stati ancora identificati. Anche su questa lista è impossibile fare un controllo incrociato senza ispezioni sul terreno, e con le limitazioni alle telecomunicazioni imposte dall’Idf è difficile rintracciare i familiari delle persone in elenco.
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Per la prima volta dall’inizio della guerra, centinaia di persone hanno manifestato ieri sera davanti alla residenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme. “Non ti vogliamo più” è stato lo slogan dei manifestanti e non sono mancati momenti di tensione con la polizia. Per il 44% degli intervistati dalla tv israeliana Canale 13, è lui il principale responsabile del disastro del 7 ottobre. Otto israeliani su 10 ritengono inevitabile che si dimetta, e per un terzo dovrebbe farlo subito e non aspettare la fine della guerra (Golda Meir lasciò l’incarico dopo la guerra del Kippur e Menachem Begin si fece da parte quando la guerra in Libano prese una piega drammatica).
E a Tel Aviv ieri sera hanno manifestato in migliaia con i parenti dei sequestrati che hanno piantato le tende davanti al ministero della Difesa: “Non andremo via da qui finché non torneranno a casa”. Le famiglie chiedono al governo e ai militari di fare di più per il rilascio dei loro cari. Vogliono azioni efficaci e riavere indietro figli, mogli, padri, sorelle e fratelli. Gal Hirsh, il coordinatore del governo israeliano per gli ostaggi, nominato dal premier, ha raggiunto la protesta, ma è stato accolto da fischi e contestazioni: “Sei una vergogna, che stai facendo? Vai a casa”.
Dal campo di battaglia, Hamas ha spiegato ieri sera che 60 di quegli ostaggi sarebbero dispersi dopo gli ultimi bombardamenti e che ha attaccato le truppe israeliane con mortai e missili mentre queste aprivano la Salah al-Din Street, l’autostrada principale della Striscia di Gaza, per permettere l’evacuazione dei residenti della parte nord verso il sud. Secondo le accuse dei vertici militari di Tel Aviv, “questo dimostra ulteriormente che Hamas sfrutta la popolazione di Gaza e impedisce loro di agire nell’interesse della propria sicurezza”. Ma lo stesso esercito israeliano, dopo le immagini delle ambulanze colpite che hanno fatto il giro del mondo, ieri ha centrato anche una scuola gestita dall’Onu e utilizzata come rifugio in un campo profughi nel nord della Striscia di Gaza. Juliette Touma, responsabile per le comunicazioni di Unrwa, agenzia delle Nazioni Unite, ha confermato alla Cnn che “una delle scuole nel campo profughi di Jabalya, nel nord della Striscia è stata colpita questa mattina” e che la struttura “viene usata come rifugio Unrwa per famiglie sfollate”. L’attacco ha colpito direttamente il cortile della scuola Al-Fakhoora dove erano state messe tende per le famiglie sfollate, provocando la morte di 15 persone e il ferimento di una settantina. Danneggiato anche il muro perimetrale della scuola, dove le donne stavano facendo il pane. La Cnn precisa di aver ottenuto immagini che mostrano danni, spargimento di sangue e vittime nel cortile della struttura. Al 12 ottobre, precisa l’emittente americana, la scuola di Al-Fakhoora ospitava circa 16.000 sfollati. Sempre ieri è stato colpito anche l’ospedale pediatrico al-Nasser di Gaza City: centrato l’ingresso del nosocomio, ci sarebbero vittime civili, ma non è stato accertato un numero.
Intanto aumentano le tensioni fra Tel Aviv e Ankara. “Netanyahu non è più una persona con cui parlare”, ha tuonato il presidente turco Erdogan, che ha poi minacciato di sostenere le iniziative per portare Israele davanti alla Corte penale internazionale per “crimini di guerra”. Richiamato “per consultazioni” anche l’ambasciatore a Tel Aviv. Per il viceministro israeliano degli Esteri la mossa di Ankara rappresenta “un altro passo del presidente turco Erdogan nel suo schierarsi con l’organizzazione terroristica Hamas”. Tensioni che potrebbero essere affrontate dal segretario di Stato americano, Antony Blinken, che ha inserito a sorpresa la Turchia fra le tappe del suo nuovo tour in Medio Oriente, dopo quelle in Israele e Giordania. Ad Amman, Blinken ha risposto alle pressioni arabe per un cessate il fuoco, spiegando che una tregua “lascerebbe Hamas sul posto, in grado di riorganizzarsi e ripetere ciò che ha fatto il 7 ottobre”.
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