Su Franco Fortini. L’allarme del presente
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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Su Franco Fortini. L’allarme del presente

di Velio ABATI, da www.velioabati.com

Aforismi

Insieme con l’atto intimidatorio della sua assertività, l’aforisma porta con sé una straordinaria forza mnemonica, proverbiale appunto, che benissimo si presta a ciò che Fortini indicava essere necessario alla comunicazione sociale oppositiva e critica: il riuso. “Poca favilla gran fiamma seconda”[1]: la straordinaria energia della Divina commedia ne offre, si può dire, a ogni canto. D’altra parte, chi ha lavorato da addetto alla pubblicità alla Olivetti conosceva per esperienza la forza del linguaggio formulare, anche, si capisce, nella sua carica negativa, sotterraneamente mefistofelica. Negava però che da tale duplicità discendesse la condanna di questa modalità[2]. Né tanto meno credeva nella ‘spontaneità’ e autenticità del dire: “ogni comunicazione (e tanto più quanto più è di massa) non è né immediata né spontanea né naturale, ma sempre non naturale, non spontanea, mediata, storicamente determinata”[3].

Citavo l’endecasillabo dantesco e subito, credo con non pochi della mia biografia, la memoria corre alla massima spavalda d’altri tempi: una scintilla incendia la pianura. Fortini ha praticato con assiduità tale registro, anche nel suo versante poetico, basta pensare agli epigrammi dell’Ospite ingrato[4] o all’esperienza dei testi per tre film, dove ha potuto mettere alla prova la sua convinzione in un mezzo davvero di massa, raggiungendo talvolta risultati di grande intensità emotiva e insieme di acuminata denuncia politica[5]. Certo non è stata acqua la frequentazione della pagina brechtiana per il proprio lavoro di traduttore.

Una volta, in uno dei lunghi monologhi del dopo lezione al nostro minuscolo gruppo di studenti, ci recitò uno slogan proposto al quotidiano “Il Manifesto” cui a quel tempo collaborava. Il giornale soleva allora inserire qua e là nelle sue severe colonne brevissimi slogan per raccogliere abbonamenti. Quello proposto da Fortini e – ci disse – non accettato suonava così: “metti sabbia sotto i denti del padrone / abbonati al Manifesto”.

 

Da dove ci si parla? Da dove si ascolta?

Una delle ragioni dell’avversione di Fortini al “mito dell’autenticità” è certamente nel suo rifiuto di certi cascami neoromantici, la cui radice è identificabile con l’immediatezza, rifiuto per altro parallelo alle pretese scientiste[6], tant’è che non si lascia sfuggire l’occasione di raccomandare “non troppo genio”[7].

“Due persone che dicono la stessa cosa non dicono la stessa cosa”[8]. “Che cosa significhi una parola, lo decide chi ha il potere”[9]. L’intervallo di trentun anni e la reciproca estraneità letterale non ingannano sul comune significato profondo da cui sgorgano le due massime. Per Fortini, la lingua e più ancora i testi e i generi del discorso sono prodotti sociali, nel senso che il significato di cui essi sono portatori deriva sia dal loro codice che dal contesto sociale in cui sono prodotti. Se questo è vero dal lato e dal tempo della produzione, ciò non è meno vero dal tempo e dal lato della ricezione: il detto non è mai detto – se non per chi ha parlato – una volta per sempre. Il testo non solo è lettera morta se nessuno lo legge, ma sempre il suo lettore contribuisce al suo senso. E Fortini non dimentica che le idee dominanti sono in ogni epoca quelle della classe dominante.

Si tratta dunque di portare alla consapevolezza che interrogarci su un autore è ogni volta un’operazione complessa, che comporta simultaneamente un giudizio sull’autore e uno su di noi, in rapporto a due epoche.

 

Indizi

Io dico d’Aristotile e di Plato

e di molt’altri” e qui chinò la fronte,

e più non disse, e rimase turbato[10].

A quel tempo non compresi nulla, né ricordo il contesto del discorso, ma mi sono rimasti impressi la voce e le parole di un inciso della sua lezione: essere poeti è così importante che, anche esserlo di seconda fila, è già un onore. C’è dunque in Fortini una considerazione alta della poesia e altrettanto certamente ha sofferto di sentirsi collocato dalla critica nelle file di mezzo. Eppure qualcosa non convince nell’odierna sottolineatura di Fortini poeta. Si sospetta che tale evidenza parli soprattutto di noi, oltre il nostro senso di colpa.

Una mossa permanente del carattere, prima ancora che della morale e del pensiero fortiniani, è l’imperativo di un ordine di precedenze, altro modo d’intendere l’aut aut della scelta: “La parola che più mi stava dinanzi, in quei tempi – così rammenta del sé ventiduenne – era: decidere”[11]. La poesia non è al primo posto nel 1946, “quando da noi si riteneva possibile una soluzione rivoluzionaria”[12], né nel 1982, quando l’intellettuale trova “mirabile” la priorità data da Manzoni alla “pace dell’anima” sul “godimento estetico”[13], né nel 1989: “Perché il problema non è di dare Kafka a tutti, ma a tutti una scuola decente. Ci sono priorità culturali, c’è il problema dell’istruzione”[14]. Si tratta, in sostanza, del prevalere in Fortini dell’urgenza delle relazioni concrete tra gli uomini, ossia – per ricorrere a un vocabolo oggi infrequentabile, tanto è sfregiato e irriconoscibile – della politica. Una passione costante e allarmata, che lo porta, a pochi mesi dalla sua morte, a una conclusione estrema: “quello che di te rimane, che di tutti rimane, non è rappresentato da quei quattro, venti, cento libri che puoi avere scritto […] ma è una quantità di modificazioni che la tua vita, come quella degli altri, ha introdotto nei rapporti fra gli uomini”[15].

Eppure Fortini ha scritto decine di libri, tra cui certamente, per tutta la vita, libri di poesia: di questo noi possiamo e dobbiamo parlare. Se la filologia è inseparabile dalla critica, ciò che di sé e dell’operato intellettuale egli ha detto costituisce l’accesso più agevole.

 

L’allarme del presente

“Se l’artista ha da essere democratico, arte e letteratura, invece, sono aristocratiche”[16]. L’affermazione, come sempre avviene nei punti più alti della prosa fortiniana, sedimenta faglie, tensioni molteplici che sfidano il lettore alla complicità di un esercizio di pazienza analitica, acume connettivo, integrazione creativa. Il precetto qui in esame, dietro l’ovvia distinzione tra dire e fare, intenzione e opera, istituisce due campi separati dell’agire storico umano, con leggi e istituzioni proprie, addirittura – come vedremo più avanti – con tempi propri, sebbene unica sia la finalità.

Innanzi tutto va precisato che, nella frase, “arte” e “letteratura” indicano parti di uno stesso campo semantico, usate in forma sineddotica: un modo breve per dire ‘le opere che appartengono al campo estetico’. Sull’altro lato della definizione, va osservato che il dover essere democratico dell’“artista” non riguarda, strictu sensu, il momento – la ‘poetica’ – della sua produzione artistica, bensì l’insieme della sua attività e del suo pensiero umano e civile, ossia il suo essere intellettuale.

Nei decenni del proprio impegno intellettuale, Fortini non ha mai traguardato le vicende a partire dalle creste della storia: né le classi, né la cultura dominanti sono stati la sua parte. Si è sempre posto di lato, posizione che gli ha permesso di mettere a nudo la funzione di dominio – non solo nei luoghi sociali che esplicitamente lo esercitano, ma anche in quella parte di ognuno di noi che ne partecipa – di smascherarne con costante impazienza la risorgente pretesa di naturalità.

“Non resisto alla tentazione delle notizie, dell’annunzio imprevisto”, dice Fortini, “quando ero giovane pensavo che le notizie dovessero arrivare non dal lattaio, ma dalla polizia. L’eccesso di speranza”[17]. Questa ininterrotta vigilia, questa allarmata speranza sono la mossa costante della reattività intellettuale, politica e poetica di Fortini, che spiegano al contempo la sua attenzione a scandire in fasi politico-culturali distinte gli avvenimenti vissuti, il continuo riposizionamento e il costante ripensamento delle proprie scelte precedenti. Non si deve però pensare che tale disponibilità agli eventi si risolva in semplice sommatoria di posizioni, di giudizi: se i singoli avvenimenti erano sorprendenti “è certo che l’insieme era previsto”[18]. Né si tratta solo di una presunzione soggettiva, se c’è chi ha potuto accusare Fortini proprio d’incapacità a mutar posizione nel cambiar dei tempi[19].

Nel cinquantennio che va dalla Resistenza alla sua morte, avvenuta nel novembre del 1994, si possono distinguere tre diverse stagioni: l’espansione capitalistica con il relativo compromesso keynesiano, che include e travalica i fortiniani “dieci inverni”; la ripresa neo-marxista con la ‘contestazione’ del Sessantotto fino al ripiegamento degli anni Settanta; la restaurazione neoliberista del capitalismo finanziario che prende avvio proprio nel chiudersi di quel decennio.

 

Il due e l’uno

Fortini ha esercitato e discusso la categoria di intellettuale che il marxismo, dopo averla ereditata dall’illuminismo e dal romanticismo, ha rideterminato. La formula più stringente, che certo meglio si attaglia alla posizione fortiniana, è quella gramsciana di ‘specialismo più visione politica del mondo’, in relazione con soggetti e istituti collettivi. Si può dire che egli si è mosso nell’onda lunga e per certi versi finale dell’intellettuale novecentesco, perché ne ha vissuto due diverse modalità, sino alla scomparsa delle condizioni sociali concrete, rappresentate da quelli che oggi si usa chiamare ‘corpi intermedi’, i quali avevano precedentemente reso possibile ciò che Gramsci chiama “mescolarsi attivamente alla vita pratica” [20]. Dice nel 1990: “non esiste più la figura dell’intellettuale […] oggi la fine del ceto degli intellettuali non è data soltanto dall’accrescersi del materiale, magari del tritume, dell’informazione ma anche da un fenomeno opposto (e tragico) ossia il sistema della specializzazione”[21]. È proprio in tale scomparsa dell’intellettuale che va ricercata una delle motivazioni dell’attuale rimozione di un certo Fortini, cui sopra si è fatto cenno. Rimozione che meglio di altro ci indica da quale luogo oggi noi osserviamo.

Il Sessantotto – si usa l’indicazione cronologica nel suo valore antonomasico di un movimento mondiale assai più ampio – era animato da uno spirito ribelle, anticonformista che lo portò generalmente a sottolineare, contro il sonno dogmatico in cui sentiva essere caduta la sinistra comunista e socialista, il valore della rottura soggettiva, tanto che riscoprì opere e pensatori marxisti degli anni Venti, da tempo accantonati quando non esplicitamente condannati. Da tale spinta nacque un’espressione, uno slogan che la riassume: rifiuto della delega. Non ricordo che Fortini l’abbia mai impiegata, anche perché nel contesto politico-culturale concreto in cui veniva agita, essa apriva troppo a impazienze sbrigativamente soggettive, che tagliavano fuori una categoria teorica e politica per Fortini irrinunciabile: la mediazione. Eppure, guardando a ritroso e nel suo insieme l’opera fortiniana, scorgiamo che i due lati di quella frase – nella negazione del primo e in quanto afferma, per antitesi, il secondo – aggrumano un carattere profondo della ricerca di Fortini, sul quale poggiano tre snodi fondamentali della sua concezione come della sua pratica intellettuale.

8 settembre. Per Fortini, è un coagulo allegorico, una ferita personale e storica che fissa e orienta per sempre. Tutto l’arco della produzione fortiniana è infatti segnato dalle sue occorrenze. Una riflessione, tra le altre, illumina le molteplici diffrazioni filosofiche, pratico-politiche, morali e persino religiose: “L’«aut-aut» di Kierkegaard su cui mi ero formato dai diciott’anni si è concretizzato nella guerra. Un momento, in particolare, è stato per molti decisivo: quello successivo all’armistizio dell’8 settembre 1943. Quando uno si trova senza poter comunicare con nessuno, senza alcuna informazione sicura, costretto a dover prendere decisioni da cui dipenderà la sua pelle, oltre a quella di altri, allora esperimenta a che si deve obbedienza. Ti trovi a compiere un atto supremo di vanità e nello stesso tempo di umiltà totale: «la mia coscienza mi dice che devo fare questo». Quando si passa attraverso un’esperienza del genere non la si dimentica più”[22]. Si tratta naturalmente, come lo stesso intellettuale avverte, di un fenomeno collettivo che ha segnato un’intera generazione e anzi un’intera fase storica nei suoi vari aspetti politici, filosofici, morali, come, per esempio, illustra la monumentale ricerca di Claudio Pavone[23]. L’8 settembre è la chiamata insieme indeclinabile e verticale, in quanto non delegabile ad altri, della scelta.

Spirito di scissione. Fortini, sulle orme del miglior pensiero critico, cui il marxismo appartiene, pratica la strategia del sospetto. Ora, rivendicare il diritto del giudizio implica, inseparabilmente, la responsabilità della presa di distanza, del mettersi di lato, di scindersi, anche da quella parte di sé che partecipa del banchetto dei signori della terra e degli uomini: “Oggi […] la condizione di ‘emigrato interno’ è l’unica condizione possibile dell’intellettuale che non abbia rinunciato alla prospettiva socialista”[24] Quel gesto di vanità e di tremore origina appunto sempre da un “no”.

Orizzonte della totalità. Non si tratta mai, per Fortini, di sommare la verità di un campo del sapere con la verità di un altro campo, quella di un agire pratico con quella di un differente versante dell’agire pratico. Se la verità è sempre di parte, essa non è mai di una parte. Opera qui la convinzione che la realtà storicosociale dell’uomo costituisce non una somma ma una totalità, per cui è la relazione istituita da questa a orientare e dar senso alle parti. Se invece ci fermiamo al puro dato empirico, come esso immediatamente si presenta, accediamo solo a una somma cieca, che genera per un verso l’illusione di una libertà privata e individuale, per l’altro un’opacità impenetrabile circa le forze sotterranee che l’insieme muovono e circa i meccanismi per cui da questo esse traggono profitto e dominio. È questa la ragione della ferma condanna della mancanza di mediazione: “qualunque immediatezza è, senza possibilità di dubbio, reazionaria”[25]. Quanto detto a parte obiecti, dell’oggetto, vale ugualmente a parte subiecti, dell’agente: la complessità ricca del primo, da decifrare oltre l’evidenza immediata falsamente nitida del dato, sta di fronte alla responsabilità del secondo. “La verità di un giudizio politico può essere scritta parlando di Proust, e un consiglio di poetica può nascondersi in una valutazione del dissenso dell’Est”[26]. Di nuovo un’assunzione di responsabilità oltre ogni divisione[27].

 

L’uno e il due

L’agire consapevole nella polis, ovvero la politica, che costituisce la linea di condotta di Fortini, ha una traiettoria sorretta da due polarità equivalenti: lo spirito di scissione e l’orizzonte di totalità.

La prima è la mossa che permette il disvelamento: dello sfruttamento, dell’alienazione e della riduzione a strumento tecnico degli specialismi, sia del sapere che dei ruoli sociali. La seconda è invece la condizione gnoseologica della prima e insieme l’energia che muove l’azione. Si tratta insomma di una struttura dialettica.

È necessario però guardare più a fondo in questa relazione, altrimenti risulterebbero inspiegabili le numerose nette condanne, tanto sul versante culturale che su quello politico, della pretesa di una totalità agita ora come imposizione dogmatica[28], ora come estremismo soggettivistico[29]. La totalità, in Fortini, non è un dato, ma un orizzonte e una possibilità, che fa sentire i suoi effetti su almeno tre differenti livelli. Innanzi tutto come bisogno antropologico, parzialmente interpretato dal marxismo, di superare i limiti della propria condizione naturale, nella consapevolezza dell’impossibilità reale di farlo: si tratta di “soffrire più in alto”[30]. Poi come fine che chiede e orienta l’attività politica, ossia la pratica per realizzarla. Infine in quanto ‘come se’ che consente l’accesso alla verità storica.

Se dunque la totalità è un orizzonte, un ‘come se’, insieme futuro e condizione già attiva, impossibile eppure necessario, l’accento è costantemente posto sulla sua scissione. La mediazione è la posta dello scontro storicosociale: per un verso, in quanto risultato e strumento del dominio, si sottrae allo sguardo perché, pretendendosi ultima ossia fine della storia, si mostra come autosoppressa, fatto naturale; per l’altro, in quanto conflitto in atto che dal futuro possibile e necessario prende senso, è insieme la negazione pratica e la verità della prima. L’uno si divide in due. Quella di Fortini è sempre una totalità scissa.

 

Generi

“Scrivere chiaro”, nelle condizioni date, è un’impostura o un autoinganno, perché fa soggiacere alle settorialità degli specialismi, senza che si osi attraversarli. La nostalgia inestinguibile che ne prende il posto è lì a rammentarci, quando le si resista, il futuro, l’orizzonte necessario della totalità[31]. “Bisogna sfidare il lettore a trovare nella pagina che legge altro da quello che il titolo della pagina sembra promettergli”[32]., si devono “assumere gli argomenti di sbieco”[33], dice Fortini. Scrivere difficile, necessità e strategia, è dunque la lotta dell’intellettuale per oltrepassare la falsa concretezza delle parti, degli specialismi, della datità, per far affiorare l’orizzonte di senso che ne detiene la verità. Contemporaneamente è un’azione politica verso il lettore – “Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!”[34] – che lo costringe a fare i conti con la condizione ideologica in cui è ‘naturalmente’ immerso. Tre sono, riassuntivamente, le valenze in questo modo attivate: attraversamento della settorialità dei linguaggi; uso allegorico della singolarità, ivi compresa quella di chi scrive; il ricondurre il rilievo tecnico-scientifico a un orizzonte di senso.

Si tratta di una ardua strategia di pensiero e di scrittura che contemporaneamente si oppone tanto alla sbrigativa, volontaristica negazione della determinatezza e dei generi, quanto alla loro dogmatica e progressista obbedienza. Una scrittura nutrita dunque da una costitutiva spinta filosofica che, in certi passaggi, ricorda la dignità delle pagine adorniane di Minima moralia[35]. Fortini ha costantemente rivendicato la sua adesione al genere saggistico. Una forma ibrida, dai confini piuttosto elastici, che per certi aspetti affonda le sue radici nell’antichità classica, ma che nella modernità ha mostrato la vitalità maggiore, per la sua disponibilità a unire il rigore argomentativo con la sollecitazione emotiva e morale, la scienza con la letteratura. Il saggio, con le sue asprezze che terremotano il già noto, con i suoi echi che schiudono nuove prospettive, con i suoi vuoti che costringono a interrompere la lettura, ad alzare gli occhi, a contribuire al senso della pagina è propriamente la messa in atto non della totalità, ma del suo orizzonte[36].

 

Partiti

L’adolescente fiorentino, figlio di un tormentato ebreo antifascista, dal padre eredita, esasperata, l’ansia piccolo borghese di riconoscimento e l’orgoglio della propria diversità[37], una drammatica conflittualità intellettuale ed emotiva che lo porta, con l’esperienza della Resistenza, ad aderire definitivamente alla forza culturale e politica anticapitalistica più importante, il marxismo. La conquista teorica rappresentata dallo spirito di scissione, in obbedienza all’attenzione tattica o, per dir meglio, alla concreta determinazione delle circostanze storiche, trova diretta applicazione nel diverso mettersi di lato nelle stagioni che segnano, come sopra rilevato, il cinquantennio dell’impegno fortiniano.

Nel 1944, a Zurigo, riceve da Silone la tessera del partito socialista, nelle cui fila rimane fino al 1958. È la formazione politica minore della sinistra, che gli permetteva però, come riconosce esplicitamente, di parlare a chi veramente gli premeva, i comunisti, mantenendo la libertà di criticarli[38]. Basta ricordare che in questo periodo, dalla Resistenza alla pubblicazione di Verifica dei poteri, che coincide con l’apertura della cultura del Sessantotto, le collaborazioni più importanti di Fortini sono state il “Politecnico” di Vittorini, “Officina” di Roversi, “Quaderni rossi” di Panzieri, “Quaderni Piacentini” di Bellocchio. La raccolta di saggi fondamentale di questo periodo, Dieci inverni, si chiude assai significativamente con la Lettera a un comunista, che a sua volta termina con queste parole: “Perché ti racconto queste cose, che tu sai benissimo? Perché voglio esser certo che tu esisti e che non ti ho immaginato; e che altri esistono fin d’ora come me e come te; e parlano come noi cominciamo a parlare”[39].

La raccolta Verifica dei poteri, del 1965, pur presentando una scelta di saggi usciti dopo Dieci inverni, per il taglio e per il fondamentale, ampio Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo già inaugura la seconda stagione fortiniana, quella del Sessantotto. Un volume con cui il suo autore diventa uno dei principali maestri di quella stagione[40]. In questo saggio si conduce allo sviluppo forse più compiuto sia la critica al tatticismo riformista del Pci e delle sinistre storiche europee – è questo il senso della reclamata “fine dell’antifascismo”[41] – sia con la maggior energia si denuncia la costitutiva stretta dogmatica del partito principe e quindi la necessità del rifiuto della delega a proposito del “mandato degli scrittori”: “il Partito è l’ente che con la propria presenza allude al superamento delle ‘specialità’, il Principe e il Filosofo collettivi in potenza, l’organo del Sapere; ora, nella misura in cui conservano – col potere sul verbo – il potere spirituale ‘di sciogliere e di legare’, gli intellettuali e, per essi, gli scrittori e gli artisti come quelli che sono irriducibili ad una ‘specialità’, negano di fatto e al presente quella unicità di potere cui il Partito si richiama”[42].

Questioni di frontiera, che, come recita il sottotitolo, raccoglie “scritti di politica e di letteratura” dal 1965 al 1977, segna un riposizionamento dell’autore. In questa stagione il riferimento sono i fermenti culturali e politici del Sessantotto, si trattava dunque di porsi di lato rispetto ad essi. Il punto di caduta, questa volta, non è il dogmatismo, bensì l’opposta frenesia ribellistica, l’illusione – anche questa piccolo borghese, seppure simmetrica a quella riformista – del tutto e subito: se la mancanza di mediazione denunciata in Verifica dei poteri era la pretesa del partito principe di essere già la totalità solo futura, nei movimenti neomarxisti e contestativi del Sessantotto la mancanza di mediazione si manifestava nel convincimento che la totalità fosse già data non nel partito ma nel movimento, nella società in rivolta. Non fu facile comprendere per chi si trovò ora accanto, ora sotto il suo dito. Ricordo di avergli domandato perché non prendesse la tessera: bisogna che il calice sia prima svuotato interamente, mi rispose.

Contro tendenze dominanti in questa stagione non solo denunciò, come sopra si ricordava, il radicalismo totalizzante che pretendeva di ascrivere “la felicità” al marxismo, ma aggredì una radice importante di quella fase politico-culturale, l’antiautoritarismo, per evidenziare la falsità dell’atteggiamento liquidatorio che verso l’autorità era stato tenuto: “L’autorità sembra fondare la diseguaglianza; e viceversa. Ma in una prospettiva comunista rinnovata l’esigenza di eguaglianza non ci chiede solo l’eguaglianza delle condizioni; ossia del punto di partenza. Anche una società capitalistica può darla e finirà col darla, almeno in alcuni paesi. Chiede l’eguaglianza delle conclusioni, invece: la più terribile, oggi, la più spaventosa anche al progressista, quella che viene presentata e sentita da ognuno di noi come livellamento, ottundimento, massificazione, regresso. Eguaglianza delle conclusioni vuol dire massima omogeneità dei destini e dei comportamenti”[43].

Un altro aspetto dello stesso rifiuto della mediazione, proprio del soggettivismo, è criticato con forza da Fortini. Dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1974 che rendeva possibili ai privati le trasmissioni via cavo e soprattutto dopo la pronuncia del 1976, che liberalizzava anche quelle via etere, proliferarono in Italia le “radio libere”, nelle quali parte importante ebbero, inizialmente, i movimenti e le associazioni di giovani, che ne fecero una bandiera e un’arma. Fortini, approfittando delle domande dell’inchiesta di una rivista, scrisse un duro attacco intitolato Il mito dell’immediatezza: “In via di principio non posso essere contrario a dilatare l’accesso alla comunicazione, a condizione che non si abbia inutile rispetto ‘democratico’ per la imbecillità. Non abbiamo forse ascoltato, in riunioni o trasmissioni, il periodico richiamo a ‘lasciar parlare tutti’? Ci siamo accorti che non sappiamo, in nome della democrazia, come fare per togliere la parola agli idioti e ai provocatori?”[44].

 

Diari, indizi

Se qui dove siamo giunti chiediamo una sosta, qui nel travolgente giro d’anni che nel 1978, entro il piccolo orizzonte italiano, vede il rapimento Moro a chiudere dissennatamente una stagione, e che poi, in crescendo, registra nel 1979 la prima nomina di Margaret Thatcher, nel 1981 la prima presidenza di Ronald Reagan, dai quali prende avvio la drammatica reazione capitalistica neoliberista che tuttora squassa vite, popoli e continenti, se da qui, dicevo, ci volgiamo indietro, scorgiamo nella solida coerenza di Fortini tra analisi teorica e attività intellettuale un’emergenza che ci affida un insegnamento e ci obbliga a nuove domande.

Nel tumulto di eventi grandi e terribili, Fortini, sulla scorta di certo marxismo, è approdato a un difficile paradigma teorico, cui si è attenuto con grande acume per il profilo dei tempi e con animo generoso, traendone una militanza intellettuale coerente e straordinarie pagine di analisi e di critica. La categoria della totalità gli ha permesso di stabilire nessi sotterranei tra i diversi aspetti sociali, capaci di spiegarne cause, dinamiche e possibili rovesciamenti. D’altra parte, la rinuncia a una totalità posseduta, la cura di tenerne aperta una scissura, gli ha reso possibile, insieme con l’assunzione personale della responsabilità, di fare spazio, resistendo al ricatto del consenso, alla critica ai veli dell’ideologia e del dominio.

La risorgenza nei tornanti delle fasi politico-sociali di tale coppia antinomica si radicava, come abbiamo visto, nell’esistenza di una pratica conflittuale orientata alla totalità. Una pratica resa possibile prima di tutto dalla presenza politica, sociale e culturale del partito comunista italiano – e dalle varie organizzazioni associative della sinistra che strutturavano la società – poi, in subordine, dai movimenti del Sessantotto. Essi costituivano la leva materiale e il riferimento teorico su cui l’azione critica di Fortini poteva poggiare. Egli ne è del tutto consapevole, tanto che in un’intervista del 1981 osserva, a proposito delle riviste cui ha partecipato negli anni Cinquanta e Sessanta, che il motivo per cui esse “non erano del tutto assurde o ridicole risiede nel loro ossequio alle forze politiche esistenti. Sebbene non fosse soltanto una questione di ossequio, ma l’assunzione, giusta o non giusta, reale o immaginaria, di un referente costituito dai militanti e dagli iscritti dei partiti della sinistra, dalla gente socialmente appartenente all’area della sinistra. Questi gruppi sapevano che i militanti della sinistra pur non pensando le stesse cose che essi scrivevano nelle loro centinaia di foglietti, e ai quali mediatamente si rivolgevano, non erano tutt’altro, non erano un mondo molecolare ridotto alla dispersione”[45]. Quindi con la consueta reattività annota il cambio di paradigma in corso proprio in quegli anni: “Oggi non si può contare su questo” e pensare che il lavoro politico-culturale necessario “possa essere frutto di volenterose minoranze intellettuali, oggi mi sembra veramente assurdo”[46].

Fortini, tenendosi saldamente a quella pratica che l’orizzonte della totalità rendeva operativo, ha nel contempo messo a nudo come le organizzazioni che la agivano pretendevano – contro la ragione stessa per la quale erano sorte – di essere già la città futura. In questo modo ha contribuito a illuminare i termini teorici e politici di una questione fondamentale nel passaggio da una società capitalistica matura a una diversa formazione economico-sociale, la quale si prefigga di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della sua alienazione. Lo ha fatto a partire dal ricorso critico al proprio ruolo intellettuale così come si è configurato nella fase di massima espansione capitalistica del secondo Novecento. I fatti sono lì a mostrarci che le condizioni politiche e sociali, che quel tentativo avevano reso possibile, sono venute meno a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso. Ma le dinamiche storiche non si esauriscono nei tempi brevi e comunque sappiamo, anche sulla scorta dell’insegnamento di Fortini, che non necessariamente chi vince ha ragione, che gli argomenti di chi ha perso non possano diventare armi future. È semmai da osservare come la condizione attuale risulti simmetrica rispetto a quella di Fortini. Se egli aveva potuto dare per acquisito per una lunga fase il partito, per cui si trattava di praticarne la scissura, oggi ci troviamo immersi in un contesto che si presenta immediatamente come la più grande frammentazione, dove anche gli elementi associativi vivono nella momentaneità e nella singolarità.

Lo sviluppo potente del capitalismo nei “trenta gloriosi” ha tuttavia lasciato un resto nella pur sorvegliata ricerca fortiniana, che non possiamo sottacere in sede di bilancio complessivo. Per un verso, come già accennato, egli ha prontamente registrato la diversa collocazione dell’intellettuale indicandone la fine e descritto in modo fertile la nuova realtà sociale e culturale, per l’altro non ha avvertito il movimento di vasta regressione che il neoliberismo iniziava a produrre sull’insieme della società, dei popoli e del pianeta, fatto che a quasi quarant’anni da quell’avvio siamo costretti a saggiare sulle nostre piaghe. È come se, per dirlo sbrigativamente, egli avesse ben presente la permanente produzione di barbarie da parte del capitalismo, ma non avvertisse che quella non necessariamente si accompagnava a una corrispondente crescita da qualche altra parte del pianeta.

Il quindicennio finale della vita di Fortini è segnato, come già visto, dalla fine dell’intellettuale, determinata appunto dal venir meno della condizione che rendeva possibile l’attraversamento politico degli specialismi: la centralizzazione teorico-pratica del partito e la dialettica dei corpi intermedi. Fortini descrive una società di frammenti[47] e quindi vive nella solitudine. Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, s’intitola, per esempio, il volume del 1990, costruito come flusso di pagine di diario intellettuale, dove, nel Saluto, sorta di postfazione in forma di poème en prose al lettore, quasi incidentalmente pronuncia l’assillo fondamentale: “Rispondere così vuol dire ironizzare e l’ironia non è concessa alla solitudine”[48].

Le pagine saggistiche più dense di questo periodo sono quelle che descrivono la polverizzazione sociale, la destrutturazione culturale allora iniziata. Di grande interesse, per esempio, la denuncia di come il consumismo estremo dell’industria culturale, mentre appiattisce tutti verso il basso, venda paradossalmente l’illusione di dare a ciascuno qualcosa di esclusivamente personale, in obbedienza all’individualismo estremo dell’ideologia dominante[49]. Fortini osserva che tale dinamica produce deprivazione, analfabetismo di ritorno, allontanamento dalla stessa cultura di massa, anche nel cuore delle società capitalistiche, come gli stessi Usa, ma giudica che esso interessi “una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali”[50]. Tant’è vero che la nota dominante gli appare essere, appunto, come recita il titolo del saggio in questione “lo snobismo di massa”. D’altra parte le “estati romane”, che dal 1977 l’assessore alla cultura del Pci, Renato Nicolini, aveva organizzato fino al 1985, avevano diffuso in Italia, in quelli che Fortini in una conversazione privata m’indicava come Assessorati Turismo & Spettacolo, la ‘cultura dell’effimero’, ossia del consumismo edonistico, costituita da eventi culturali ai quali accorrevano migliaia di giovani e meno giovani. “Quello che è successo” dice Fortini “mi ha dato torto”[51]. Dal momento che l’intellettuale è stato sostituito dall’esperto, il saggio è diventato pagina di diario[52]. E persino la produzione letteraria è ora possibile “in tutte quelle forme letterarie che il nostro secolo ha trascurate, il diario, le lettere, la mescolanza di autobiografia e poesia, le forme della discrezione”[53].

 

Lenin e Beethoven

Per Fortini, se l’agire consapevole nella polis, quindi anche quello dell’intellettuale come ceto, è orientato dalla possibile totalità, la poesia e in genere l’arte è totalità. Se il compito dell’intellettuale è giocato sui tempi brevi della politica e delle variazioni economico-sociali, l’arte è invece alle prese con i tempi lunghi e lunghissimi, forse antropologici. Se l’autore del saggio è pienamente responsabile, il poeta, l’artista è in buona misura ir-responsabile. In altre parole, non solo un’opera d’arte non è un’opera critica, ma anche il critico è una persona diversa dall’artista, perché costituiscono due diverse istanze del soggetto: la prima attiene alla sfera etico-razionale della coscienza; la seconda a quella in gran parte irrazionale della pulsionalità inconsapevole[54]. Anzi, precisa Fortini: “nell’atto di scrivere versi […] rischio ed espongo alla prova non solo qualcosa di diverso, ma di più di quanto faccia con l’atto di scrivere prose critiche”[55]. Tant’è vero che nei due piani è del tutto diversa la figura dei destinatari polemici: “Parlare di nemici o di avversari nella poesia non si può. La stessa cosa non la posso dire di Agnelli”[56].

Eppure medesima è l’energia, la direzione e la causa finale: la totalità. In questo concetto, Fortini si rifà esplicitamente alla concezione dell’opera d’arte come organismo, di Schiller[57]. Questi, nel saggio Sull’educazione estetica dell’uomo, descrive l’opera artistica come un organismo nel quale è abolita la casualità per la sottomissione delle parti a un finalismo interno. È agevole osservare, con un’ottica storico-politica marxista, che tale organismo, se paragonato alla vita storica reale, descrive la dis-alienazione, ovvero la riappropriazione della vita e del destino comune, mentre il piacere estetico procurato dall’opera d’arte è la gioia e il piacere della totalità concreta. Ma l’adesione di Fortini alla proposta estetica schilleriana è determinata da un ulteriore aspetto, altrettanto energicamente sottolineato dal poeta romantico: l’uomo “possiede tale diritto di sovranità solo nel mondo dell’apparenza e dell’immaginazione e solo finché si astiene scrupolosamente […] dal voler produrre da esso un’effettiva esistenza”. Tale posizione si attaglia perfettamente alla ferma convinzione di Fortini circa l’inconciliabilità di arte e vita, radice teorica, estetica e culturale della sua avversione tanto delle poetiche ermetiche[58], quanto delle neoavaguardie, con le quali ampia è stata la polemica.

Fortini vede dunque nell’opera d’arte non un orizzonte di totalità, ma, pena l’assenza del suo valore, una totalità effettiva che, in una società divisa in classi, può essere solo dei signori degli uomini. Di qui la costante convinzione che il poeta si siede sempre alla tavola dei padroni, che non si dà “un Petrarca per tutti”[59] e la constatazione dell’impossibilità, per i rivoluzionari, di sopportare la bellezza artistica[60]. Di qui, insomma, la sottolineatura dell’ineliminabile commistione tra appello al futuro, sprone all’imitazione verso il fruitore e insieme nascondimento ideologico, che la fascinazione estetica possiede, di presentare come reale la propria finzione. Solo se e fintanto che il fruitore tiene desta la consapevolezza dell’essere quella totalità solo in figura, egli può sottrarsi alla falsa realtà e nutrirsi invece della nostalgia di un’integrità che solo la sua azione storica reale potrà avvicinare. Risulta così più chiara anche la personale poetica ‘manierista’, la sua obbedienza al canone e il ricorso al falsetto, mentre sul piano teorico il ‘come se’, che nel ruolo intellettuale si attuava attraverso la scissione della totalità, spostando questa in un orizzonte futuro, nel campo estetico assume la forma della sospensione dal piano della realtà e quindi di prefigurazione di un reale tanto più possibile e necessario, quanto più alto è il valore artistico dell’opera.

 

Note al testo

[1] Dante, Paradiso, I, 34.

[2] Si veda, tra le tante, la seguente affermazione: “Un buon esempio di quanto dico è nel grande documentario sulla Cina, girato da Ivens. Parlando con Edoarda Masi e con una cinese mia conoscente ho saputo che i discorsi dei personaggi intervistati, delle contadine, dei tramvieri, sono quasi esclusivamente degli elenchi di stereotipi: tutti parlano come libri stampati, anche quelli che meno si sospetterebbe. È una prova della straordinaria bravura di attori dei cinesi, i quali spontaneamente recitano l’autenticità? Certo. Ma, con ciò, dobbiamo considerare tali messaggi come menzogne? Niente affatto. Essi possono veicolare la menzogna, ma sono la forma con la quale è stato possibile dare a queste persone la parola”, Franco Fortini, Il mito dell’immediatezza, in “Aut Aut”, n.s., 1963, gennaio-febbraio 1978, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-94, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 210.

[3] Ibidem.

[4] L’autore ne ha pubblicate due edizioni: L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, Bari, De Donato, 1966, e L’ospite ingrato. Primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985.

[5] Cfr. Franco Fortini, Tre testi per film. “All’armi siam fascisti” (1961), Scioperi a Torino (1962) La statua di Stalin (1963), Milano, Edizioni Avanti!, 1963. Si veda, per esempio, la straordinaria sequenza “…Eccoli dire / di sì, di sì perché lo fanno tutti, / di sì perché lo ha detto monsignor vescovo…” di “All’armi siam fascisti!”, p. 30.

[6] “Il mito della spontaneità e dell’autenticità ha impedito a sinistra qualsiasi organizzazione in questo senso sistematico di una educazione o di una resistenza. Eco ha scritto molto e spesso saggiamente su questi temi, salvo credere di poter giocare d’astuzia col sistema dominante e diventarne così un pregevolissimo collaboratore. Ad esempio la stampa ed anche i mezzi radiotelevisivi di sinistra non si pongono mai il problema della ripetizione, ma solo quello della variatio: hanno scelto questa, tra le possibilità retoriche, perché credono che promuoverebbe al massimo l’autenticità, mentre la ripetizione sarebbe autoritaria, dittatoriale e deprimente”, Franco Fortini, Il mito dell’immediatezza, cit., p. 212.

[7] S. Palumbo, Quel busto romano di una dea, in “Poesia”, XI, 118, giugno 1998, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 737: “Se dovessi fare un augurio per il nostro Paese, vedrei meglio, anziché una figura come Pasolini, una leva di storici, filologi, sociologi, pedagoghi orientata, soprattutto, a trasformare la scuola. La formula? Per favore, non troppo genio”.

[8] Otto domande sulla critica letteraria in Italia, in “Nuovi Argomenti”, VII, 44-45, maggio-agosto 1960, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 19, dove la frase suona esattamente così: “due persone (tanto più due critici) che dicono la stessa cosa non dicono la stessa cosa”.

[9] Alberto Papuzzi, Fortini sempre antiamericano, in “La Stampa”, 13 settembre 1991, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 622-3.

[10] Dante, Pugatorio, III, 43-5.

[11] Franco Fortini, I cani del Sinai, Macerata, Quodlibet, 2002, p. 48.

[12] Laura Lilli, Solo il Vangelo è un libro per tutti, in “La Repubblica”, 30 marzo 1989, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 537, che così continua: “Immaginiamo – dissi a Vittorini e Balbo – che domani noi tre formiamo un comitato incaricato di assegnare la carta all’editoria nazionale, e la carta sia il cinquanta per cento di quella che avevamo l’anno scorso. Cosa facciamo? Stampiamo Proust o manuali d’igiene?”.

[13] Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Lerici, 1982, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 78: “Manzoni, discutendo con un personaggio immaginario sull’amore nelle opere letterarie, esce a dire che qualora Racine, per ragioni di scrupolo religioso, gli fosse venuto a richiedere l’ultima copia delle sue tragedie ancora esistente al mondo, per bruciarla, egli, Manzoni, gliel’avrebbe data, di tutto cuore, e immediatamente; perché riteneva più importante, in assoluto, la pace dell’anima di Jean Racine che non il godimento estetico quale tutta l’umanità avrebbe potuto ricavare, nei secoli dei secoli, dalle sue opere poetiche”.

[14] Laura Lilli, cit., p. 537.

[15] Claudio Altarocca, Fortini. Italia orribile ti dico addio, “Tuttolibri” supplemento di “La Stampa”, 5 marzo 1994, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 699.

[16] Laura Lilli, cit., p. 538.

[17] Francesco Gambaro, Un fiero narciso con “il vizio della speranza”, in “L’Ora”, 29 marzo 1992, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 636.

[18] Ibidem.

[19] Cfr. Claudio Altarocca, cit., p. 701: “Un giorno incontro Adriano Sofri, che mi dice: ‘Non sei cambiato. Sei una pietra’. ‘Non credo di essere un fossile di Rifondazione’, gli ho risposto. Non si tratta di fedeltà al passato, ma di rigore nella ricerca. Non si può rimanere fedeli, nostalgici, contenti della propria coerenza. Bisogna invece rischiare, rimettere ogni giorno in discussione la propria biografia”.

[20] Antonio Gramsci, La formazione degli intellettuali, in I quaderni del carcere. Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, a cura di Valentino Gerratana, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 22: l’intellettuale nuovo deve “mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore permanentemente’ perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane ‘specialista’ e non si diventa ‘dirigente’ (specialista + politico)”.

[21] Mavì De Filippis, Intervista a Franco Fortini, in “La Ragione Possibile”, I, 1, maggio 1990, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., pp. 582-3.

[22] Lorenzo Prezzi, Morale, il nome privato della politica, in “Il Regno”, 15 maggio 1983, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 330.

[23] Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati-Boringhieri, 1994, p. 23: “Eventi grandi, eccezionali, catastrofici pongono i popoli e gli uomini davanti a drastiche opzioni e fanno quasi di colpo prendere coscienza di verità che operavano senza essere ben conosciute o la cui piena conoscenza era riservata a pochi iniziati. Il vuoto istituzionale creato dall’8 settembre caratterizza in questo senso il contesto in cui gli italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli”.

[24] Franco Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Franco Fortini, Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, 1974, p. 170.

[25] Mauro Mauruzj e Donatello Santarone, Franco Fortini: le catene che danno le ali, in “I Giorni Cantati”, I, 2-3, luglio-dicembre 1981, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 301.

[26] Vicino agli Sposi promessi, in “La Repubblica”, 27-28 novembre 1977, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 195.

[27] Cfr. Franco Fortini, Quale arte? Quale comunismo?, in Dieci inverni. 1947-1957 contributi ad un discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, p. 135: “I politici sono avvezzi a non ascoltare i tecnici della cultura, questi a non farsi ascoltare; e così vivono benissimo gli uni e gli altri, raccomandandosi scrupolosamente la divisione dei poteri e delle impotenze”.

[28] Cfr. Franco Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, cit., p. 149: “Il Partito pretende di esercitare subito quella funzione che assolverà solo quando si dissolverà in quanto Partito nella società senza classi e nella circolazione omeostatica delle sue parti”.

[29]Cfr. Franco Fortini, Il dissenso e l’autorità, in Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965-1977, Torino, Einaudi, 1977, p. 55: “Il discorso marxista […] non ha niente a che fare con la ‘felicità’, non può proporre altro che una interpretazione parziale del mondo e saper di proporla. E quando si dice parziale, cominciamo a prendere questo termine anzitutto nel suo senso più forte e corrente, non facilmente dialettico – come invece si fa di solito quando ‘parzialità proletaria’ viene identificata alla volenterosa Negazione della Negazione, sì che ti prendi con una mano quel che avevi lasciato sfuggire dall’altra”.

[30] Cfr. Mavì De Filippis, cit., p. 577: “Si tratta cioè di spostare il livello, non di togliere la contraddizione; di cambiare la qualità della contraddizione”.

[31] Cfr. Franco Fortini, Scrivere chiaro (III), in Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972-1995, Roma, Manifestolibri, 1997, p. 61: “La nostalgia del discorso quotidiano, pratico, diretto e ‘chiaro’ è anche, o dovrebb’essere, augurio e lotta per un’unità, per una restituzione dell’uomo a se stesso; la medesima che è scritta tradizionalmente sulle bandiere del socialismo e che oggi, sembra, fa ridere, come umanesimo prescientifico, gli avventati ammiratori di un noto filosofo del Pcf. Ma non si lotta con i linguaggi settoriali e contro ciò che ci divide, restando prima di quei linguaggi e non oltrepassandoli”.

[32] Vicino agli sposi promessi, cit., ora in Franco Fortini, cit., p. 195.

[33] Cfr. Gianni Turchetta, Vale ancora la pena. Incontro con Cesare Cases e Franco Fortini, in “Linea d’Ombra”, V, 20, ottobre 1987, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 489: “Di qui viene al tendenza ad assumere gli argomenti di sbieco o puntando su un particolare, aumentando il tasso di pretestuosità, e usando i tesi come pretesti per altri discorsi”.

[34] Charles Baudelaire, Au Lecteur, in Les fleurs du mal, a cura Luigi de Nardis, saggio introduttivo di Erich Auerbach, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 6.

[35] Per la posizione di Fortini verso questo aspetto della prosa di Adorno cfr. Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, Firenze, La Nuova Italia, 1973, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 143: “posso aver scritto e scrivere torbido e oscuro perché non so pensare con ordine o, più schiettamente ancora, perché ho pensieri torbidi e oscuri. Ma certo. Non basta pretendere alla dialettica per scrivere come Adorno, grazie tante”.

[36] Cfr. Alfonso Berardinelli, cit., p. 142: “La difficoltà, l’oscurità, il fumo si accompagnano necessariamente ad ogni discorso che si rifiuta a dispiegarsi perché ha come proprio centro una proposta o una allusione di totalità. Hanno parlato di mistica. Un corno, come diceva Vittorini. Essere verso il comunismo, per me, ha voluto dire indicare, con uno stesso gesto, l’assenza di unità umana (o l’alienazione, come si dice) e l’ipotesi di quella unità (o la fine dell’alienazione). Ebbene, pensare e scrivere voleva dire, per me, vuol dire, un equivalente di quel gesto”.

[37] Cfr. Franco Fortini, I cani del Sinai, cit., in particolare la lassa 17, pp. 45-50: intenso ritratto del padre, che è, in controluce, uno straordinario autoritratto.

[38] Cfr. Arnaldo Nesti e Pietro De Marco, “Fare diversa questa realtà, non farne un’altra (con un inedito), in “Religione e Società”, IV, 8, luglio-dicembre, 1989, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 561: “Non ero tenuto alla disciplina di partito che loro [sc. i comunisti] avevano, mentre erano solo essi i miei interlocutori; non avevo in realtà nessun interlocutore nel Psi eccetto Riccardo Lombardi. Questo faceva sì che continuamente e in modo insistente agitavo, presentavo dei caveat ai comunisti, contro l’ottimismo gramsciano, l’ottimismo ufficiale togliattiano, l’ottimismo crocio-gramsciano degli Alicata e dei Muscetta, ricevendone in cambio insulti di vario genere”.

[39] Franco Fortini, Dieci inverni, cit., p. 299.

[40] Cfr. Renato Minore, Rabbie e speranze, in “Il Messaggero”, 7 gennaio 1984, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 345: “Nel ’64, a quarantasette anni, sono stato licenziato quasi contemporaneamente da Olivetti e da Einaudi. Avevo debiti, una bambina piccolissima. È stato un brusco declassamento. Mi ricordai che molti anni prima avevo vinto un concorso come professore, feci la scuoletta a Lecco […]. Mi trovai a contatto di gomito con tanti giovani che si occultavano nell’insegnamento: era la generazione del ’68”.

[41] Cfr. Franco Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, cit., p. 158: “Se il fascismo è collegato bensì al capitale ma da caratteri patologici, mostruosi, da nemico del genere umano; se fin dal 1935 appare così evidente la preoccupazione di ‘non spaventare’ con le parole del marxismo gli intellettuali e gli scrittori ‘ben disposti’ (e, dieci e quindici anni dopo, quella preoccupazione sarà ancora di corrente circolazione nel nostro paese) – allora la sola zona nella quale sarà dato incontrarsi sarà quella del più fiacco e socialradicale ‘umanesimo’”.

[42] Ivi, pp. 148-9.

[43] Franco Fortini, Il dissenso e l’autorità, cit., p. 58.

[44] Franco Fortini, Il mito dell’immediatezza, cit., p. 215.

[45] Mauro Mauruzj e Donatello Santarone, cit., pp. 303-4.

[46] Ibidem.

[47] Cfr. Bruna Miorelli, L’”autentico” è un’illusione, in Invisibile lo stato della cultura oggi in Italia, in “Azimut”, VI, 27, gennaio-febbraio 1987, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 449: “Abbiamo avuto, a Milano, nei tardi anni cinquanta e negli anni sessanta, un grandissimo sviluppo di centri di attività culturale […] Quel tipo di sedi di dibattito non sono più esistite. Oggi la città è ricchissima di sedi «culturali» ma tutte tendono a diventare omogeneizzate, come lo sono, ad esempio, i periodici. È molto difficile, oggi, immaginare un luogo, dove si dibattano delle questioni che non siano solo molto particolari, limitate”.

[48] Franco Fortini, Saluto, in Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, p. 127.

[49] Cfr. Contro lo snobismo di massa, “Laboratorio Samizdat”, IV, 7, novembre 1989, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 549: “La tendenza di quello che conviene chiamare ‘tardo capitalismo’ è oggi rivolta a queste due mete solo apparentemente contraddittorie. Per un verso, dunque, ci vogliono tutti simili o uguali: consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati. È quella che chiamiamo ‘cultura di massa’, al suo livello inferiore. Ma, per un altro verso ‑ e basta guardare la pubblicità dei prodotti che riempiono i settimanali e le trasmissioni televisive ‑ si tende a proporre un modello di individuazione estrema: non essere come gli altri, sii diverso, più bello, più forte, ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una ‘cultura’…”

[50] Ibidem.

[51] Rocco Capozzi, Di scrittori, di critici, oggi. Franco Fortini, in “L’immaginazione”, VII, 81, settembre 1990, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 596.

[52] Cfr. ivi, p. 597: “siamo divisi fra la possibilità di un saggismo (che quasi tende a coincidere col diario intellettuale) e un sapere specialistico che va, diciamo così, tanto più benedetto e protetto quanto più è insufficiente”.

[53] Franco Brioschi, Vent’anni sprecati?, in “L’Unità”, 23 ottobre 1983, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 342.

[54] Cfr. Renato Minore, Rabbie e speranze, cit., p. 344: “Ho l’impressione che quello che scrivo appartenga a un altro che mi sfugge. Se devo difendere un articolo sono disposto a tutto. Se devo difendere una poesia non ne sono capace se non nella forma generica, dicendo “però è bella”. Insomma, c’è una situazione di divisione schizoide per cui la mano che scrive versi non è la stessa che scrive in prosa”.

[55] Franco Palmieri, La crisi dell’ideologia? Un’invenzione di chi rinuncia, in “Avanti!”, 17 febbraio 1966, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 89.

[56] Giorgio Fabre, Letteratura ti assolvo, in “L’Unità”, 18 agosto 1987, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p. 482.

[57] Cfr. Mavì De Filippis, cit., p. 579: “Ho usato la formula secondo la quale la forma letteraria o artistica è, non direi, metafora quanto piuttosto anticipazione, promessa e modello. Proporrebbe con la sua ‘astanza’ un modello di come la vita potrebbe essere nel tempo. Ossia una proposta di coerenza. Ora è chiaro che questa non è certo una mia invenzione. È già presente nel pensiero schilleriano”.

[58] Cfr. uno dei più secchi epigrammi, in Franco Fortini, L’ospite ingrato, cit., p. 141: “Carlo Bo. / No”.

[59] Laura Lilli, cit., p. 538.

[60] Cfr. Franco Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, cit., p. 186: “Lenin (come l’aneddoto racconta) non potrà rimanere a lungo ad ascoltare Beethoven che dice inutilmente agli uomini quel che essi possono diventare”.

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