Le ipocrisie della modernità. Commento al libro di Della Pergola
di Giancarlo CONSONNI, da “Casa della Cultura“, 23 novembre 2018
Pubblichiamo il commento a: Giuliano Della Pergola, La società ipocrita, Solfanelli, Chieti 2018.
Il titolo è accattivante, di primo acchito appropriato a un pamphlet. «Ma questo – sento già l’obiezione – è un libro di 326 pagine, tutt’altro che un libello!». Mettiamola così: i 26 capitoli che lo compongono sono di fatto altrettanti libelli: autonomi, anche se abbastanza coerenti per impostazione, contenuti e stile espositivo. Quasi tutti hanno del pamphlet la spigliatezza, la scelta di un bersaglio, la capacità di andare a segno e l’invettiva. Siamo dunque di fronte a una raccolta di libelli; o, se si preferisce, a un pamphlet a grappolo, pensato per esplodere in successione come in un gioco pirotecnico.
Nell’insieme il libro si muove nell’ambito della critica della società. Che non coincide con la critica sociologica (per evocare il titolo[1] del fortunato trimestrale diretto da oltre mezzo secolo da Franco Ferrarotti); nel senso che, senza rinunciare al suo bagaglio di sociologo, Giuliano Della Pergola si muove nei campi più vari come cittadino prima ancora che come depositario di un sapere specifico.
Per questo il titolo avrebbe potuto essere un altro.
Per esempio, La società disfatta (titolo forse troppo ricalcato sul bel libro di Michele Sernini[2] del 1988 e che potrebbe lasciare il posto a La società squagliata, per rimarcare come si sta evolvendo la società liquida di Zygmunt Bauman[3]: un disfacimento che si misura in primis sul fronte della «qualità del vivere associato», p. 198).
O anche La società immemore (Della Pergola osserva come, per effetto dei nuovi mezzi tecnologici, stia venendo avanti in modo esponenzialmente un esautoramento della memoria individuale e collettiva e come questo abbia tra le conseguenze «perdita», «smarrimento», «dimenticanza ed evasione», p. 173. Processi che sono ormai penetrati nelle pratiche di trasformazione del mondo, con il rigetto di ogni coerenza con il contesto storico-geografico da parte di molta architettura contemporanea – pp. 82-90 –, con il plauso, aggiungo io, della critica ossequiante).
O ancora La società incolta (su questo nel volume si spalancano praterie: sguaiataggini, sciatterie, «l’acriticità e il conformismo di massa», p. 127; il dilagare del cattivo gusto e del kitsch, p. 146; «la trasformazione linguistica» come «segno di una catastrofe morale, di una crisi identitaria collettiva», p. 137).
Ma, sempre alla luce dei contenuti dei “libelli”, non sarebbero fuori luogo titoli come Le nuove servitù, Le solitudini in rete, Il consumo distruttivo, La barbarie tra noi. E, infine, se si volesse un tocco d’ironia (per la verità poco presente nel libro): Da poveri ma belli a ricchi ma brutti.
Non sono in preda a un delirio da editor. Sto solo cercando di indicare l’ampiezza dei temi affrontati nel volume. E, anche, motivare la mia riserva sul titolo scelto dall’autore, ma soprattutto su alcune delle argomentazioni che lo sorreggono.
Impossibile negare che siamo in una società ipocrita. Ma, chiedo: è esistita nella storia umana una società non ipocrita? L’ipocrisia, mi pare, è l’altra faccia della medaglia dello stabilirsi di regole e leggi che disciplinano e rendono possibile la convivenza civile. Ogni consorzio umano, così come ha storicamente definito sue proprie regole per la convivenza, ha parimenti configurato le modalità per eluderle: dai compromessi alle pratiche per avvalorare comportamenti che, a qualsiasi latitudine, non escono dalla formula vizi privati, pubbliche virtù. Semmai andrebbero esplorati i modi specifici di generarsi dell’ipocrisia, contesto per contesto, componente sociale per componente sociale.
Per limitarci alla società contemporanea, c’è una falsificazione di fondo a cui è ricollegabile molta dell’ipocrisia in circolazione: l’assunto secondo cui la proprietà privata è un diritto incondizionato: un principio portato in auge dal capitalismo e prontamente recepito nel Codice Napoleonico entrato in vigore nel 1805. Su questo assunto – e sulle pratiche che lo avvaloravano – si è irruentemente affermata sulla scena della storia un’idea di libertà anch’essa intesa come prerogativa assoluta: la libertà, assegnata in primis all’iniziativa privata capitalistica, di fare e di disfare il mondo. Si è infatti venuta affermando non solo la libertà di intraprendere iniziative economiche ma anche e soprattutto la pretesa di una libertà sciolta da ogni vincolo e da ogni obbligo, compresi vincoli e obblighi che gli individui per millenni si sono dati per rendere possibile la convivenza civile e il suo rinnovarsi.
Una simile idea ha potuto affermarsi grazie a una crescita senza precedenti delle risorse per il vivere che ha interessato anche i meno abbienti: una novità tanto dirompente da fare velo sulle molte contropartite negative (sfruttamento, squilibri, sradicamenti, dilapidazione di risorse naturali ecc. ecc.).
Ed ecco l’ipocrisia in auge da più di due secoli: profitto e rendita hanno potuto plasmare i quadri di vita delle popolazioni grazie al nascondimento dei reali flussi di dare e avere fra i bilanci aziendali e il complessivo bilancio sociale. Una situazione tanto estesa e accettata da essere di fatto incorporata nel patto sociale, non scritto ma operante. Due fatti in particolare sono rimasti a lungo in ombra: il consumo privato di risorse collettive (drammatico quello di risorse non rinnovabili) e l’avvantaggiarsi da parte dei privati di economie esterne frutto di investimenti pubblici. Si tratta di elementi diventati di evidenza palmare e portati nell’agone politico solo da pochi decenni. Anche se il rimedio dei guasti e il recupero di quanto indebitamente sottratto al bilancio sociale, quando si verificano, sono quasi sempre inadeguati.
Tornando al titolo, il termine ipocrita è impiegato da Giuliano Della Pergola con riferimento allo scarto che in Italia si è venuto creando fra la Costituzione repubblicana e il Paese reale. Un fatto innegabile, che ha inciso pesantemente su molti aspetti centrali della vita associata, a cominciare dal degrado del paesaggio su cui il libro presta particolare attenzione.
Se le conseguenze di questo scarto plateale appaiono oggi immani, la divaricazione fra il dettato costituzionale e le regole e le pratiche (tanto private che pubbliche) si è determinata ben presto. E per precise ragioni storiche. Venendo all’essenziale, la partita si è giocata in due tempi: dapprima la concessione della Costituzione, poi il suo rapido e progressivo svuotamento. Mi faccio aiutare, anche per essere sintetico, da due grandi giuristi: Antonio Amorth e Piero Calamandrei.
Sul primo tempo, nel 1948, a Costituzione appena entrata in vigore, Amorth (che aveva assistito Giuseppe Dossetti impegnato nella Consulta Nazionale) scriveva:
per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa[4].
Sette anni dopo Piero Calamandrei confermava una simile ricostruzione:
I grandi partiti che si trovarono d’accordo nelle formule verbali della Costituzione, non poterono fare a meno, nel prospettarsi gli svolgimenti futuri del programma di riforme incluso in essa, di prevedere che le sorti di quel programma sarebbero derivate in realtà, più che dalla forza meramente esortativa di quelle formule, dalle effettive forze politiche che sarebbero riuscite a prevalere nel futuro parlamento […][5].
Come a dire: la partita vera, senza esclusione di colpi, si è giocata all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione.
Si sa come è andata a finire: tra le forze politiche che erano per l’attuazione dei principi costituzionali e quelle che puntavano a relegarli sulla carta, hanno prevalso queste ultime. Su questo esito ha pesato il fatto che la contesa non si è svolta ad armi pari: le forze conservatrici poterono contare sulla «continuità giuridica dello Stato»[6], nodo che il vento della Liberazione non aveva sciolto. È così
accaduto […] che in questi anni si è venuta lentamente creando attraverso un lavoro di restaurazione dei vecchi ordinamenti, un regime del tutto diverso da quello scritto nella Costituzione, dalla quale il governo di fatto si è andato ogni giorno allontanando[7].
In tal modo, già nel 1955, risultavano vanificati i «caratteri essenziali» della splendida Costituzione repubblicana: «la democrazia, intesa come inscindibile dialettica di libertà e di giustizia sociale, ed il lavoro, equamente remunerato (art. 34) ed effettivamente garantito a tutti i cittadini (art. 4), come mezzo per attuarla»[8].
Non solo: la disfatta delle speranze affidate alla Costituzione era ancora più estesa. L’architettura costituzionale, come è noto, era resa ancor più coerente e potenzialmente efficace dagli articoli 41 e 42, pensati per incidere proprio sulle prerogative della proprietà privata, di cui si diceva in precedenza: l’articolo 41 affermando che «L’iniziativa economica privata […] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; l’articolo 42 asserendo che «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Siamo al punto più alto e rivoluzionario della carta costituzionale: quei due articoli smascheravano finalmente l’ipocrisia che ha in pugno la società contemporanea. Per questo, in tutta evidenza, sono rimasti lettera morta. Per questo è più cocente la sconfitta.
Ma veniamo al punto da cui Della Pergola fa derivare il titolo del libro: lo scarto fra il dettato costituzionale e la devastazione che ha interessato, in questi settant’anni, il quadro ambientale sotto tutti i punti di vista, aspetti paesaggistici compresi.
Sullo scarto non ci piove. Ma se pensiamo all’art. 9 della Costituzione e al Paese reale come ai due piatti di una bilancia, gli elementi negativi non li troviamo solo da una parte. Diversamente dalla gran parte degli articoli e dalla Carta nel suo insieme, l’affermazione secondo cui la Repubblica «Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», risulta assai debole e poco calibrata. Per due ragioni.
La prima: la Costituzione tace sulla necessità di difendere le città e di promuovere i valori urbani (intesi come fatti attivi tanto nella tutela degli insediamenti esistenti quanto nella configurazione dei nuovi). La mancanza appare in tutta la sua gravità alla luce dell’attacco distruttivo senza precedenti che la guerra appena conclusa aveva portato alle città; ma anche alla luce delle devastazioni prodotte dal piccone demolitore fascista, sulla cui complessiva portata sociale le analisi e le valutazioni delle stesse forze protagoniste della Resistenza registravano un grave ritardo (con conseguenze negative che si faranno subito sentire nella Ricostruzione).
Veniamo alla seconda ragione. Per cominciare, l’art. 9 faceva addirittura un passo indietro rispetto alla Legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali) che quantomeno a proposito di bellezza dei paesaggi riconosceva la necessità di tutelare anche i valori d’assieme, oltre che i singoli manufatti. Ma tanto la legge del 1939 quanto la Costituzione repubblicana, nel riferirsi al paesaggio, rispondevano a un principio estetico svuotato delle due valenze sulla lunga durata costitutive dei paesaggi umanizzati (a cui era intimamente legata anche la loro bellezza): la valenza civile, ovvero l’essere la configurazione dei paesaggi consustanziale a un’idea operante di abitare ispirata a principi di convivenza civile, e la valenza produttiva e riproduttiva, ovvero l’essere i paesaggi plasmati, per una parte considerevole, da un lavoro agricolo che in Italia, ancora nel 1948, sia pure con smagliature evidenti per l’impiego di concimi chimici e l’avanzare della monocoltura, forniva un contributo straordinario alla manutenzione e al rinnovamento delle capacità riproduttive della terra e della sua funzione nutritiva.
Il paesaggio a cui fa cenno la Costituzione è invece, di fatto, ridotto a mero valore percettivo, da preservare per i cittadini fruitori (verrebbe da dire consumatori passivi, su cui peraltro Della Pergola, con riferimento alle cosiddette città d’arte, ha pagine di fuoco). Una simile impostazione affidava implicitamente l’azione di tutela esclusivamente a operazioni vincolistiche, destinate a essere travolte, come i fatti hanno puntualmente dimostrato.
La tutela dei paesaggi non può che scaturire da pratiche di fondazione, manutenzione e rinnovamento dell’habitat condotte all’insegna della cura. Se si vogliono “tutelare” i paesaggi, vanno riconosciute, preservate e sostenute queste pratiche, compresa la loro valenza di dono da una generazione all’altra. Ma su questo la Costituzione tace.
Come si spiega? Con tutta probabilità, i padri costituenti guardavano all’agricoltura come un ambito di povertà da cui emanciparsi e non come a una attività fondamentale da sostenere perché continuasse a svolgere, assieme alla essenziale funzione nutritiva, la sua azione plurimillenaria di costruzione e tutela dell’ambiente umanizzato.
In questo atteggiamento pesava anche un ritardo tanto della cultura italiana nel suo insieme quanto della ricerca storica (che in Italia registrava la mancanza di indagini sul paesaggio agrario come quelle messe a punto dalla scuola delle Annales). Il ritardo, si sa, è stato poi in parte colmato grazie al lavoro pionieristico di Emilio Sereni, a cui sono seguiti gli studi di Lucio Gambi e dei suoi allievi e, più vicini a noi nel tempo, di Eugenio Turri, Massimo Quaini e Piero Bevilacqua (per rimanere ai nomi da cui sono venuti i contributi più significativi). I limiti culturali si fecero sentire tanto nella legge n. 1497 del 1939 quanto nella Costituzione repubblicana in cui finì per prevalere un approccio mediato dalla storia dell’arte (della pittura in particolare), per nulla disprezzabile ma che lasciava in ombra il nesso fra i processi strutturali e le configurazioni complessive dei paesaggi, bellezza compresa.
C’è, infine, un punto di grande valenza interpretativa enunciato da Emilio Sereni nella sua Storia del paesaggio agrario italiano, laddove invitava a considerare il paesaggio non come «un semplice dato o fatto storico […] bensì un fare, un farsi di quelle genti vive»[9]. In altre parole Sereni richiamava l’attenzione sul fatto che, nel trasformare il mondo, gli individui, i gruppi e la società nel suo insieme trasformano loro stessi.
Siamo a un altro nodo sostanziale. La modernità non inizia né con la scoperta dell’America, né con la rivoluzione industriale né con la Rivoluzione francese, ma ha la sua matrice e cifra distintiva nella separazione fra homo faber e mondo, che si afferma nel Rinascimento e trova ulteriore sanzione teorica nella separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa. È questa l’ideologia operante in cui siamo immersi.
Pe questo la modernità non può dirsi conclusa con i vasti processi di deindustrializzazione che hanno interessato l’Occidente negli ultimi quarant’anni. È vero che anche a causa di questi processi sono intervenuti cambiamenti profondi ed estesi, fino al disunirsi della compagine sociale e che questo ha tutti i connotati di una rottura radicale. Ma il cambiamento che porrà fine alla modernità verrà solo quando cadrà l’ipocrisia che assegna all’azione umana sul mondo una valenza di sola andata e si farà avanti una consapevolezza condivisa che riconosca che l’uomo e la società tutta patiscono le cose. E che, dunque, l’azione di trasformazione del mondo deve rispondere ed essere guidata da una visione responsabile sul destino dell’umanità.
Note al testo
[1] «La Critica Sociologica» è stata fondata da Ferrarotti nel 1967 ed è ancora in piena attività.
[2] M. Sernini, La città disfatta, FrancoAngeli, Milano 1988.
[3] Z. Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge 2000, trad. it., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.
[4] A. Amorth, La Costituzione italiana, Giuffrè, Milano 1948, p. 10.
[5] P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, in Aa. Vv., Dieci anni dopo 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Laterza, Bari 1955, p. 216.
[6] Ivi, p. 222.
[7] Ivi, p. 277. Il corsivo è dell’autore.
[8] Ivi, p. 219.
[9] E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961, p. 19. Va osservato che il libro era già ultimato nel 1955.
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