Spazio pubblico e vita civica. Alternative alla comune evanescenza
di Ilaria AGOSTINI, da “eddyburg“, 27 maggio 2017
[Lo scritto che pubblichiamo è la trascrizione del contributo all’incontro Gli standard urbanistici, cinquant’anni dopo. Un progetto per lo spazio pubblico, organizzato dalla Scuola di Eddyburg nell’ambito della manifestazione “Leggere la città”, Pistoia, 7 aprile 2017. La fotografia è di Elvira Bandini, https://www.spaziindecisi.it/space/piscina-comunale-santa-sofia/, NdR]
Prima di affrontare il ruolo degli standard urbanistici nella costruzione della «vita civica», mi preme ragionare sul valore dello spazio comune, pubblico e quindi politico. Per far ciò devo riferirmi sinteticamente alle riflessioni di tre filosofe. Simone Weil, Hannah Arendt, Françoise Choay.
I fondamenti dello spazio pubblico
Nel Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano scritto durante la Seconda Guerra, e intitolato significativamente “radicamento” (L’enracinement, 1949), Simone Weil individua i bisogni fondamentali dell’essere umano, o «esigenze dell’anima». Tra di essi è la «partecipazione dei beni collettivi». E quindi la partecipazione al loro uso. La filosofa afferma, infatti, che solo «laddove esiste […] una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti civici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri»[1]. Altra primaria «esigenza dell’anima» è l’«uguaglianza». Essa è connessa col «riconoscimento pubblico, generale, effettivo, espresso realmente dalle istituzioni e dai costumi, che a ogni essere umano è dovuta la stessa quantità di rispetto e di riguardo»[2].
Lo Stato (la collettività), scrive la Weil, «ha il dovere di fornire la soddisfazione» del «bisogno» di uguaglianza e di proprietà collettiva del bene comune. Ed è proprio il riconoscimento di tali “diritti” che consente all’essere umano di assurgere alla civile vita associata.
Qualche anno dopo, in The Human Condition (1958, trad. it. Vita activa), Hannah Arendt riconosce lo spazio pubblico come dimensione essenziale alla condizione umana, luogo della «pluralità» e «sfera di possibilità della libertà politica»[3]. La filosofa tedesca mostra dunque l’intima connessione tra agire-insieme (politico) e spazio pubblico, o «mondo comune».
In un altro passaggio di Vita activa, l’autrice si sofferma sulla città-stato greca. Troviamo qui un’importante riflessione sul “dato fisico” (importante per chi come gli urbanisti si esercita, per statuto, sul mondo fisico nell’interesse pubblico): le mura della polis – ella scrive – abbracciano e proteggono uno spazio pubblico già esistente. E, poiché «le cose del mondo hanno la funzione di stabilizzare la vita umana» (p. 98), lo spazio pubblico (costruito, conformato) è condizione non solo di esistenza della sfera politica, ma anche del suo permanere e riprodursi.
La Arendt non si esime tuttavia dal rimarcare la volatilità che affligge l’agire politico e il suo contenitore spaziale. Questa volatilità ci riporta all’oggi. Lo spazio pubblico, ella scrive, è effimero poiché «sorge dall’agire-insieme, dal condividere parole e azioni» e dura finché durano queste attività[4]. Cessate le attività – l’agire nella polis, l’«agire-insieme» (p. 145) –, cessano di esistere anche gli spazi comuni, e il loro bisogno.
Tale dolorosa prospettiva viene lenìta, in tempi più vicini a noi, dalle acquisizioni teoriche che ci derivano dagli studi di Françoise Choay. La filosofa francese si sofferma infatti sul «ruolo instauratore» dello spazio pubblico, insistendo «sul rapporto dell’architettura [e dello spazio] con l’istituzione della società»[5], riconosciuto che la scena architettonico-urbana costituisce il «quadro fondatore della nostra quotidianità»[6]. A tale quadro costruito – lo «spazio conviviale di contatto» della città medievale; lo «spazio scenico» rinascimentale-barocco; lo «spazio della circolazione» della Parigi haussmanniana; ma non lo «spazio delle connessioni» che caratterizza il periodo in cui oggi siamo immersi – viene attribuito un valore antropogenetico: esso contribuisce cioè alla nascita e all’esistenza della società.
«È fondamentale – rimarca la filosofa – comprendere che la facoltà di parlare e la facoltà di costruire sono le due facce della stessa competenza che fa di noi degli umani: cioè la competenza di simbolizzare»[7]. Poiché dunque l’atto di edificare «possiede la stessa dimensione simbolica del linguaggio»[8], le opere che compongono la scena cittadina sorreggono simbolicamente la vita che vi si svolge[9].
Attraverso l’architettura, e lo spazio pubblico che essa determina e configura, si perpetuano nel tempo le civilizzazioni; attraverso lo spazio conformato «riusciamo a memorizzare ciò che il linguaggio esprime nell’istante», ma che nel linguaggio «è evanescente». Nel sottolineare la durata nel tempo dell’architettura, la Choay ci rincuora: lo spazio edificato è capace di rendere eterni «il nostro stato di cultura e le nostre identità umane nel tempo».
Lo spazio comune (città, edifici collettivi, spazi pubblici), grazie alla sua durata, obbliga perciò al ricordo di comportamenti sociali e ha la facoltà di «promuovere un sistema di valori giuridici e morali»[10] nel tempo. Una facoltà interpretabile in chiave antropologica: «il processo di spazializzazione come potere inerente alla specie umana», «aboli[sce] le rotture grazie alla memoria», affermando «la fedeltà della nostra specie a se stessa in un imprevedibile processo di creazione che non può essere altro che continuazione»[11].
Di tale facoltà dà prova la riproposizione della “villa comunale” di Chiaia nelle periferie napoletane (San Giovanni-Barra, Ponticelli, Scampìa) recuperate con un piano esemplare negli anni ’80 del post-terremoto. Il parco pubblico viene in questi luoghi riprodotto con criteri di analogia rispetto all’esempio storico, quanto a dimensioni, proporzioni e magnificenza, in base alla previsione di verde pubblico da standard ex DM 1444/1968.
Lo spaesamento e la demolizione
Le tre autorità interpellate – Weil, Arendt, Choay – ci hanno accompagnato nella definizione dello spazio pubblico come luogo, simbolo e matrice, della democrazia, della costruzione civile e antropologica, dell’uguaglianza. Tuttavia, nel trentennio neoliberista, l’ideologia che ha privilegiato l’azione privata su quella pubblica ha guidato la politica sul piano inclinato verso il privatismo; e, come conseguenza socio-spaziale, ha portato a confondere luoghi pubblici e luoghi di uso pubblico ma di proprietà privata.
Prendiamo il caso estremo dei centri commerciali. I cittadini (trasformati in utenti) interpretano quali spazi “pubblici” questi luoghi che hanno invece natura privata, che sono gestiti secondo princìpi privatistici volti all’interesse economico, e improntati al securitarismo, alla chiusura, alla selezione. Luoghi dove, in termini giuridici, il privato proprietario può esercitare lo ius excludendi alios.
La piazza, l’ambiente pubblico, è invece tradizionalmente caratterizzata da apertura, gratuità, inclusione.
Tuttavia, quando nel senso comune la città o la piazza valgono un centro commerciale, tutto è confuso e messo sullo stesso piano. Lo spaesamento va di pari passo con la disaffezione dei residenti per i luoghi centrali, che vengono loro sottratti dalla mercificazione generalizzata, dall’alienazione del patrimonio pubblico e dallo svuotamento degli edifici monumentali dalle funzioni collettive. Luoghi che diventano inoltre sempre più lontani a causa dell’inefficienza del trasporto pubblico, oggi pesantemente privatizzato.
Il cittadino frequenta diffusamente le enclosures moderne – sia per le comodità offerte (sono luoghi protetti e riscaldati), sia per le maggiori occasioni di incontro –, che così diventano luoghi di aggregazione (pur restando spazi di consumo), scene mnemoniche della vita vissuta, pur restando luoghi privati, mercantili.
Tuttavia è ancor più grave il movimento inverso: il recente provvedimento detto “Daspo urbano” dimostra che la figura del sindaco è stata confusa con quella del proprietario di un centro commerciale.
Ma vorrei ora arrivare al nodo del discorso: gli standard urbanistici.
L’istituto degli standard non è perfetto, come avvertirono i protagonisti[12]. E non c’è dubbio che esso non sempre ha determinato la produzione di ambienti urbani di qualità.
Negli “standard” è infatti del tutto assente la questione qualitativo-architettonica e, ciò che è più rilevante dal punto di vista urbanistico, è pure assente la questione localizzativa. Per conferire agli insediamenti qualità urbana, ambientale e sociale, le attrezzature di servizio e il verde dovrebbero infatti trovar luogo all’interno degli abitati e costituire così centralità di quartiere, evitando di intaccare il suolo agricolo o di occupare aree di difficile accessibilità incrementando in tal modo il traffico automobilistico privato.
A Bologna (1969), la città storica fu ripartita in aree dal raggio di 4-500 metri in cui furono verificate le carenze e le concentrazioni eccessive di servizi (asilo nido, scuola materna, scuola dell’obbligo, scuola superiore, assistenza, commercio, verde di quartiere etc.) e recuperati quelli necessari[13]. Altro esempio storico può essere indicato negli arrondissements haussmanniani.
Analogamente, per la conurbazione urbana potrebbe essere applicata una suddivisione che discenda dalle ripartizioni storiche (perimetro del territorio delle parrocchie, delle Comunità da catasto storico, dei territori comunali antecendenti agli accorpamenti fascisti etc.): tale suddivisione renderebbe evidenti gli ambiti in cui localizzare attrezzature e verde pubblico da standard.
Comunque sia, stanti i difetti sopra accennati, il dispositivo previsto dal 1444/1968 rappresenta ancora, ad oggi, in quanto garanzia di universale accesso ai servizi, una valida soluzione alla domanda di:
- uguaglianza sociale (nella geografia peninsulare);
- costruzione permanente di democrazia;
- pari opportunità;
- mobilità sociale;
- benessere psicofisico.
E sarebbe perciò un istituto da difendere, da migliorare e da incrementare. Sarebbe. Uso il condizionale perché la deformazione della normativa urbanistica ed edilizia sta togliendo il terreno sotto i piedi a questa “postura” disciplinare.
Vediamo, brevemente, alcune tappe della demolizione di tale fondamento della pianificazione urbanistica di segno “progressista” e quindi dell’assetto democratico del nostro mestiere, che sempre più dimentica il suo statuto sociale:
– DdL “Principi in materia di governo del territorio” detto DdL Lupi (approvato alla Camera dei Deputati il 28 giugno 2005). Scrivevano, in un pamphlet pubblicato nell’occasione, Alberto Magnaghi e Anna Marson: «La nuova legge prevede l’eliminazione degli standard urbanistici minimi finora vigenti, affidando la garanzia della “dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici” (art. 7, comma 1) a “criteri prestazionali” non ulteriormente specificati, in relazione a un “livello minimo dell’offerta dei servizi” non meglio definito […]. L’unico punto specificato è la possibilità che i servizi pubblici vengano garantiti anche con il concorso dei soggetti privati, mentre la definizione dei criteri del dimensionamento è affidata alle singole regioni»[14];
– la legge di attuazione (L 98/2013) del cosiddetto “decreto del fare” (L 69/2013), che va a modificare il Testo unico dell’edilizia (L 380/2001) a cui è aggiunto l’art. 2-bis (Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati): «1. Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali»;
– la bozza di riforma della legge urbanistica a firma del ministro Maurizio Lupi (2014), mai approdata in Parlamento a causa di uno scandalo che coinvolse l’estensore del progetto legislativo;
– il disegno di legge regionale «sulla tutela e l’uso del territorio»[15] dell’Emilia Romagna, approvato in Giunta nel febbraio 2017, che introduce gli standard “differenziati”. Un ossimoro: standard è una norma, un modello uniforme di riferimento; differenziato significa «distinto a seguito di una funzionale discriminazione» (Devoto Oli). Il DdL ER dispone una raffica di deroghe per molteplici casi e categorie di intervento; prevede diffusamente la monetizzazione degli standard e persino il loro azzeramento. Richiamo la vostra attenzione su questo punto: all’art. 9 del DdL è sancito che nei settori urbani caratterizzati «da un’elevata accessibilità sostenibile», il PUG (Piano Urbanistico Generale) può disciplinare la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana che «escludano o riducano» l’utilizzo delle autovetture private e che saranno perciò «esentati dall’obbligo del reperimento di spazi per parcheggi pubblici e pertinenziali». È sufficiente che le convezioni che normano l’accordo riportino l’assunzione dell’«impegno [da parte] dell’operatore e dei suoi aventi causa a rispettare le limitazioni all’uso di autovetture» (art. 9, comma 1, lett. e). Insomma: se il costruttore promette che non ci saranno automobili, non c’è più bisogno dei parcheggi! Basta la parola.
Alternative in atto e in potenza
Credo che gli spazi pubblici possano (debbano?) avere, oggi, una parte importante nella costruzione di una società inclusiva.
La delibera per l’ex Filangieri a Napoli è una possibilità concreta, da estendere alle altre città italiane. La delibera fa leva sulla categoria giuridica di “bene comune” e riconosce ad alcune esperienze di riappropriazione in autogestione di edifici dismessi il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico», e come tali le ritiene strategiche.
È una soluzione che non risolve il difetto di fondo, ossia che, nel caso specifico, il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico» si fonda su atti di volontà non retribuiti, di singoli o di soggetti collettivi informali che forniscono in autonomia servizi di “welfare dal basso”. Tuttavia la delibera, formalizzando legalmente attività sociali e di servizio all’abitare in essere, porta alla luce e sancisce la necessità dell’esistenza stessa di pratiche di vita aggregata ulteriori rispetto alle attuali, evidentemente insufficienti.
Nel quadro attuale, la soluzione napoletana costituisce una boccata d’ossigeno. Sulla quale sarebbe necessario elaborare una strategia valida per l’intera penisola.
La colossale operazione di svendita del patrimonio pubblico in atto rischia di vanificare un’importante occasione per dar vita ad alternative d’uso risolutive dei mali che affliggono le città, occasione che proprio la consistenza (quantitativa e qualitativa) di tale patrimonio fornirebbe. Com’è noto, nelle alienazioni giocano un ruolo di primo piano, da una parte l’Agenzia del Demanio ridotta a società per azioni, dall’altra una Cassa Depositi e Prestiti privatizzata, nonché le relative agenzie che pongono in vendita i beni pubblici con «modalità organizzative e strumenti operativi di tipo privatistico»[16]. La natura puramente economica degli attori e delle scelte distrae l’attenzione dalla natura viceversa schiettamente urbana delle ricadute della colossale mercantilizzazione in cui le città sono coinvolte.
Le ricadute mutilano il progetto urbano e urbanistico, poiché sottraggono agli urbanisti, e alle comunità, il fondamento materiale del progetto: proprio quei “contenitori” che giocherebbero un ruolo fondativo nella riconfigurazione dell’habitat urbano.
Gli edifici in vendita hanno infatti – nella grande maggioranza – una posizione centrale o sono situati nella città consolidata, hanno spesso qualità monumentali e rappresenterebbero perciò una risorsa importante per restituire all’uso della cittadinanza gli edifici che sono stati luogo del potere e dei soprusi: il palazzo, la caserma, il carcere, il manicomio.
Restituire disponibilità e funzioni collettive ai contenitori intra moenia evita l’espansione e la dispersione nelle campagne, contribuisce realmente a bloccare il consumo di suolo. Contribuisce infine a restituire ai quartieri centrali quel carattere di promiscuità d’usi, che è il primo presidio contro la mercificazione e la desertificazione degli spazi urbani.
Note al testo
[1] Simone Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Paris, 1949 (trad. it. La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, SE, Milano, 1990, p. 41).
[2] Ivi, p. 24.
[3] Così nell’interpretazione di Ottavio Marzocca, Il mondo comune. Dalla virtualità alla cura, manifestolibri, Roma, 2015, p. 43.
[4] Cfr. ivi, p. 42.
[5] Françoise Choay, Il disastro è l’amnesia, intervista a cura di Lionel Devlinger, “Aión”, 3, 2003, p. 17.
[6] Françoise Choay, Il De re aedificatoria e l’istituzionalizzazione della società ovvero: lezioni da una traduzione, in Ead., Del destino della città, a cura di Alberto Magnaghi, Alinea, Firenze, 2008, p. 73 (ed. orig. Le De re aedificatoria et l’institutionnalisation de la société, in Ead., Pour une anthropologie de l’espace, Seuil, Paris, 2006, pp. 374-401).
[7] Françoise Choay, Presentando “Del destino della città”, in Daniele Vannetiello (a cura di), Dove va l’urbanistica?, Aión, Firenze, 2011, p. 89.
[8] Ivi, p. 89.
[9] Su questo tema si veda anche: Maria Concetta Sala (a cura di), Abitare la vita, abitare la storia. A proposito di Simone Weil, Marietti 1820, Genova, 2010.
[10] Choay, Il disastro è l’amnesia cit., p. 22.
[11] Choay, Del destino della città cit., p. 73.
[12] Scrive Edoardo Salzano nelle sue Memorie di un urbanista (Corte del Fontego, Venezia, 2010, p. 53): «Nella lunga elaborazione tecnica, Mario Ghio presentava complessi documenti e griglie di parametri da assumere per la determinazione delle quantità e delle qualità degli spazi da vincolare. […] Ghio costruiva e presentava complessi sistemi di calcolo e progettazione, ma le ragioni dell’amministrazione spinsero a fortissime semplificazioni» (ma cfr. anche Vezio De Lucia, Le mie città, Diabasis, Reggio Emilia, 2010: al Ministero di Porta Pia «continuammo per lunghe settimane a elaborare abachi e quadri sinottici complicatissimi», p. 16).
[13] Ossia, «aree ambientali omogenee» definite attraverso l’individuazione di distinzioni già esistenti e naturali e cioè ricercandone una autodeterminazione. Tali «ambienti di vita» vengono assunti come base di intervento dettagliato, come unità in cui sia reso possibile soddisfare tutti gli standard ottimali, con particolare attenzione alla vita associata. Cfr. Pier Luigi Cervellati, Roberto Scannavini (a cura di), Bologna. Politica e metodologia del restauro, il Mulino, Bologna, 1973.
[14] Un territorio da lupi. Un commento alla nuova legge urbanistica nazionale e alcune proposte alternative, in Maria Cristina Gibelli (a cura di), La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge “Principi in materia di governo del territorio” (approvato alla Camera dei Deputati il 28 giugno 2005), Alinea, Firenze, 2005, p. 59.
[15] Cfr. <https://demetra.regione.emilia-romagna.it/al/articolo?urn=er:assemblealegislativa:progettodilegge:2017;4223>; cfr. inoltre, il libro collettivo di analisi del progetto di legge, a cura della scrivente: Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna, Pendragon, Bologna, 2017, con prefazione di Tomaso Montanari.
[16] Si veda: <https://www.organidellostato.it/jsp/consultazioneLiv2.jsp?idOrgano=20>
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