Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”
di Franco TOSCANI –
È noto che l’Accademia platonica, come θίασος (associazione cultuale al servizio delle Muse), fu consacrata al culto di Apollo e delle Muse e che al suo interno si trovava un altare dedicato alle Muse.
Nonostante le sue perplessità e ben note posizioni sulla poesia e sull’arte, Platone istituisce un fecondo rapporto tra il filosofo e le Muse. Nel Cratilo (406 a 3-5) leggiamo che il nome stesso alle Ποῦσαι (Muse) e alla μουσική (musica) sembra derivare dal μῶσθαι (aspirare, cercare) proprio della ricerca e della filosofia. Nella Repubblica (VIII, 548 b8-c1) la “vera Musa”, quella da non trascurare, sempre “si accompagna ai discorsi e alla filosofia”.
Le profonde corrispondenze tra musica, poesia, arte in generale e pensiero ci riguardano da vicino ancor oggi, si pensi soltanto, fra il XIX e il XX secolo, alle opere e agli esempi straordinari di Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e María Zambrano.
Nel Fedro il filosofo è per Platone l’uomo capace dell’ἀνάμνησις (reminiscenza) di ciò che un tempo vide la nostra anima, capace di pensare la totalità con uno sguardo libero, universale, disinteressato, dall’alto; è l’uomo “posseduto dal dio”, “ispirato” (ἐνθουσιάζων), in cui rinascono – per quanto è possibile (κατὰ δύναμιν) ai mortali – le ali dello spirito, sorretto dall’amore per la sapienza e la verità; è un uomo ritenuto strano e “folle” dai più, perché rivolto a cose alte, divine e lontano dalle beghe e macchinazioni, dalle occupazioni prevalenti, dai traffici e dagli interessi dominanti in cui si risolve la vita della maggior parte degli uomini (cfr. Fedro, 246 c; 248 d; 249 b-d).
Il filosofo è devoto alle Muse, amante della bellezza, dedito all’amore, al pensiero e al sapere; col desiderio di questo tipo che sempre porta con sé, egli acquisisce le ali e si libra in volo (cfr. Fedro, 249 d-e).
Molto platonico è in questo senso pure Giordano Bruno, quando nel XVI secolo scrive, con le ali del suo schietto spirito filosofico, in una poesia premessa al dialogo De l’infinito, universo e mondi (1584): “fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo”[1].
Come grande pensatore e cantore dell’universo infinito, Bruno riprende il motivo platonico delle ali nel De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo (il cosiddetto De immenso, 1591): “Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d’immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. […] Così, io sorgo impavido a solcare con l’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere ed il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie.
Ma per me migliore è la mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto l’Olimpo, che accomuna gli altri in un’unica prigione dal momento che ne ha dissolto l’immagine, per cui da ogni parte si espande il sottile aere.
Mentre mi incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato, divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via: mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorro da ogni parte l’etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti” [2].
Nella lettera al rettore e al senato accademico dell’università di Wittenberg premessa al De lampade combinatoria lulliana (1587), Bruno dichiara di sentirsi in Musarum curia alumnus (“un allievo alle cure delle Muse”) [3].
In Bruno l’ispirazione delle Muse è congiunta pure (nel primo dialogo de La cena de le Ceneri, 1584) a una vena scopertamente erotica e il fiorire delle Muse è legato alla presenza di un clima favorevole alla tolleranza e alla libertà di pensiero. Bruciato vivo sul rogo dall’Inquisizione cattolica nel febbraio 1600, il filosofo pagherà duramente le sue idee e l’amore delle Muse, rimanendo vittima dell’intolleranza e della repressione della libertà di pensiero.
Nell’Oratio consolatoria stampata a Helmstedt nel 1589, Bruno descrive la sua vita di esule, “forestiero ed estraneo”; per amore delle Muse, “spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile all’infuori di loro” [4].
Col suo coraggio e con la sua determinazione, con la sua forza e libertà di pensiero, Giordano Bruno ci ha lasciato una testimonianza straordinaria e mirabile di cosa possano significare le ali, il volo del pensiero e l’amore per le Muse.
Dopo questa parentesi, torniamo a Platone. Come leggiamo pure nello Ione, soltanto la Musa forma gli ispirati e può costituirsi una “catena”, una comunità di coloro che sono invasi da divina ispirazione (cfr. Ione, 533 e-534 a).
Nel Fedro Socrate ha l’impressione che le cicale, come “attendenti delle Muse”, col loro canto ininterrotto nell’afa estiva, ci stiano osservando, ascoltando e possano riferire alle Muse gli umani discorsi (cfr. Fedro, 259 a-d).
Diventa allora importante per noi porre attenzione ai discorsi. Il filosofo è l’uomo che, ispirato dalle Muse, cerca di dare forma alla propria vita, secondo uno stilecomplessivo di esistenza di cui fa parte anche il modo di parlare e di scrivere, il ricorso a discorsi non superficiali e sciatti, ma pronunciati e scritti “nell’anima” (ἐν ψυχῇ. Cfr. Fedro, 278 a).
La filosofia può porsi così come μεγίστη μουσική (musica altissima. Cfr. Fedone, 61 a 3-4) quando e, anzi, soltanto quando la vita di un uomo riesce ad armonizzare e ad accordare in una effettiva consonanza le azioni e le esperienze vissute con le parole, i pensieri e i discorsi. La “musicalità” specifica della filosofia indica “l’arte delle Muse” (μουσικὴ τέχνη), intesa in senso ampio come capacità di indirizzo, educazione, cultura, formazione, controllo, disciplina di sé, orientamento positivo e costruttivo della propria vita.
Nel Lachete, proprio Lachete afferma di poter sembrare di volta in volta φιλόλογος (“amico dei discorsi”) – quando i λόγοι si rivelano coerenti coi fatti e le esperienze della propria vita – oppure μισόλογος (“nemico dei discorsi”), quando questi ultimi si palesano in contraddizione coi comportamenti reali: “Quando infatti sento un uomo che dialoga sulla virtù o su una qualche forma di sapienza (ἀνδρὸς περὶ ἀρετῆς διαλεγομένου ὴ περὶ τινος σοφίας), se è veramente un uomo all’altezza dei discorsi che tiene, ne traggo un enorme piacere, considerando al tempo stesso chi parla e le cose dette, come siano consentanei l’uno all’altro e in perfetta armonia; e un tal uomo mi sembra proprio un musicista (μουσικός), che vive accordando in perfetta armonia (καλλίστη ἀρμονία) non una lira o strumenti frivoli, ma davvero lui stesso la propria vita, rendendola consonante nei discorsi rispetto alle azioni (…). Un tal uomo, quando parla, mi fa gioire e sembrare a chiunque amante dei discorsi (φιλόλογος) – con tanto slancio accolgo ciò che dice -, mentre chi agisce in modo opposto mi provoca un fastidio, che è tanto maggiore quanto meglio costui sembra parlare, e mi fa apparire nemico dei discorsi (μισόλογος)” [5].
Nella Repubblica (IV, 430 d-e), a proposito del nesso importantissimo e inscindibile istituito nella πόλις fra σωφροσύνη (moderazione) e δικαιοσύνη (giustizia), si parla della σωφροσύνη come di “una sorta di accordo (συμφωνία) e di armonia (ἀρμονία)”, che indica l’esigenza dell’ordine, del controllo dei propri impulsi, del necessario disciplinamento delle proprie forze ed energie, del potere su di sé, insomma. Un potere su di sé finalizzato a una vita migliore sia a livello dei singoli individui sia a livello politico e sociale, nella convivenza sociale e nella condivisione della vita.
Sempre nella Repubblica (IV, 443 d-e; IX, 591 c-d), si parla dell’armonia necessaria fra le tre parti dell’anima (concupiscibile, irascibile e razionale) e del fatto che l’uomo assennato è “impegnato ad accordare l’armonia del corpo in vista della sinfonia dell’anima“.
Anche nelle Leggi viene ribadito che non vi può essere alcuna φρόνησις (saggezza) senza συμφωνία (consonanza, accordo); “anzi la più bella e la più importante delle consonanze si può legittimamente definire come grandissima saggezza di cui partecipa chi vive secondo ragione (κατὰ λόγον), mentre chi ne è privo risulterà ogni volta che rovina per ignoranza la propria casa e non può essere il salvatore (σωτήρ) della sua città, bensì il contrario” (Leggi, III, 689 d-e).
Nel dare forma ai suoi pensieri, il filosofo intraprende una sorta di composizione che ha in sé qualcosa di artistico ed è anch’egli, a suo modo, formatore del bello. E’ una composizione in cui risuona la “musica” – ossia il ritmo, l’accordo, la consonanza, l’armonia, la sinfonia – della vita, del pensiero, delle cose stesse, del mondo, della verità. La filosofia, intesa in questo senso e insistendo sul suo carattere formativo, è anche un tutto artistico.
Nel filosofo ispirato e “posseduto”dal dio, cioè nell’uomo che si pone al servizio genuino della verità, il volo dello spirito si fa ardimentoso, libero, vasto, coraggioso.
Come Platone ben sapeva, la μεγίστη μουσική (musica altissima) della filosofia risuona, non troppo facilmente, soltanto quando gli uomini riescono a dare il meglio di sé nell’amore, nel sapere, nella condivisione della vita, nella tensione alla giustizia e alla verità.
L’ascolto di questa “musica altissima” risulta ancor oggi ostacolato fortemente dalle condizioni oggettive del mondo dato, ma questo ascolto rimane decisivo per rendere possibile la “sinfonia dell’anima“, che non va interpretata in un senso spiritualistico-astratto o soggettivistico-metafisico, ma nella direzione della salvaguardia del mondo, dell’umanità, delle cose, dell’essere, della verità.
La “sinfonia dell’anima” propria della filosofia non è un mero appannaggio e dominio del filosofo, perché il filosofo, se è veramente tale, non pensa mai soltanto per sé, non difende mai meri interessi o idee personali, ma è rivolto essenzialmente a ciò che è più degno di essere pensato e vissuto, al bene comune e alla verità universale.
Platone si rende conto del fatto che il vero filosofo non può esaurire il discorso filοsofico o illudersi di farlo in uno scritto, perché la verità è inesauribile e noi possiamo soltanto amarla e ricercarla, perché i pensieri stessi più profondi del filosofo sono il frutto del suo complessivo stile di vita quotidiano, del suo modo di vivere e tutto ciò non può risolversi una volta per tutte in un testo scritto, che – per quanto si renda anch’esso necessario e ineludibile – rimane sempre una cristallizzazione, una sorta di congelamento di ciò che è vivo e appassionato, di ciò che è costantemente in divenire e appartiene al complesso, problematico e ricco processo dell’esperienza di pensiero.
Nulla dunque può sostituire il valore del dialogo autentico, vivo e diretto fra esseri umani, del pensiero espresso con franchezza, libertà e tensione alla verità (la παρρησία), della comunicazione fra persone capaci di ascoltare e di parlare tenendo conto delle buone ragioni – almeno parziali – di tutti. Tale dialogo, almeno finché vi saranno esseri umani viventi, è effettivamente inesauribile, come è inesauribile la verità.
[1] G. Bruno, E chi mi impenna, e chi mi scald’il core? (1584), in Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. 322.
[2] G. Bruno, De immenso, I, 1 (1591), in G. Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, pp. 417-418.
[3] G. Bruno, De lampade combinatoria lulliana (1587), in G. Bruno, Opere lulliane, Edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2012, pp. 206-207 (trad. it. leggermente modificata).
[4] G. Bruno, Oratio consolatoria (1589), cit. nella Cronologia, a cura di M. E. Severini, in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. CIV.
[5] Platone, Lachete 188 c-e, in Platone, Teage Carmide Lachete Liside, a cura di B. Centrone, BUR Rizzoli, Milano 2012, pp. 344-345.
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