Territori dell’osso. Patrimonio territoriale e autonomia locale nelle aree interne dell’Italia
di Rossano PAZZAGLI –
«Territori dell’osso» non è solo una citazione, ma anche la metafora della struttura portante dell’Italia e la rappresentazione plastica della marginalità che ha colpito le aree interne del Paese nel corso del ‘900. Poco dopo la metà del secolo scorso, nel 1958, Manlio Rossi Doria coniò l’espressione «polpa e osso» per denunciare la profonda divaricazione che sul piano socioeconomico si andava profilando tra le tante aree interne e le poche pianure [1] . La sua analisi di economista agrario riguardava l’agricoltura del Mezzogiorno in una fase storica nella quale si coglievano i primi effetti della Riforma Agraria e degli interventi della Cassa del Mezzogiorno partiti nel 1950. Ma lo schema interpretativo suggerito da Rossi Doria può essere applicato all’intera penisola, dove gli squilibri tra le zone rurali e quelle urbane, tra l’entroterra e la costa, tra la montagna e la pianura sono andate crescendo.
Le aree interne sono state investite da una deriva i cui effetti principali sono stati lo spopolamento, l’emigrazione, la rarefazione sociale e produttiva, l’abbandono della terra e le modificazioni del paesaggio. Solo parzialmente le aree protette, il turismo e altre forme locali di economia hanno potuto arginare, dal Nord al Sud, un processo secolare di costruzione di una grande periferia italiana come contraltare dei fenomeni di urbanizzazione e di litoralizzazione della popolazione e delle attività produttive. La montagna, la collina interna, i fondovalle secondari sono state le vittime sacrificali dello sviluppo economico dell’età contemporanea, colpiti inesorabilmente da effetti negativi anche sul piano ambientale: dalla vulnerabilità idrogeologica, alle trasformazioni paesaggistiche, dalla rinaturalizzazione incontrollata alla perdita dei valori antropici (insediamenti e infrastrutture storiche). Si è trattato di un aspetto nazionale del «grande saccheggio» o della «miseria dello sviluppo», per usare i titoli di due libri che lo storico Piero Bevilacqua ha dedicato alla critica del modello capitalistico-globale [2].
Nell’attuale fase di crisi strutturale di questo modello di sviluppo, che ha polarizzato l’economia nelle aree di polpa e relegato i territori interni, prevalentemente rurali e/o agro-silvo-pastorali, verso posizioni di marginalità, tornare ad occuparci dello scheletro della penisola non ha più soltanto un significato di resistenza, ma apre la prospettiva di una rinascita, con la possibilità di sperimentare in queste aree soluzioni paradigmatiche anche per il ri-orientamento dei modelli economici e dell’organizzazione sociale e territoriale a livello più generale. in un’ottica tesa alla territorializzazione delle politiche, verso una politica meno astratta e più rivolta ai “luoghi”, si indicano quindi quattro assi principali sui quali appare possibile muoversi per una rinascita delle aree interne:
1) tutelare il territorio e la sicurezza degli abitanti affidandogliene la cura;
2) promuovere la diversità naturale e culturale e il policentrismo aprendo all’esterno;
3) rilanciare il lavoro attraverso l’uso di risorse potenziali male utilizzate;
4) rafforzare la rete istituzionale rappresentata dai piccoli comuni e dalle istituzioni di base.
Con la nascita della Società dei Territorialisti (2011) e con la riorganizzazione dell’Università si sono aperte significative esperienze di studio pluridisciplinare del territorio, che rappresentano un passaggio culturale necessario che rimetta al centro la questione del territorio e del locale come categorie essenziali sul piano teorico e pratico per la ridefinizione dei modelli di trasformazione, di evoluzione e di equilibrio delle diverse componenti territoriali (la città, la ruralità, le coste, ecc.), delle risorse e del loro uso non dissipativo [3].
Partendo dall’idea di territorio come bene comune, emerge il valore dei piccoli comuni e delle autonomia locali, sia pure in un ottica di apertura e di collaborazione istituzionale. Queste realtà comunali, che rappresentano la grande maggioranza degli 8.000 comuni italiani, vengono chiamate “piccole”, ma spesso sono grandi sia come estensione, sia in riferimento alle risorse economiche e culturali che effettivamente o potenzialmente sono conservate nei loro confini. È soprattutto qui, nelle «terre dell’osso», che risiede buona parte del patrimonio culturale italiano: un mix di prodotti, storia, identità, ambiente e benessere. Nel secondo dopoguerra e agli albori del boom economico si levarono le voci, sostanzialmente inascoltate, di intellettuali e osservatori come Italo Calvino, Antonio Cederna, Mario Soldati, Aldo Sestini, Luigi Veronelli, Cesare Zavattini, che mettevano insieme cultura, ambiente, produzioni e paesaggio.
Il paesaggio, in particolare, rappresenta in questa visione la risorsa apicale, come è stato definito [4]. Una unità di beni che aveva trovato posto nella Costituzione italiana, con l’articolo 9 che ha inserito tra i compiti fondamentali della Repubblica la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione». L’articolo 5 afferma invece il ruolo delle autonomie locali e impone allo Stato di adeguare la propria legislazione «alle esigenze e ai metodi dell’autonomia e del decentramento». Nel 1947 i Costituenti, pensando alla lunga tradizione civica dei Comuni e ai precedenti legislativi nel campo della tutela, inclusero dunque tra i principi fondamentali a cui avrebbero dovuto ispirarsi le politiche dello Stato proprio la necessità di salvaguardare l’arte e il paesaggio, entrambi frutti pregiati della storia, proponendoci una straordinaria ed efficace analogia tra bellezza e patrimonio, tra democrazia e autonomie locali. Oggi c’è bisogno di riaffermare, insegnare e predicare la bellezza e il valore del territorio italiano, così come di rivitalizzare la sua articolazione istituzionale di base, tutti aspetti che invece negli ultimi decenni sono stati sopraffatti da politiche miopi e da logiche speculative.
Salvatore Settis ha scritto che ci troviamo di fronte a uno “spaesamento” inteso come perdita dell’orientamento, ma anche come distruzione del “paese” [5]. Spaesati è anche il titolo di un bel libro di Antonella Tarpino dedicato ai «luoghi dell’abbandono» [6]. E di una geografia dell’abbandono e della desolazione parla, più poeticamente, Franco Arminio , mentre Giuseppe Dematteis invita a comprendere le dinamiche di una possibile rinascita delle aree montane [8].
Questi territori locali e plurali, con i loro profili istituzionali essenzialmente basati sul Comune, rappresentano anche il livello primario, di base, della democrazia e della rappresentanza politica.
Il Comune è l’elemento centrale di una solida tradizione civica italiana che dal medioevo giunge fino alla Costituzione repubblicana, passando per Carlo Cattaneo che considerava i comuni, e soprattutto i piccoli comuni ben funzionanti, la spina dorsale della nazione. In Cattaneo la tesi politica federalista, ben lontana da quella della Lega di Umberto Bossi e di Matteo Salvini, si fondava proprio sull’idea dell’autogoverno comunale, sui comuni considerati come «plessi nervei della vita vicinale» [9]. Non a caso – sosteneva lo scrittore risorgimentale suggerendo una connessione tra qualità della vita e autogoverno locale – la Lombardia poteva vantare storicamente al tempo stesso un notevole benessere e il più alto numero di piccoli e piccolissimi comuni: essa era in effetti, secondo Cattaneo, la regione italiana con il maggior numero di strade, scuole, medici condotti e «ogni altra comunale provvidenza» [10]. Bisognerebbe che rileggessero Carlo Cattaneo molti odierni detrattori dei piccoli comuni, gli improvvidi fautori del loro accorpamento tra i quali dobbiamo purtroppo registrare anche importanti uomini di governo – da Berlusconi a Renzi – e paradossalmente anche alcuni sindaci e amministratori locali.
Sull’onda di questa lunghissima tradizione comunale italiana, gli ultimi 25 anni hanno conosciuto trasformazioni profonde e altalenanti, che hanno suscitato speranze e delusioni, intrecciando in modo schizofrenico il dibattito sul federalismo e l’attacco, non ancora sopito, alle autonomie locali. I cambiamenti legislativi dell’ultimo decennio hanno rappresentato una regressione delle istituzioni locali come agenti di sviluppo del loro territorio e come espressione di base del sistema democratico: negli anni ‘90 i governi locali avevano conosciuto una fase di forte trasformazione, accompagnata sul piano normativo dalla legge 142/1990 sulle autonomie locali , dalla 81/1993 sulla elezione diretta dei sindaci e dalle cosiddette “riforme Bassanini” degli anni 1997-98 sul decentramento delle funzioni e la semplificazione amministrativa. Non è un caso che sia proprio in questa fase che si svilupparono le cosiddette associazioni d’identità, cioè associazioni tematiche di municipi spesso legate a un prodotto tipico o ad un distintivo profilo culturale: Città del vino, Città, dell’Olio, Città del tartufo, Città della ceramica, Città dei paesi dipinti, Città slow e così via [11].
Dopo le cose sono cambiate e oggi sembra già lontana la stagione in cui gli amministratori comunali aspiravano ad essere protagonisti di una rinascita del locale. Se gli anni ’90 sono stati un decennio di rilancio dei comuni, quello successivo si è quindi configurato come un periodo di involuzione e le difficoltà dei municipi sono aumentate di anno in anno, con una crescente difficoltà dei Comuni nel campo della promozione territoriale, dello sviluppo locale e della tutela e valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale disseminato nei loro territori.
Appare lontana anche la stagione dei sindaci, cioè quella fase che a causa dello scossone di tangentopoli e in virtù della legge sull’elezione diretta, aveva visto i nuovi amministratori comunali non solo come punto di riferimento nel governo della città o della comunità, ma anche come il simbolo di un’Italia che voleva cambiare, provocando tra le altre cose un diffuso disagio nel sistema dei partiti, tendente a ricondurre le innovazioni alle logiche vecchie, a riportare le novità nei rassicuranti schemi tradizionali, declinando in vari modi la perdurante linea storica del trasformismo. Anche alcuni sindaci di quella stagione cominciarono bene, ma hanno finito per essere protagonisti più o meno volontari di questa involuzione. Proprio per analizzare tali difficoltà e questa contraddizione tra nuovi sindaci e partiti tradizionali, nel 1997 uscì un libro scritto da Maurizio Vandelli, un giurista amministrativista che fu assessore al Comune di Bologna, intitolato Sindaci e miti, con il significativo sottotitolo di Sisifo, Tantalo e Damocle nel governo locale. Quella classe fuggevole di amministratori locali descritti da Vandelli, spesso nuovi ed esterni alla politica professionistica, stavano vivendo la propria esperienza con sensazioni di grande fatica, di frustrazione e di insicurezza [12].
La repubblica delle città di Antonio Bassolino era stato pubblicato l’anno prima, nel 1996. La centralità del comune è ricondotta qui al lungo filo della storia italiana: bisogna far perno sulle città e sui Comuni che sono le istituzioni più vicine ai cittadini, scriveva Bassolino sull’onda dell’entusiasmo per la prima esperienza simbolo del riscatto di una splendida e problematica città come Napoli, poi purtroppo precipitata nelle solite logiche di potere. «Noi siamo le nostre città, a patto, però, di tornare a crederci» [13]. Il decennio ’90 si chiude con il libro di Vincenzo De Luca, eletto sindaco di Salerno nel ’93 a capo di una giunta progressista “fuori dai partiti”, che affronta il tema della pubblica amministrazione in rapporto coi cittadini contro la “palude burocratica” che ostacola la modernizzazione del Paese, in particolare nel Mezzogiorno [14]. Nell’elezione diretta dei sindaci erano state riposte molte speranze. Invece la novità si è rivelata un’illusione, un’occasione mancata determinata dal rafforzamento degli esecutivi e dalla speculare perdita di importanza dei consigli e delle assemblee rappresentative. Una «rivoluzione tradita» l’ha definita Gaetano Sateriale, sindaco di Ferrara dal 1999 al 2009 [15].
Oggi i comuni sembrano annichiliti nella loro duplice funzione storica (rappresentanza e governo locale) e sono in difficoltà perfino nell’assolvimento del loro compito essenziale, che è quello di erogare servizi al cittadino. Si è parlato addirittura di abolire i piccoli comuni, di accorparli, di smantellare il sistema delle autonomie locali, cioè di demolire le istituzioni che governano davvero il territorio, che ne curano l’integrità e le risorse e che rappresentano il presidio di base del sistema democratico, l’ambito della partecipazione e della vicinanza tra cittadini e scelte che li riguardano. Si pensi, ad esempio alla abolizione delle comunità montane, alla controversa vicenda del superamento delle province e alla recente proposta di sopprimere il Corpo Forestale dello Stato.
Eppure, specialmente nei piccoli comuni, il municipio e il sindaco rimangono un punto di riferimento, come dimostrano varie esperienze di piccoli comuni situati nell’osso della penisola che rappresentano casi significativi di rinascite territoriali, a partire da quelli censiti nell’Osservatorio che proprio la Società dei Territorialisti ha aperto a livello nazionale [16]. È necessaria una mappa delle buone pratiche e delle possibilità di rigenerazione economica, sociale e paesaggistica delle aree interne, viste non in modo separato, ma inserite organicamente nell’orbita dei rapporti città/campagna che caratterizzano in modo particolare tutta la storia italiana, e della dinamica globale/locale. Questa mappa di esperienze virtuose e di rinascite possibili, dovrebbe costituire uno strumento per resistere e invertire il processo di smantellamento del sistema delle istituzioni locali. Nella nostra ottica il ruolo dei comuni resta centrale, prefigurando una sorta di neomunicipalismo inteso non come localismo chiuso (campanilismo), ma piuttosto come leva della partecipazione e di una ritrovata rappresentanza territoriale in grado di integrare quella politica a partire da alcuni temi fondamentali (territorio, economia, cultura, ambiente e governo delle risorse, servizi e spazi pubblici, beni comuni…).
L’attacco mosso all’autonomia comunale e al ruolo dei piccoli comuni, insidiati e minacciati perfino nella loro sopravvivenza, costituisce uno dei problemi del nostro tempo che rischia di compromettere patrimonio culturale, risorse economiche e tradizione civica. Nell’ultima fase, tra il 2011 e il 2012, l’attuazione delle leggi nazionali sul contenimento della spesa e delle conseguenti normative regionali hanno aggravato la situazione di molti comuni, rischiando di indebolire ulteriormente il sistema delle autonomie locali, sul quale è basato l’assetto costituzionale della Repubblica Italiana. Per effetto di queste leggi, che promettono addirittura incentivi per smantellare la rete dei comuni, molti municipi hanno rischiato di scomparire e alcuni sono effettivamente stati cancellati, in particolare in Emilia e in Toscana, cioè proprio nel cuore dell’Italia centrosettentrionale che aveva a lungo rappresentato, non solo per il nostro Paese ma per l’intera Europa, la culla della civiltà comunale.
Il campanello d’allarme è suonato in diverse realtà del Paese, in territori rurali ricchi di tradizioni e di risorse agro-ambientali, artigianali e turistiche, deposito di storia e di virtù civiche non ancora spente del tutto, piccoli mondi aperti al mondo. L’iniziativa è stata delle rispettive Regioni e addirittura di alcuni sindaci che, colti dalle difficoltà di bilancio e abbagliati da qualche incentivo promesso da Stato e Regione, hanno deliberato l’avvio del percorso di fusione interpretando in modo troppo zelante quanto improvvido le leggi nazionali e regionali. Ha destato sorpresa, in particolare, l’iniziativa in questa direzione della Toscana, che tra le grandi regioni italiane è di gran lunga quella con il minor numero di Comuni (meno di 300, contro i 1.500 della Lombardia e i 1.200 del Piemonte). Adesso il processo ha subito fortunatamente una battuta d’arresto, dopo che i cittadini con appositi referendum hanno bocciato in diversi casi le proposte di fusione, anche con risultati clamorosi che hanno portato in vari comuni a un radicale cambiamento di governo.
Il Comune come noi lo intendiamo ha origini medievali. Nel corso dell’età moderna esso si coniuga con la nascita degli Stati nazionali e si consolida resistendo ai processi di centralizzazione e di burocratizzazione, fino ad essere pienamente riconosciuto nelle costituzioni dell’età contemporanea. Come si può vedere dalla sottostante tabella Variazione del numero dei Comuni dal 1861 ad oggi (fonte: Istat), il numero dei comuni italiani ha sempre avuto una tendenza all’aumento, salvo che nei periodi di regime o di governo assoluto nei quali si interviene dall’alto in modo autoritario e dirigista (in evidenza i due periodi di regressione delle autonomie comunali):
In Toscana, ad esempio, i comuni avevano subito consistenti accorpamenti e una forte riduzione nella seconda metà del ‘700 durante il granducato di Pietro Leopoldo, cioè in un regime di tipo assolutistico. In Italia i provvedimenti fascisti del 1927-29 ridussero il numero dei comuni e riformarono l’amministrazione provinciale. Lo stesso Mussolini aveva caldeggiato una riduzione del numero delle amministrazioni comunali: «Novemila comuni in Italia sono troppi. Vi sono dei comuni che hanno 200, 300, 400 abitanti. Non possono vivere, devono rassegnarsi e a scomparire e fondersi in più grandi centri» – disse nel 1927 pronunciando il noto Discorso dell’Ascensione. In realtà, anche uno sguardo ai principali paesi europei, non avvalora l’idea che i comuni in Italia siano troppi: la Francia ha circa 36.500 comuni, la Spagna ne ha oltre 8.000, la Germania ne conta quasi 12.000 su una superficie di poco superiore a quella italiana. Anche rapportandoci alla popolazione il Bel Paese ha una minore densità comunale rispetto al resto d’Europa: l’Italia ha infatti un ogni 7.500 abitanti circa, la Germania uno ogni 7.200, in Francia uno ogni 1.700 e in Spagna uno ogni 5.600. La media dell’intera Unione Europea è approssimativamente di una circoscrizione comunale ogni 4.100 abitanti.
È chiaro che smantellare i Comuni e privare le realtà locali delle istituzioni di maggiore prossimità agli abitanti costituisce una grave ferita per la democrazia e contrasta con la necessità di rilancio economico e sociale delle aree interne, come evidenziato di recente anche nel documento dell’ex ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca, secondo cui la valorizzazione delle Aree interne è una delle opzioni strategiche nell’ottica di una necessaria territorializzazione della «politica di sviluppo rivolta ai luoghi» [17]. Per fortuna ci sono anche altri segnali a favore delle piccole realtà locali, come l’appello rivolto al Governo e alle Regioni dalla Società dei Territorialisti per la salvaguardia dell’autonomia comunale e del ruolo dei piccoli comuni italiani; o come la proposta di legge presentata il 15 marzo 2013 alla Camera da circa 80 deputati (primo firmatario Ermete Realacci) per il sostegno e la valorizzazione dei comuni con popolazione pari o inferiore a 5.000 abitanti e dei territori montani e rurali. Il disegno di legge è però ancora in discussione, dopo ripetuti rinvii, nelle Commissioni riunite Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici e Bilancio della Camera insieme ad un’altra analoga proposta presentata nel 2014 dalla deputata Patrizia Terzoni [18].
«L’Italia – ha dichiarato Realacci – deve scommettere sui piccoli comuni, sulla forza dei territori e sulle sue bellezze diffuse se vuole essere più coesa e più competitiva». Si tratta dello stesso spirito che anima “Voler Bene all’Italia”, la manifestazione di Legambiente che prevede quasi 200 eventi e itinerari in tutta la penisola per conoscere luoghi e comunità, piccoli borghi da far rinascere, per raccontare un’Italia che deve cambiare ridando voce al suo patrimonio territoriale diffuso che costituisce la sua bellezza [19]. Non tutti però, anche negli stessi partiti di Realacci e Terzoni, la pensano allo stesso modo.
Nel frattempo, tra appelli e disegni di legge, bisognerebbe evitare di fare danni irreversibili e fermare, anche in modo cautelativo l’attacco ai piccoli comuni, alla rappresentanza e alla democrazia territoriale. Purtroppo, dietro la demagogia dei tagli e la retorica del risparmio, si intravede anche il tentativo di nascondere che i problemi veri stanno al centro della politica italiana e non nei territori e nei comuni interni, ingiustamente marginalizzati dal processo di sviluppo globale. Sono in difficoltà? Ebbene, aiutiamoli a vivere, non a morire, tenendo anche conto del fatto che i piccoli comuni spesso sono grandi: di piccola dimensione territoriale, ma di grande estensione territoriale, magari collocati in realtà montane e rurali che presentano fabbisogni specifici sul piano della manutenzione e della tutela ambientale. Non possono essere gli amministratori locali, i sindaci, a celebrarne il frettoloso funerale, magari dopo molti secoli di autonomia comunale, gelosamente custodita anche nelle tante e ricorrenti situazioni di crisi e di difficoltà.
Soprattutto in una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento delle scelte dai luoghi di vita e dalla prevalenza dei poteri economico-finanziari sulle modalità democratiche di governance, i Comuni, intesi come comunità reali degli abitanti e dei patrimoni territoriali che costituiscono i beni comuni, devono essere considerati come la struttura di base dello Stato, l’ossatura viva della democrazia. I Comuni piccoli, in particolare, debbono essere tutelati e considerati come gli ambiti di base e strategici per il futuro dei nuovi equilibri socioeconomici dell’intero paese. Le convenzioni, le unioni intercomunali, i consorzi, gli accordi di programma possono costituire strumenti efficaci, previsti dalla normativa, per adottare forme di collaborazione e di gestione associata di funzioni senza perdere autonomia e rappresentanza.
Seguiamo quelle, lasciando da parte fusioni antistoriche e antidemocratiche: lo strumento della fusione può anche essere utilizzato, ma solo nel caso di comuni piccolissimi, che abbiano irrimediabilmente perso il senso di comunità e che siano messe in grado di scegliere autonomamente e dal basso la strada migliore, evitando imposizioni dall’alto e politiche dirigiste o neocentraliste (statali o regionali che siano) che ne decretino la fine. ‘Autonomi e insieme’ dovrebbe essere il motto per procedere verso l’adozione di politiche comuni e l’esercizio associato di molte funzioni, evitando la cancellazione dei capoluoghi comunali e salvaguardando il patrimonio di cultura, di valori sociali, di democrazia e di economia contenuti nei loro territori.
Per continuare a vivere, le zone rurali hanno bisogno di servizi, cultura, attenzione e prossimità delle istituzioni. Oggi sarebbe dunque il tempo di ridare voce alle comunità locali e ai Comuni come loro primaria espressione e forma di autogoverno. Invece siamo di fronte a un sostanziale arretramento dell’autonomia comunale e ad un processo di riduzione del raggio d’azione delle amministrazioni locali, a forme di neocentralismo e di dirigismo che si inscrivono nella crisi della democrazia e nell’emergere di una postdemocrazia dai tratti poco rassicuranti [20]. Aldilà delle architetture istituzionali, quello che servirebbe nei territori è una effettiva politica di area centrata sui municipi, senza cedere a tentazioni falsamente razionalizzatrici. Occorre invece individuare nella centralità dei territori e nel rilancio del locale (da non confondersi con il localismo) la via moderna per combattere la crisi globale e il degrado della politica. Nell’ambito di strategie generali di resistenza al processo di globalizzazione, o della sua declinazione in forme glocali, il ritorno al territorio può costituire un punto di forza fino a prefigurare il “progetto locale” di cui parla Alberto Magnaghi nel suo lavoro sulla coscienza di luogo: non un localismo triste, ma un rinnovato protagonismo delle comunità locali nel passaggio dallo sviluppo sostenibile allo sviluppo locale autosostenibile [21].
Per questo è necessario un rafforzamento dei Comuni, non il loro smantellamento; ciò che serve è la salvaguardia di diritti e servizi faticosamente conquistati nel tempo, il mantenimento di una rappresentanza democratica vicina alla gente e ai territori, il rispetto delle identità locali e il rilancio del ruolo dei consigli comunali e della partecipazione. E in tale ottica promuovere strutture snelle di associazionismo e di coordinamento intercomunale scongiurando il pericolo di un ulteriore allontanamento del governo locale, che invece deve essere considerato il livello primario. Dobbiamo evitare che avvenga quello che è già avvenuto per molti servizi pubblici (dai servizi idrici alla manutenzione del territorio), dove una dimensione più ampia e lontananza dei centri decisionali ha prodotto effetti negativi, espropriazione dei Comuni, mercificazione delle risorse e aumento dei costi per i cittadini.
In questa prospettiva, e nell’orizzonte della crisi generale del territorio, le aree interne possono rappresentare un laboratorio per l’individuazione di nuove forme di economia e nuovi sentieri di sviluppo, che pongano al centro la qualità della vita, il benessere sociale e l’equilibrio ambientale.
L’autonomia comunale, l’identità, la cultura, la bellezza e la qualità della vita di gran parte del territorio italiano non sono solo temi da intellettuali o da poeti. Esse sono anche vere e durature risorse economiche e fulcro della civiltà di un Paese.
[l’articolo che pubblichiamo è la versione italiana, inviataci dall’Autore, dell’articolo pubblicato in «Tafter Journal. Esperienze e strumenti per cultura e territorio», n. 84, 2015: https://www.tafterjournal.it/2015/09/15/bones-territories-territorial-heritage-and-local-autonomy-in-italian-inner-areas/]
[1] M. Rossi Doria, Dieci anni di politica agraria, Bari, Laterza, 1958.
[2] P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Roma-Bari, Laterza, 2011; Id., Miseria dello sviluppo, Roma-Bari, Laterza, 2008.
[3] Il territorio bene comune, a cura di A. Magnaghi, Firenze, Firenze University Press, 2012.
[4] C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 75-82.
[5] S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino, Einaudi, 2010.
[6] A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Torino, Einaudi, 2012.
[7] F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Milano, Bruno Mondadori, 2013.
[8] G. Dematteis, Montanari per scelta. Indizi di rinascita nella montagna piemontese, Milano, Franco Angeli, 2011.
[9] C. Cattaneo, Scritti politici, a cura di M. Boneschi, Firenze Le Monnier, 1965, vol. IV, p. 425.
[10] Ivi, p. 424. Si tratta di suggestioni riprese in una prospettiva attuale da P. Ginsborg, Salviamo l’Italia, Torino, Einaudi, 2010, pp. 48-54.
[11] R. Pazzagli, Il Buonpaese. Territorio e gusto nell’Italia in declino, Pisa, Felici, 2014, pp. 97-108.
[12] L. Vandelli, Sindaci e miti. Sisifo, Tantalo e Damocle nell’amministrazione locale, Bologna, il Mulino, 1997.
[13] A. Bassolino, La repubblica delle città, Roma, Donzelli, 1996, p. 92.
[14] V. De Luca, Un’altra Italia tra vecchie burocrazie e nuove città, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 131.
[15] G. Sateriale, Mente locale. La battaglia di un sindaco per i suoi cittadini contro lobby e partiti, Milano, Bompiani, 2011.
[16] Osservatorio delle pratiche territorialiste: https://www.societadeiterritorialisti.it/index.php?option=com_content&view=article&id=319&Itemid=166
[17] “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”, Roma 2012, www.dps.tesoro.it/aree_interne/…/Metodi_ed_obiettivi_27_dic_2012.pdf
[18] https://www.camera.it/leg17/141
[19] https://www.piccolagrandeitalia.it/
[20] C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.
[21] A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.
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