La deterritorializzazione di stampo mafioso
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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La deterritorializzazione di stampo mafioso

di Alberto ZIPARO* –

1. Un filone di ricerca di frontiera?

1.1 La recente ripresa di interesse sul campo elaborativo “particolare” costituito dalla penetrazione e dai condizionamenti della criminalità organizzata su politiche e pratiche urbanistiche e territoriali si può collegare certo agli studi diversificati che stanno osservando le crescenti distorsioni dei processi di governance della cosa pubblica (Gallino, 2012; Bevilacqua, Agostini, 2016; Barbieri, Giavazzi, 2014). Tra gli effetti spaziali, possono annoverarsi i frequenti episodi di corruzione che stanno caratterizzando la gestione di progetti e programmi territoriali, specie nel nostro paese. Non solo per quanto riguarda i continui scandali che investono e stravolgono il comparto delle grandi opere, ma più in generale per le contraddittorie problematicità che segnano molte attività di trasformazione dell’uso dello spazio.

Tutto ciò può significare un sostanziale fallimento di azioni e strategie tipiche della fase precedente di “urbanistica concertata”, contrassegnata spesso dalla presenza di piani tanto “straordinari e complessi” quanto sovente “singolari ed anomali”. Ciò che può evidenziarsi non solo dagli effetti ambientali, in termini di consumo di suolo, distruzione di paesaggio, inquinamenti crescenti, perdita di funzioni territoriali essenziali, e da quelli economico-finanziari, per spreco di risorse e indebitamenti fino al default dei soggetti gestori; ma anche dalla presenza pressoché costante, di fenomeni di corruttela.

Altre discipline, dalla sociologia agli studi giuridici e politici, hanno evidenziato come elemento distintivo (Barbieri, Giavazzi, cit.; Sciarrone, 2009; Mattei, 2013) assai frequente nella distorsione della governance la presenza di criminalità organizzata, mafia ‘ndrangheta o camorra a seconda delle diverse realtà regionali italiane. Si tende sovente a “esasperare le semplificazioni” delle procedure di gestione, fino all’illegittimità e appunto all’illegalità, segnate da rilevanti processi di corruzione, ma spesso concertati con quegli interessi “speculativi speciali” rappresentati dalle soggettività citate.

1.2 La problematicità delle vicende urbanistiche della fase ha contribuito a rilanciare oggi le concezioni più legate alle dimensioni “etiche e valoriali” dell’urbanistica (Magnaghi, 2010; Berdini, 2011; Salzano, 2003), che sembravano di recente riposte sullo sfondo dalle capacità pragmatiche della governance. L’affermarsi di concetti quali “pianificar facendo” o “piano come trading zone” delegittimava fino al sospetto di ideologismo il tecnico legato ai valori del territorio. Oggi le evidenti difficoltà del campo richiedono un “passaggio di fase” o come si diceva un tempo un “cambio di paradigma”: nuovi approcci, contenuti, linguaggi. Con la difficoltà ulteriore dell’accentuarsi di un certo ritardo istituzionale, che ne esaspera gli aspetti critici; specie nel cogliere limiti e contraddizioni di approcci e prospezioni affermatesi nel passato recente, e quindi nella capacità di individuare i momenti per una svolta (Magnaghi, cit.; Bevilacqua, 2011).

Peraltro non sono solo l’analisi di campo e le dialettiche disciplinari a favorire l’elaborazione sulla “deterritorializzazione di stampo mafioso”; anche vicende che hanno contrassegnato le pratiche professionali dell’urbanistica spingono in tale direzione. I problemi di tecnici operanti nelle zone storicamente “ad alta densità criminale”, come quelli di coloro che esercitano nelle aree – anche settentrionali – di penetrazione più recente, sono passati dalla cronaca giudiziaria alla pubblicistica specifica (De Leo, 2015). Qualche tempo fa il caso di Marina Marino, professionista di consolidata expertise nella “bonifica” e nell’amministrazione di enti territoriali a forte rischio di presenza criminale – o addirittura di comuni sciolti per mafia –, ha scosso tra gli altri, una parte della comunità disciplinare (Cornago, 2014) e favorito ulteriore allargamento ed approfondimento del lavoro su tale terreno.

1.3 Oggi questo filone elaborativo presenta intenso fermento: ricerche tipiche di sede si coordinano fino a formare Osservatori di livello nazionale. La pubblicistica disciplinare dedica crescente spazio al tema. I dottorati – oltre che le tesi di laurea – che continuano ad essere sensori delle traiettorie innovative della ricerca, dedicano attenzione ad esso. Peraltro, seppure con molta discontinuità e spesso senza la necessaria tensione, la questione dei condizionamenti della criminalità organizzata rispetto alle pratiche è presente nell’elaborazione urbanistica da più di una trentina d’anni. Certo, fino al recente passato, essa non ha rappresentato un tema “individuato e dichiarato”, quanto piuttosto la ricaduta, pure rilevante, di istanze analitico-programmatiche tese alla lettura ed all’azione su problematiche specifiche; che caratterizzavano nelle diverse fasi parti del territorio nazionale: abusivismo, consumo di suolo, infrastrutture, gestione dei rifiuti; o percorsi di indagine su comparti e categorie sostantivi per l’assetto, come le grandi opere, le ricostruzioni post disastri sismici o idrogeologici, i grandi progetti turistici, i centri commerciali, le attrezzature speciali (Sberna, Vannucci, 2014).

1.4 Nell’articolo si tenta un prospetto di geografia della “deterritorializzazione di stampo mafioso”, incrociando tre traiettorie evolutive, cronologica, spaziale e tematica. La storicizzazione di quest’ultima permette forse di rischiarare anche le altre.

Le prime tracce di presenza criminale si registrano oltre trent’anni fa nell’ambito di ricerche che osservano “l’edilizia spontanea” che degenera in abusivismo, un fenomeno dapprima tipicamente meridionale, ma presto colto come rilevante, oltre che nelle tre regioni ad alta densità criminale, in altre parti del paese, per esempio Roma (Fera, Ginatempo, 1985; Costantino, 2001).

Nel corso degli anni ottanta, il crescente interesse per l’impatto ambientale di grandi attrezzature ed infrastrutture, di trasporto, energetiche, di gestione dei rifiuti, permette di scoprire il ruolo costante e crescente fino alla dominanza, della criminalità organizzata (Arlacchi, 1983; Piselli, Arrighi, 1985; Sciarrone, 2009), che si era già vista all’opera nella costruzione post-sismica del Belice, ed emerge, più nettamente nel caso dell’Irpinia. Le Colombiadi, i Mondiali del ’90, le grandi opere di fine Prima Repubblica, favoriscono gli incroci tra “Tangentopoli e Mafiopoli” (Arlacchi, cit.; Bocca, 1992). Talora queste costituiscono occasioni di nuove colonizzazioni criminali di territori che prima non avevano mai conosciuto tali fenomeni, o quasi (Giorgio Bocca, cit., oltre ad Arlacchi, ricorda come il rapimento di Paul Getty negli anni ’70 servì ad assicurare alla ‘ndrangheta di Gioia Tauro le risorse utili a pagare a Fiat Iveco i camion con cui si sarebbero eseguiti i primi movimenti di terra per il costruendo porto industriale. In seguito a quell’affare la famiglia dei Mazzaferro, collegata alle cosche della piana di Gioia Tauro, subappaltava i lavori dell’ampliamento del villaggio-Juventus a Villar Perosa, “aprendo” così le attività in Piemonte).

Ma l’affermarsi dell’emergenza rifiuti, insieme alla sostanziale dominanza del settore dell’escavazione, sul finire del secolo, illumina la capacità mafiosa di controllo su intere filiere, fino all’intero ciclo, dall’accaparramento dei terreni, alle fasi di raccolta e movimentazione, alla posa in discarica e alla sua gestione, o all’incenerimento. La retorica di Gomorra (Sales, 2014).

Ma altri grandi eventi e attrezzature permettono, qualche tempo dopo, la “diffusione nazionale” di mafia ‘ndrangheta e camorra: in primis l’alta velocità, ma anche l’aumento dei grandi centri commerciali e dei distretti turistico- commerciali. Ambiti che permettono tra l’altro alla criminalità di controllare anche l’intero ciclo del cemento in contesti centro-settentrionali, come già avveniva in molte aree del sud. Le opere della Legge Obiettivo negli anni più recenti sono state contrassegnate da scandali a forte intensità di corruzione e criminalità (Barbieri, Giavazzi, cit.; Imposimato, 1999).

La crisi economico-finanziaria, con i limiti alla spesa pubblica, ha clamorosamente ampliato le possibilità di manovra della criminalità: spesso soggetto prioritario, se non unico, a disporre della liquidità necessaria a sostituire la precedente capacità di spesa pubblica. Il crescente ricorso al project financing, per esempio, è stato un altro mezzo di grande penetrazione della criminalità nell’economia dei territori, specie settentrionali. Siamo all’attualità, con la criminalità diffusa su tutto il territorio nazionale (Galullo, 2015).

 

2. La crescita del controllo criminale del territorio: settori e fasi

2.1 Una certa propensione al controllo spaziale, da parte della mafia, delle comunità di riferimento può farsi risalire ai caratteri di nascita del fenomeno, nonché alle strutture sociali dei territori meridionali, siciliani, calabresi e campani, in cui si è originata. La “trasformazione” dei mazzieri al servizio dell’aristocrazia terriera in “capobastone” e poi in “guardiani” del latifondo, produttivo o meno che fosse, conteneva già il senso di un controllo “areale” del territorio, che – fino agli anni sessanta – si fermava ai limiti dei centri urbani maggiori. In qulli piccoli infatti giocava un ruolo decisivo il ribaltamento del rapporto capobanda-notabile, in cui il secondo diveniva via via subalterno, favorendo il “padrinato” del primo sull’intera comunità (Lupo, 2008; Piselli, Arrighi, cit.). Al tempo il clan di appartenenza era necessariamente limitato e, se esercitava un controllo efficace sul contesto locale, si presentava in generale come una struttura molto debole, sia socialmente che “militarmente”, alimentata infatti soltanto dall’accaparramento di parte del reddito agricolo locale in genere modesto.

La crescita economica più sensibile dei clan criminali nella fase avviene – secondo Arlacchi – qualche tempo dopo, allorché le politiche merdionalistiche e l’intervento straordinario iniziano a spostare ingenti quote di capitale, non solo fisso, verso le regioni meridionali. Pino Arlacchi individua nella realizzazione dell’autostrada – più la Salerno-Reggio Calabria che la Milano-Napoli – il più grande veicolo di distribuzione di risorse anche a favore della criminalità. Al tempo la Stato possedeva caratteristiche e organizzazione per “sbaragliare” mafia e ‘ndrangheta sul piano “militare”; ma decideva di trattare – o usare – con le bande criminali per garantire controllo e consenso sociale ed elettorale (idem): una svolta decisiva.

2.2 Arlacchi nota come la strutturazione economica delle bande criminali ne favorisca la crescita, la proliferazione, la strutturazione sociale e militare che porterà al controllo di contesti territoriali sempre più vasti. Nel comparto relativo alla costruzione di infrastrutture, dapprima soprattutto grandi e poi via via più piccole, si trova uno dei motivi della crescita spaziale della mafia in quel periodo: dalle guardianie si passa ai movimenti di terra più semplici, e quindi si acquisisce la capacità di controllar operazioni sempre più complesse, fino – in alcuni casi – all’intero ciclo del subappalto.

La mafia diviene “imprenditrice”. Il controllo di gran parte del ciclo di produzione del cemento aiuta la rapida penetrazione, fino al dominio pressoché totale – almeno in alcune regioni del Sud – in un altro comparto che caratterizza le trasformazioni territoriali del periodo: la crescita urbana, specie extranorma, ovvero abusiva (Arlacchi, cit.).

2.3 Francesco Rosi nel suo Le mani sulla città fornisce una magistrale lezione di urbanistica, un quadro delle relazioni tra evoluzione delle varie forme di rendita urbana e consumo di suolo; che va molto oltre il contesto spaziale e temporale di immediato riferimento – la Napoli dei primi anni sessanta – per prospettare interpretazioni valide per il territorio dapprima meridionale e quindi nazionale per il cinquantennio successivo.

In quello scenario emergono corruzione e speculazione politica ed economica, ma la camorra a un primo sguardo sembra restare sullo sfondo. Tuttavia – osservando attentamente – si può capire come il settore delle costruzioni ed il ciclo del cemento abbiano costituito settori chiavi per la crescita della “territorializzazione di stampo mafioso”.

Qualche anno dopo, Nella Ginatempo e Giuseppe Fera (Fera, Ginatempo, 1985) studiando i “fenomeni di autocostruzione spontanea” in Sicilia e Calabria si imbattono nel ruolo sostantivo, tendenzialmente dominante della criminalità organizzata.

Cosa era successo nei contesti meridionali? Per chi non era emigrato, i trasferimenti di capitale, variabile, sotto forma di ampliamento/consolidamento “fino alla crescita elefantiaca” di un certo terziario e della pubblica amministrazione, nonché per assistenza tout court e alle rimesse degli emigrati; insieme a quello fisso per infrastrutture, attrezzature territoriali, e quindi per la realizzazione dei grandi “poli” industriali di sviluppo, con i meccanismi di redistribuzione tipici di quello che Ugo Ascoli (1984) ha chiamato “welfare all’italiana”, avevano portato più che a processi di formazione di capitale d’investimento di una certa rilevanza, a miriadi di piccole accumulazioni diffuse (Indovina, 1976; Becchi Collidà, 2000), cercano opportuni settori d’investimento, che legati tra l’altro ai maggiori agi del “vivere e abitare urbano contemporaneo” ha nuove dinamiche legate – oltre che alle nuove domande abitative – a terziario e Pubblica Amministrazione, insieme al declino – talora vero e proprio crollo – del primario, porteranno a grandi tassi di urbanizzazione anche delle aree meridionali; successivi alle migrazioni verso il settentrione del periodo del “boom” e immediatamente seguente (Rapporto ITATEN, in Clementi, Dematteis, Palermo, 1996).

Paradossalmente, l’esito delle applicazioni del quadro normativo riformista, che ha interessato il settore urbanistico a cavallo tra fine anni sessanta e inizio settanta, dalla Legge Ponte a quella sulla Casa e alla concessione onerosa, con l’obbligo di gestire lo sviluppo urbano con il Piano Regolatore, al Sud ne favorisce l’evasione. Quadri tecnico-amministrativi abituati a gestire piccole trasformazioni con uno strumento “semplice” quale il vecchio Programma di Fabbricazione o a “tollerare una certa quota di edilizia spontanea”, non “riuscivano” a maneggiare infatti i nuovi strumenti. Senza entrare nel dibattito di quegli anni sull’intenzionalità o meno di un’eccessiva arrendevolezza – fino al disarmo – delle politiche e della gestione urbanistica nel periodo, è certo che l’esito ha significato abnormi fenomeni di crescita e trasformazione territoriale “fuori norma”, ovvero abusivi (Soriero, 1985; De Lucia, 1999). Le mafie costituivano il soggetto che si poneva quale “controllore e garante” di questa forma “speciale” di crescita urbana; essa si poneva infatti come elemento di “mediazione” rispetto alle politiche, permettendo l’accettazione “istituzionalizzata” dell’abusivismo.

D’altra parte il controllo – diretto o indiretto – delle imprese del settore permetteva alla criminalità di rispondere ad un’esigenza prioritaria della produzione edilizia abusiva: la possibilità di contenere, fino ad incredibili contrazioni, tempi e costi di produzione. Dinamiche che hanno segnato pesantemente la crescita delle città meridionali, favorendo altresì, “l’urbanizzazione di mafia e ‘ndrangheta” che dai piccoli centri di campagna, “entravano” nelle città anche medie e grandi di Sicilia, Calabria e Campania (idem).

2.4 Gli anni ottanta si aprono con un evento che marca decisamente il territorio nazionale – oltre che le comunità: il terremoto dell’Irpinia. Disastro gravissimo, con migliaia di morti, paesi distrutti in tutto o in parte; lo stravolgimento di un territorio. Disastro utile a chiarire definitivamente i fallimenti delle politiche “per il Mezzogiorno”: a fronte di migliaia di miliardi trasferiti al Sud, le aree interessate – più che altro “Osso” secondo Rossi Doria – presentano condizioni di vita e dell’abitare assai misere, per soggetti ancora dediti soprattutto ad un primario residuale. Per quel “Sud del Sud” costituito dalle zone interne dell’Irpinia si decide non solo una rapida ricostruzione, ma si programma – a tappe forzate – di promuovere anche quello sviluppo economico e industriale che in quelle aree era pressoché sconosciuto (De Lucia, cit.). Nei decreti speciali per l’Irpinia del periodo successivo si finanzia non solo la ricostruzione, ma la realizzazione di nuove attrezzature ed infrastrutture. Ancora si incentiva la nascita o la rilocalizzazione di imprese industriali. Guardando alla politica dei “grandi poli”, che presenta già grandi contraddizioni e tende ad assumere i contorni del “fallimento” che sarà raccontato da lì a qualche anno dalla pubblicistica, prima specifica e quindi divulgativa, si punta ad un modello di industrializzazione “più piccola e legata il più possibile alle risorse locali”.

Le articolazioni della strumentazione urbanistica (anch’essa non molto praticata fin lì in zona) avrebbero dovuto favorire oltre la ricostruzione lo sviluppo equilibrato e – come usava allora – “ecologicamente compatibile”.

A fronte di ulteriori trasferimenti di decine di miliardi verso Napoli e l’Irpinia – durante quasi tutto il corso del decennio – si può dire che l’obiettivo della ricostruzione – per certi versi ancora in corso – è stato in parte raggiunto. Laddove i tentativi di realizzare “infrastrutture e strutture per lo sviluppo” hanno portato a singolari “monumenti di un’archeologia dell’industrializzazione tentata”, con moltissime incompiute e tante attrezzature realizzate, ma mai utilizzate e presto abbandonate. Dalla prospettiva di osservazione delle note presenti, si può affermare che quegli eventi hanno costituito uno dei salti di qualità nell’ampliamento e nella formazione delle nuove mafie campane, le “nuove camorre”. L’emergenza, la necessità di “fare presto”, una propensione alla gestione clientelare dell’allora partito di maggioranza relativa, che coincideva a livello nazionale, regionale e locale, hanno favorito – oltre alla corruzione – l’allargamento e il consolidamento della criminalità. Che operava in modo duplice:da una parte intercettando – more solito – una serie di finanziamenti, con le tradizionali attività di guardiania e subappalto; dall’altra proponendo direttamente anche soggettività imprenditoriali per gestire parte delle attività allocate. Si può affermare che l’accaparramento di risorse pubbliche da parte della criminalità è stato nell’occasione talmente rilevante da consolidarne certamente il ruolo di “soggetto economico” locale, ma anche di favorirne la crescita in aree non direttamente interessate dagli investimenti post-sisma.

2.5 Nel periodo, l’altra occasione di crescita ed ampliamento delle mafie è stata rappresentata dalla nuova cascata di Grandi Opere, prevista dal Piano Energetico e poi dalle Colombiadi e dai Mondiali del 1990. Insieme alla “famosa” Legge 64/86 che pretendeva di rilanciare modelli di sviluppo che già erano in discussione, attraverso nuove fasi di realizzazione di attrezzature e “poli di sviluppo industriali e infrastrutturali” ribattezzati “attrezzature o piattaforme” per distretti industriali improbabili. Tutto ciò culminava alla fine del decennio in quel megascandalo – allargato a tutto il territorio nazionale – che svelava i meccanismi di corruzione e connessione che erano stati generati da provvedimenti quali quelli citati: la vicenda nota come “Tangentopoli”, che al Sud diventava spesso “Mafiopoli” (Bocca, cit.).

2.6 L’esplosione dello scandalo di “tangentopoli” accelerava e portava a compimento il declino del sistema di potere partitico-istituzionale che aveva guidato il sistema politico italiano sostanzialmente dalla fine della seconda guerra mondiale. Esso si basava e aveva sempre ruotato sulla centralità del partito di maggioranza relativa, cattolico, cui nell’ultimo decennio si era affiancato quasi stabilmente – oltre a partiti minori, tendenzialmente centristi – il partito socialista. Lo scandalo cancellava sostanzialmente questi partiti e favoriva l’avvento di un sistema maggioritario che si sarebbe sempre più basato su partiti del “leader”, in cui gruppi assai organici al proprio interno, guidati da un capo riconosciuto, dominano per intero gli assetti politico-istituzionali.

Il clamore e gli effetti dell’evento sul sistema politico potevano fare prevedere nuove fasi, contrassegnate da meccanismi efficaci di blocco e cancellazione degli aspetti degenerativi legati alla corruzione diffusa. Nuove domande dei territori richiedevano però ulteriori grandi istanze di trasformazione dello spazio. Attività che ben presto si rivelavano contaminate e quindi assumevano termini, analoghi ai precedenti, di distorsione della governance e penetrazione della criminalità organizzata.

2.7 Nel corso degli anni novanta, tra le attività di intervento sul territorio che intendevano rispondere a nuove emergenze sociali, espresse dai tanti e diversi contesti nazionali (ITATEN, 1996), emergono due settori che si connotano per la forte rilevanza di economia territoriale ed impatto ambientale: la gestione dei rifiuti e l’avvento dell’alta velocità ferroviaria, che apre una nuova stagione programmatica e operativa nella realizzazione di grandi opere.

Gli effetti della crescita economica ininterrotta registatasi tra gli anni cinquanta e gli ottanta – in Italia come in tutto l’Occidente, insieme a rilevanti livelli di innovazione tecnologica – hanno “modernizzato” il paese, mutato gli stili di vita, improntati ora ad un benessere anche “eccessivo”, che amplia moltissimo i consumi e pone i primi problemi di impatto ambientale dell’assetto. Tra gli effetti più rilevanti del “grande benessere” c’era infatti un’intensa produzione di rifiuti, che necessitavano di sistemi integrati di raccolta ed impianti di smaltimento di dimensioni anche rilevanti.

A metà degli anni novanta, un ambientalista, Edo Ronchi, veniva chiamato a reggere il Ministero dell’Ambiente, e presto approntava un provvedimento normativo quadro (D.L. 22/97) teso a riorganizzare il settore, mitigando o minimizzando il rilevante impatto ambientale che ne connotava le attività.

Al tempo la portata innovativa e la necessità di un disegno di programmazione e gestione fortemente improntato a riciclo e differenziazione erano solo intuite, ma ritenute scarsamente praticabili. Si puntava sull’impiantistica, sulla proliferazione ed ampliamento delle discariche nelle situazioni meno strutturate, e sull’incenerimento – poi ribattezzato “termovalorizzazione” – nelle realtà economicamente e tecnologicamente più attrezzate.

Nei rapporti Ecomafia di Legambiente si può leggere che proprio il Decreto Ronchi e la necessità di ristrutturare le attività di raccolta e smaltimento, rispettando però precisi dettati normativi, facevano scoprire che le moli di rifiuti prodotti erano già rilevanti da molto tempo pressoché in tutto il paese. Proprio l’assenza di direttive però aveva favorito fin lì attività di gestione degli stessi tendenzialmente elusiva o avulsa da quadri normativi, con forte tolleranza diffusa di attività, non solo non normate, ma spesso dichiaratamente abusive. Proprio per questo, specie nelle regioni ad alta intensità criminale, questa soggettività ne era divenuta attore principale. E si trovava così già “attrezzata e pronta” a gestire il nuovo ciclo previsto dal Decreto Ronchi. Esattamente quello che è avvenuto: mafia ‘ndrangheta e camorra sono diventate il primo e più rilevante gestore del ciclo, spesso integralmente, dalla raccolta all’individuazione e speculazione sulle aree, allo smaltimento in discarica e gestione delle stesse, alla realizzazione degli impianti di incenerimento, dove previsti (Rapporti Ecomafia, 2000 e segg.). Con una forte crescita di strutturazione economica e politica delle cosche, in grado di condizionare fortemente il sistema decisionale. Come, con un eccesso di retorica, forse dovuto ad un’utile intenzione di enfatizzazione rappresentativa, Roberto Saviano ha raccontato in Gomorra (2006).

2.8 L’alta velocità ferroviaria costituiva l’altra grande occasione di investimento nel periodo. Ancora un elemento di crisi ambientale – l’eccesso di traffico su gomma con relativi inquinamenti e congestioni – favoriva l’occasione per un’ulteriore evoluzione innovativa nell’uso dello spazio. Che si trasformava presto però nell’ennesima occasione di sperperi e debito pubblico.

Nel nostro paese l’operatore pubblico monopolista del settore, Ferrovie dello Stato, aveva già saggiamente deciso – anche per l’evento Tangentopoli – di favorire il passaggio dalla gomma al ferro, tramite opportuno “programma di velocizzazione” (Zambrini, 1991) che, a costi ragionevoli in una fase che iniziava a rendere evidente la fine dell’era di crescita economica dei “favolosi trenta” – con interventi mirati, a completamento di attrezzature e dotazioni infrastrutturali, introduceva le necessarie migliorie di innalzamento della velocità, abbassamento dei tempi di percorrenza e generale miglioramento della qualità del servizio. Tutta l’operazione, che prevedeva anche interventi per l’accessibilità per il trasporto urbano e metropolitano, doveva costare circa sei mila miliardi di lire, ovvero tre miliardi di euro.

Tale “saggia” opzione, che avrebbe migliorato e razionalizzato un settore, in cui erano cresciute fino a dominare un gruppo di grandi imprese, fu presto abbandonata. Le imprese in questione, che avevano già realizzato “l’esuberante” sistema autostradale italiano, con operazioni quasi mai attente al pareggio di bilancio, ma spesso realizzate a debito, gravando direttamente sulla spesa pubblica (Zambrini, 1993), puntavano adesso sulle costruzioni ferroviarie. Il paese “non poteva perdere le opportunità di sviluppo legate all’alta velocità ferroviaria”, ovviamente molto più vasta e soprattutto costosa del progetto di velocizzazione. Essa era già largamente in uso in Giappone, e avviata in Europa da Francia e Germania, tra l’altro con modelli tecnologici diversi.

Il programma di velocizzazione fu così accantonato definitivamente e sostituito dal più imponente “Piano per l’Alta Velocità Ferroviaria”. Esso però, invece di interessare tutte le aree del paese, avrebbe investito solo le aree a più forte domanda di lunga distanza (non interessava se questa costituiva meno di un decimo della domanda di mobilità complessiva nazionale): il territorio coinvolto era costituito dalla “T” disegnata dalla direttrice padana su cui si innesta la Milano-Roma-Napoli. Il progetto si sarebbe concentrato in realtà sugli assi Torino-Milano e Milano-Napoli; sarebbe costato “soltanto” il quadruplo rispetto all’abbandonata velocizzazione, 25 mila miliardi di lire, ovvero poco più di 12 miliardi di euro (oggi si è speso più di dieci volte tanto, oltre 125 miliardi di euro, e la realizzazione non è ancora conclusa!).

Per il tema che trattiamo qui, più che il modello tecnologico conta quello gestionale. Non veniva prescelto un modello europeo, ma quello americano. Con le fasi esecutive direttamente affidate alle imprese ed esattamente al contraente generale – raggruppamento o consorzio che aveva ottenuto l’appalto –; il quale avrebbe gestito l’intera operazione di concerto con il concessionario, nominato di volta in volta per conto dello stato. Con le possibilità di disegnare e poi affermare il modello finanziario dell’operazione (Cicconi, 2012) anche al di là della volontà politico-istituzionale. La riprova del tendenziale ribaltamento decisionale, tra decisore pubblico ed impresa, si può riscontrare nel fatto che l’operazione veniva divisa in sei megalotti, e di fatto affidata a contraenti generali che rispondevano alla strutturazione geo-economica e politica delle diverse parti del paese: così nella Torino- Milano preponderava quella che allora si chiamava Fiat Engineering, nella FirenzeBologna le Cooperative, al centro-sud le imprese ex Iri (che stava per essere liquidata) in via di privatizzazione. Con alcuni “colossi” del settore presenti in tutte le operazioni a fungere da elementi di mediazione e compensazione (idem). I vincoli di spesa pubblica “rispetto al necessario” divenivano presto talmente rilevanti da giustificare il massiccio ricorso al sistema creditizio, per “garantire gli indispensabili flussi di risorse”; giustificato talora, paradossalmente, con il presunto obbligo di break even; mai avvenuto in realtà per la presenza dello Stato quale garante e mallevadore finale.

Le soggettività finanziarie diventavano però in tal modo elementi strutturali di un oligarchia di potere che avrebbe controllato totalmente il settore delle grandi opere. E tendeva a diventare talmente determinante nelle decisioni di politiche infrastrutturali ed anche territoriali, da porsi come soggetti di riferimento imprescindibili anche per chi operava a livelli inferiori, regionali o locali (ibidem). In un sistema in cui le dimensioni e modalità di spesa diventano quasi più importanti dell’utilità e della stessa fattibilità delle opere, era quasi ovvio l’inserimento della criminalità organizzata (Imposimato, 1999). Che a sua volta lottizzava subito parte dei lavori nelle tratte relative a contesti in cui già dominava (Roma-Napoli), trovando occasioni più “specifiche” (subappalti, movimento terre, escavazioni, rifiuti) nelle altre tratte.

I rapporti della DIA e di magistrati che si sono occupati a lungo di tali vicende descrivono i caratteri del sistema. In particolare è interessante cogliere natura e modalità delle diverse presenze criminali: la prossimità territoriale contava. La AV Roma-Napoli è segnata dalla presenza della camorra, laddove nella ristrutturazione della Salerno-Reggio Calabria, avviata nel 1998, dominava la ‘ndrangheta in Calabria e la stessa camorra sul resto!

Ferdinando Imposimato illustra la capacità camorristica di trarre vantaggio sia dal ciclo dei rifiuti sia da quello del cemento per l’alta velocità: nelle cave della Roma-Napoli venivano discaricate abusivamente l’eccedenze del sistema dei rifiuti campani. Mentre i materiali estratti venivano impiegati per gli impianti di ambedue i settori (Imposimato, cit).

2.9 La Legge Obiettivo, approvata dall’esecutivo di centro-destra presieduto da Berlusconi nel 2001, costituiva poco dopo una sorte di sanzione normativa di tutto ciò: il “sistema alta velocità”, che doveva costituire un’eccezione dovuto ad un programma speciale di risposta ad un’emergenza, diventava la regola. Non solo per il grande trasporto ferroviario, ma per tutti i progetti infrastrutturali di una qualche rilevanza, la Legge Obiettivo prevedeva l’impiego dello stesso sistema vigente per l’alta velocità. Veniva messa da parte qualsivoglia pianificazione e lettura della domanda: bastava la dichiarazione di “opere strategiche per l’emergenza e la somma urgenza”, per mettere fuori gioco deliberazioni e programmazioni locali e provinciali, allentare ed allargare a dismisura le maglie delle verifiche ambientali, abbandonare qualsiasi analisi costi benefici, schiacciare fino a negare del tutto e reprimere qualsiasi istanza sociale.

Nel suo quindicennio di vita utile (è stata almeno formalmente abrogata qualche mese fa con l’approvazione del Nuovo Codice dei Contratti e Appalti) sono state inserite nel programma di realizzazione ex Lege Obiettivo oltre 250 opere, per una spesa totale prevista di oltre 370 miliardi di euro. A fronte dell’impiego effettivo di circa un terzo di tale somma, le opere finite sono state pochissime, diverse altre restano incompiute, spesso ormai abbandonate; laddove moltissime altre sono rimaste allo stadio di progettazione di massima o semidefinitiva.

Come i continui scandali che marcano il settore seguitano a dimostrare (Barbieri, Giavazzi, cit; Cicconi, cit; Sansa, 2010) su tale programma ha continuato ad imperare la logica di sprechi e corruttele. E la collegata pervasiva penetrazione della criminalità organizzata, che ha dunque usato questa grande operazione per “mettere a punto” le modalità di presenza e accesso su molte aree del territorio nazionale, anche del settentrione, in cui non era storicamente presente. Negli ultimi anni altre istanze normative e programmatiche hanno consolidato tale propensione: innanzitutto le varie emergenze, oggetto di decretazioni speciali, ancora i rifiuti, l’energia, l’approvvigionamento idrico, la depurazione;oltre alle Olimpiadi invernali del 2006 e ai Mondiali di Nuoto del 2009. La presenza consolidata nelle grandi costruzioni ha poi permesso l’ingresso anche in settori contigui come le grandi attrezzature per il commercio e gli insediamenti turistici (Ecomafie, DIA, cit. in bibl.).

Le grandi opere hanno costituito dunque vettore sostantivo di diffusione della criminalità sul territorio nazionale, come dimostrano anche i più recenti scandali MOSE ed Expo. Un processo che è stato ulteriormente favorito dai meccanismi di finanziarizzazione di economia e politica (Gallino, 2012; Revelli, 2016); anche per la possibilità di fruire di eccezionali condizioni e quantità di capitale a breve, richiesto per esempio nelle operazioni di project financing. La criminalità organizzata ha certamente goduto anche del concomitante indebolimento dei sistemi decisionali istituzionali, per porsi spesso indirettamente quale elemento politico determinante in molte realtà. Anche più vaste del livello dei comuni sciolti per mafia (Mete, 2009).

 

3. Per una nuova geografia della territorializzazione di stampo mafioso

La capacità di penetrazione e di controllo di molti comparti dell’economia territoriale ha costituito forse il principale veicolo per la “conquista” da parte della criminalità organizzata di gran parte del territorio nazionale. Da questo punto di vista colpisce il primo comune sciolto dopo l’approvazione della Legge sullo scioglimento delle amministrazioni infiltrate dalla criminalità (Mete, 2009), non sia stato un ente meridionale, ma Bordighera, in Liguria.

Peraltro, nell’ambito dei territori, sia meridionali che settentrionali, è possibile ed anche necessario distinguere tra le diverse nature e modalità di presenza criminale e di condizionamento di economia e politica.

Al Sud è interessante diversificare tra le situazioni di radicamento originario della criminalità (le terre, interne e rurali, dei “capobastone”) dalle “nuove mafie urbanizzate” presenti nelle città,con necessità di ulteriori distinzioni tra piccoli centri urbani e poli medio-grandi.

Va considerato anche che una certa “diffusione” o “estensione” urbana, che ha segnato molte aree siciliane, calabresi o campane, ha confuso i confini tra urbano e rurale, per cui centri rurali sono diventati “quartieri dormitori” della grande città conurbata.

In generale in questo tipo di situazioni può rivelarsi proficuo l’applicazione del criterio di “enclave criminale”, aree circoscrivibili, talora coincidenti con i confini comunali, pressoché totalmente controllate dalla criminalità (De Leo, 2015). All’interno di tale categoria è forse utile diversificare tra le realtà rimaste prevalentemente rurali (per esempio Cinisi, in Sicilia) e quelle che hanno subito forti trasformazioni per interventi infrastrutturali, industriali o commerciali (Gioia Tauro, in Calabria). Mentre nel primo caso si nota un’economia rimasta per lungo tempo a livello di sussistenza, con profitti relativi provenienti dagli interventi degli investimenti in agricoltura o dal controllo del misero mercato edilizio; nella seconda situazione la penetrazione in pressoché in tutti i tipi di investimenti, pubblici e privati, è stata occasione di forte consolidamento e crescita economica e socio-politica delle cosche. Un carattere pressoché costante delle amministrazioni controllate – in tutto o in parte dalla criminalità – è costituito da rilevante inefficienza gestionale, spesso vera e propria sciatteria, dovuta certo anche alla necessità di rispondere ad istanze spesso illegittime se non apertamente illegali.

Come nota ancora, tra gli altri, Daniela De Leo, l’abusivismo è stato un settore di forte ampliamento e legittimazione dell’azione criminale. Ovviamente più ci si addentra in realtà grandi e diversificate, più di va verso un’altra delle categorie interpretative proposte dall’autrice: quella del “disordine spaziale”. All’interno di questo si possono individuare aree specifiche, “periferie degradate e controllate”, le “aree dell’informale organizzato”, e infine le “aree contese ibride” (De Leo, 2015). Una categoria fondamentale per comprendere il controllo dei territori e delle città è quella della “lottizzazione criminale del territorio” (Sciarrone, 2009). Questa categoria è particolarmente rilevante perché permette di riconoscere le continuità nell’evoluzione, nei passaggi dalla criminalità del territorio rurale, alle forme del controllo delle città del sud, all’organizzazione della penetrazione e delle successive strategie di dominanza su strutture economiche e urbane al nord (DIA; cit. in bibl.).

Se si può riscontrare qualche differenza, questa sta forse nelle categorie di “adiacenza” e di “contiguità” spaziale prevalente al Sud, per cui una banda siciliana o calabrese allarga il suo dominio da un territorio rurale all’area urbana più prossima; laddove “l’arrivo” nelle città, medie e grandi del centro-nord, spesso è favorito dal tipo di attività:un soggetto criminale tende a esplicare il tipo di azione, per cui era già una presenza consolidata nelle aree di origine, nella realtà nuova, di attuale insediamento. E quindi usa quella attività per radicarsi in quella cittadina o quartiere. Con processi di mediazione continui tesi ad evitare i conflitti dovuti alle “pretese” sulle medesime aree da parte di soggetti diversi.

La “migrazione criminale” verso nord è avvenuta spesso nella prospettiva della gestione di operazioni specifiche (subappalti e movimenti di terra, centri commerciali, poli turistici, ricostruzioni post disastri, ciclo dei rifiuti ecc.) e si è quindi poi territorializzata (vedi Rapporti DIA e Procura di Reggio Calabria sulle infiltrazioni nelle opere dell’Expo di Milano e sulla stessa ripartizione dell’area metropolitana in “zone di competenza”).

I recenti casi di comuni medio-piccoli sciolti in Lombardia, Emilia, Liguria dimostrano anche una certa capacità di “adeguamento” della criminalità ai caratteri di un territorio e del suo sistema amministrativo: allorché trova una “macchina amministrativa già funzionante” essa si adegua a quei livelli di efficacia prestazionale, individuando le attività da cui trarre maggiori profitti e tramite cui tendere al massimo controllo possibile dell’economia locale. Quando non è già presente, per esempio, l’edilizia abusiva continua ad essere contrastata, anche con maggior vigore, dal momento in cui la criminalità inizia a penetrare e controllare quell’apparato amministrativo (DIA, cit.).

 

4. Alcune questioni dirimenti per la costruzione di strategie di contrasto

È probabilmente vero che la “riterritorializzazione virtuosa” dei contesti a dominanza criminale non necessita di urbanisti militanti o eroi, ma solo di “buona urbanistica” (Granata, 2016). Per tendere verso di essa, tuttavia, appare necessaria una certa capacità di interpretazione credibile di storia, natura e caratteri della dominanza criminale su un territorio.

Le distinzioni macrogeografiche richiamano subito le caratteristiche affatto diverse di presenze che esplicano oggi tipi di azioni assai differenti.

La storicizzazione del fenomeno è importante. Da lì possiamo trarre elementi di conoscenza circa la comparsa del fenomeno, la sua evoluzione, la sua morfologia, i suoi rapporti con l’economia locale, i livelli di penetrazione e di controllo alle politiche pubbliche, non solo urbanistiche.

Sud e Nord sono categorie cogenti circa l’origine del fenomeno, i caratteri ed il suo attuale radicamento. Nell’ambito dell’osservazione dei centri urbani, è importante cogliere le differenze dovute a dimensioni, caratteri economici prevalenti, efficacia della gestione, qualità dello spazio e del paesaggio urbano. E altresì sostantivo cogliere se la presenza criminale sia settoriale/tematica – ovvero prevalente nel controllo di alcuni comparti -, ovvero areale – tendente cioè a controllare tutta l’economia locale. Inoltre decisivo è comprendere il livello di pervasività, quindi di infiltrazione e controllo nei meccanismi di gestione (solo edilizia o urbanistica, quanti comparti, che tipo di relazioni con gli apparati di finanziamento e col credito).

Da ultimo appare fondamentale verificare l’eventuale presenza di un’azione sociale che coglie il disagio dovuto anche all’involuzione criminale dell’uso dello spazio locale ed è suscettibile ad esprimere azioni di contrasto.

 

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* L’articolo è stato pubblicato sul sito del LaPEI-Laboratorio per la Progettazione Ecologica degli Insediamenti dell’Università di Firenze. Si veda anche il programma del ciclo di seminari Urbanistica e legalità organizzato nell’ambito delle attività didattiche del dottorato di ricerca in Architettura [n.d.r.].

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