Dopo Fortini. Diario di un insegnante
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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Dopo Fortini. Diario di un insegnante

di Velio ABATI –

Giustificazione

Come dichiara il titolo, il mio intervento ha un’ambizione particolare: non vuole chiudersi in uno sguardo approfondito sull’operato intellettuale di Fortini, ma gioca le sue carte nel tentativo, magari spericolato, di verificare quanto, non dico del mio, ma del mestiere d’insegnante, così come si è andato configurando negli ultimi trent’anni, si discosta dalle riflessioni fortiniane o si rapporta con esse. Proverò a procedere in maniera obliqua. Attraverserò l’opera di Fortini per rintracciarvi le postazioni da cui traguardare alla mia esperienza pluridecennale, avvalendomi anche della testimonianza di suo studente. Se qualcuno ora mi obbiettasse l’intrinseca debolezza di uno sguardo così soggettivo, non saprei che replicare. Potrei solo allegargli, a mio parziale conforto, un’antica pagina del nostro autore, ribadita per altro in decenni successivi, fino alla vigilia della sua scomparsa:

La pagina e l’intenzione critica, mossa dapprima verso l’Oggetto, il pubblico, il discorso (come si usa dire) «verificabile», piegano verso il diario, la confessione; il pretesto dunque. Le memorie nel manoscritto, l’oltretomba nella bottiglia. […] Non rimane se non la speranza, davvero non infondata, che malgrado tutto alcune delle nostre lettere di prigionieri, scarabocchiate sul retro di falliti piani d’operazioni o di progetti di fortificazioni travolte, qualora siano lette da tutt’e due le parti del foglio, testimoniano d’una verità obiettiva che non si sapeva, o quasi solo in sogno si sapeva, di possedere[1].

La scuola è meglio della merda

L’attenzione di Fortini è stata costantemente rivolta ai temi letterari, politici e culturali – nei loro aspetti teorici e pratico-organizzativi – in forte presa con le emergenze del presente, da cui traeva le domande che sentiva perentorie. Era da tale allarme del presente – confessato come ossessione minacciosa[2] – che egli guardava i suoi vasti interessi culturali europei. Si tratta di una disposizione che declina da un’assai illustre genealogia illuminista e romantica, dal marxismo affinata e rinnovata. Il lettore del nostro intellettuale sa che in lui permanente è stato lo “spirito di scissione”, per dirla con Gramsci, insieme con, anzi consustanziale alla spinta pedagogica e parenetica, tanto nella produzione saggistica, quanto in quella poetica, in vista dell’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Per cui lungamente si è occupato dei temi della diffusione, oltre che della produzione, della cultura, tanto che forse uno dei suoi ultimissimi scritti, sul letto di morte, si può dire, essendo una lettera datata 5 novembre 1994, a ventitré giorni dalla scomparsa, è una dura dichiarazione che addita nel giornalista lo strumento del dominio e il soggetto possibile della ribellione:

Chi finge di non vedere il ben coltivato degrado di qualità informativa, di grammatica e persino di tecnica giornalistica nella stampa e sui video, è complice di quelli che lo sanno, gemono e vi si lasciano dirigere. Come lo fu nel 1922 e nel 1925. […] Lungo canali di storica vigliaccheria mascherata di bello spirito i colleghi della comunicazione stanno giorno dopo giorno cambiando o lasciando cambiare i connotati dei quotidiani; in attesa che se ne vadano quei pochissimi direttori che non hanno già concordato o “conciliato”. […] Anni fa scrissi, enfaticamente, che il luogo del prossimo scontro sarebbero state le redazioni. Quel momento è venuto, il luogo è questo.

Dico cifra “permanente” della produzione fortiniana, perché essa è ben presente tanto nella poetica, in cui campeggia l’affermazione che “la poesia, anche quella della rivolta, canta sempre alla tavola dei potenti”[3], quanto nel contrappuntismo in cui vive la sua parola poetica; quanto infine nel versante critico e saggistico: “oggi – scriveva a metà degli anni Sessanta – la condizione di ‘emigrato interno’ è l’unica condizione possibile dell’intellettuale che non abbia rinunciato alla prospettiva socialista”[4]. Per tutto l’arco del percorso di Fortini, la mossa d’avvio è stata tenere aperta la strada della negazione: ora, quando le circostanze storiche erano o sembravano più favorevoli alla dialettica sociale, rivendicando “il conflitto tra intellettuali-politici e politici-intellettuali”[5], ora, allorché la critica è sentita “pressoché inesistente e impossibile”, opponendo comunque un saggismo “che quasi tende a coincidere col diario intellettuale”[6].

Proprio perché il nostro autore si muove nella marxiana prospettiva comunista, la sua azione antiborghese non ha mai escluso né la spinta ad un agire collettivo, né l’intento, come si diceva, pedagogico e parenetico. Anche in tali aspetti l’assillo del presente sospinge Fortini a una continua loro verifica, magari amara, ma non a una sconfessione. Scrive nel 1951:

La meta ci pare che sia quella della preparazione di un nucleo di scrittori-critici, capaci di mediare le opere letterarie fino alle più remote parti del corpo culturale della nazione e di ritrasmettere quegli impulsi che sono la replica creatrice dei pubblici[7].

Nel 1981, a Mirella Serri che gli chiede a chi egli parlasse a quel tempo, risponde:

Francamente non te lo so dire […] uno come me che si trova davanti alla questione di sapere che cosa è stato, che cosa ha fatto, corre il rischio di ritrovarsi nel proprio piagnisteo, cioè di dire guarda un po’ forse quello che tu avresti voluto era di essere inserito in un gruppo, di non essere da solo[8].

Dico subito che la sottolineatura inquieta ed esplicita, compiuta da Fortini, del valore pedagogico di chiunque parli a qualcun altro ma al grado più alto in chi parli da qualche ruolo, assume particolare funzione disvelatrice oggi che le massime autorità, coloro che decidono la vita e la morte di milioni di persone, fingono di parlarci come l’uomo della porta accanto.

Risulta chiaro, dunque, che al nostro assunto, nella sua forma più ampia, si offre, si può dire, l’insieme della produzione fortiniana. Sceglierò pertanto solo dal materiale più direttamente didattico-pedagogico e, aggiungo, in modo rapsodico, costretto da ovvi motivi di spazio.

Nel 1965 esce un’antologia divulgativa con un’ampia selezione di filosofi, storici, economisti, politici europei, asiatici, africani, americani. Due elementi sono in essa rilevanti. Sul versante del discorso condotto da Fortini, ossia nella scelta e nella presentazione del materiale, è ben visibile la spinta contrappuntistica con l’intento, francamente indicato al lettore, di tenere aperta la porta al conflitto, alla negazione del discorso dominante:

Questa antologia non parla – o solo indirettamente – delle forme aperte del conflitto storico: ma su quel conflitto è tutta imperniata. Contro il cinismo, pretende già compiuta una scelta che non si usa quasi più compiere o rinnovare. L’obiettività eventuale è nella sua parzialità[9].

Sul versante del destinatario, è sottolineata altrettanto esplicitamente l’appartenenza di autore e lettore alla medesima condizione sociale e culturale:

Questa antologia si rivolge a quella parte di ciascuno di noi che nella ricerca e serietà specialistica ama la serietà della ricerca senza credere all’ideologia dello specialismo […] l’antologia usa i testi (e, in una certa misura, li interpreta) avendo di mira come lettore quel medio uomo europeo e italiano cresciuto nella media civiltà capitalistica e mediamente informato; quella parte di ciascuno di noi che è sotto l’intimidazione capitalistica[10].

In altre parole, la funzione pedagogica di Fortini non comporta affatto e, direi, da subito il recupero di una posizione privilegiata dell’intellettuale -posizione che il comunismo terzointernazionalista aveva invece mantenuto- ma si esercita prima di tutto su se stesso accomunato agli altri. Si noterà di passaggio che questo è il nucleo fermentante del celebre Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, di due anni più tardi: il punto profondo di divergenza di tanta parte del cosiddetto marxismo critico postbellico, la ragione del ritiro della delega ad altri, ovvero al partito, del giudizio politico.

Ventitré anni più tardi, il ricco materiale fortiniano ci consegna, nella forma negativa, un’affermazione identica, per quanto paia contraddirla relativamente al passato:

Oggi non puoi avere verso l’incolto, il negoziante senza cultura, l’operaio senza studi, l’atteggiamento di venti anni fa, di quello che va a portare i lumi, perché consumi anche tu gli stessi prodotti, la stessa spazzatura[11].

Spostando lo sguardo dal lettore extra e postscolastico a quello scolastico, troviamo non sorprendentemente le medesime coordinate. È del 1968, quando Fortini insegnava da cinque anni negl’istituti secondari, un’antologia per il biennio delle scuole, allestita con Augusto Vegezzi. Nella brevissima presentazione ci si attribuisce il medesimo compito di sollecitare insegnanti e alunni a una posizione critica, conflittiva:

Si è inteso soprattutto fornire la possibilità di intendere […] come i temi del presente investano drammaticamente la vita dei popoli e non consentano rifugi o evasioni; come la voce dei poeti, la rappresentazione dei narratori, l’argomentazione dei pensatori e degli uomini di scienza convergano da due secoli, attraverso conflitti e lotte […] la dichiarata prospettiva ideologica preferisce, quando necessario, far ascoltare la voce severa, magari dura, di un autore “difficile” piuttosto che cullare il discepolo (e l’insegnante) in fantasie di facile concordia progressista.[12]

L’approccio non cambia se dal campo dei propositi, ci portiamo nella descrizione fortiniana della scuola, intesa nella sua molteplice realtà. Si veda, per esempio, il giudizio, datato 1976, sull’editoria scolastica e sulla qualità della manualistica, di cui si denuncia con asprezza l’insipido ecumenismo:

L’editoria scolastica sfrutta la vena interdisciplinare e i temi dell’attualità […] In luogo di informare sull’esistenza e funzione delle maggiori discipline che a scuola non s’insegnano, si dispongono assaggi da Freud, Einstein, Lévi-Strauss o Chomsky; non le pagine dove hanno scritto il meglio, ché per intenderle si vuole aver dimestichezza con le loro materie, ma quelle di sintesi o di idee generali. Del sapere così omogeneizzato e senza fibre residuerà nella testa dello studente la ciarla culturale[13].

In una precedente lettera ai propri studenti, del 1971, documento straordinario per la testimonianza di un clima generale oltre che per lo sguardo in presa diretta sul Fortini insegnante, scrive: “La scuola nella quale vivete non vi dà quasi nulla di quello di cui avete bisogno e diritto”[14]. Di grande interesse è comunque il giudizio ivi contenuto sulla scuola di massa nata con la riforma della Scuola media unica del primo governo di centro sinistra nel 1962. Leggiamolo per intero:

La contestazione globale ha condotto soltanto ad aprire il terreno, a fornire la giustificazione politica alla riforma guidata dal moderno capitalismo e gestita dalla Democrazia Cristiana e dai suoi alleati, con l’appoggio del Pci. Oggi appare chiaro che il movimento degli studenti ha solo accelerato un movimento di dissoluzione che era cominciato senza di loro e che -come in Usa e altrove- rientra perfettamente nei piani dello sviluppo capitalistico o almeno ne è la conseguenza. La dissoluzione della vecchia scuola classista, umanista, elitaria, fondata sullo studio e sulla disciplina (una scuola che voi non avete conosciuto) era già prevista dalla istituzione della Media Unica, era già scritta nell’aumento della popolazione. Gli studenti sono stati gli enzimi necessari alla velocità della dissoluzione. La prova sta nel fatto che la distanza fra chi studia o può studiare, chi sa o può sapere, chi dirige e dirigerà, chi sarà incluso nella riproduzione dell’insegnamento e chi meno è aumentata[15].

Due sono gli elementi rilevanti del passo: il giudizio sulla nascita della scuola di massa che, in termini gramsciani, potremmo definire di “rivoluzione passiva” e il connesso effetto omologante dell’istruzione. Si tratta, come si diceva, di un aspetto fondamentale dello sguardo di Fortini, da cui nasce la necessità di ciò che ho sopra indicato con l’espressione “spirito di scissione”. Va detto, per non indurre nell’equivoco, che nel nostro autore l’apertura al negativo non approda mai alla sua separatezza -genesi della depressione nichilista o del cinismo maniacale-: la negazione è sempre determinata. Per questo può senz’altro proclamare che “qualunque immediatezza è, senza possibilità di dubbio, reazionaria”[16]. In una noticina a uno scritto dello stesso periodo, leggiamo un appunto fulminante contro la figura oggi sbandierata con orgoglio da governi e gazzette ufficiali:

Si è visto quale naufragio gli apologeti della immediatezza abbiano fatto là dove la questione si è posta come problema della scuola e dell’insegnamento, della parola e della ratio studiorum. E come miseramente abbiano ripiegato sull’estremo opposto, d’altronde perfettamente coincidente con tanta didattica americana e sovietica e con non poche aspirazioni ministeriali italiane: il docente come ‘esperto’[17].

Ma è necessario tornare al passo citato dalla lettera ai suoi studenti e precisamente là dove Fortini sottolinea che la scuola di massa ha portato non, come vorrebbe apparire, all’emancipazione, bensì all’aggravamento della distanza tra chi sa e chi non sa, tra dirigenti e diretti, tra classe dominante e classi subalterne. Ebbene, che le dicotomie (“chi studia o può studiare”, ecc.) vadano intese come dicotomie interne alla scolarizzazione e non tra inclusi ed esclusi da essa è confermato, tra i tanti passi, da un’assai esplicita dichiarazione del medesimo periodo:

L’ordine tardocapitalistico vuole bensì la scuola per tutti ma perché tutti, convenientemente sottoeducati, possano essere consegnati alla selezione extrascolastica e al sottoimpiego nella produzione[18]

Che posizione prende allora di fronte a chi, don Milani, nel pieno del ribollire degli anni Sessanta, mette energicamente a fuoco la frattura tra coloro che padroneggiano la cultura e chi ne è espulso? Intendo quella Lettera a una professoressa, accolta da Fortini e Vegezzi nella loro antologia, nel cui “cappello” introduttivo a due brevi passi si legge “libro provocatorio e polemico […] che esamina criticamente la scuola […] dal punto di vista dei bocciati a scuola, cioè degli esclusi, dei subalterni nella vita”[19].

Su questo libro Fortini interviene con due scritti dedicati -uno a caldo, un altro a distanza di oltre vent’anni- e un passaggio in un’intervista ancora più tarda. Ai fini del nostro discorso, è sufficiente prendere in considerazione il primo intervento, perché quanto lì espresso non viene successivamente modificato.

Il primo fatto significativo della recensione è lo scarto dal tema della selezione classista. Il fulcro del ragionamento di Fortini è la natura religiosa e im-mediata dello scritto, piuttosto che l’espulsione classista da esso denunciata. Rivelatore diventa poi il passaggio sulle due opposte figure sociali del pluribocciato e del Pierino. L’insegnante Fortini assume entrambe le posizioni dell’ambivalenza. Ora della colpa: “è difficile valutare questo libro e l’opera di don Milani perché è difficile parlare sotto un indice teso” [20]. Ora della sfida:

E non ho da vergognarmi del vecchio privilegio di Pierino che sa chi era quella ragazza greca [Antigone]: se per un verso gli esclusi, gli oppressi, oggi, proprio perché partecipano, non perché non partecipano delle conoscenze della borghesia, per l’altro verso i Pierini cresciuti, noi, insomma, non scontiamo solo la nostra colpa storica nei confronti del mondo ‘muto’ dei contadini con la cecità verso più della metà del mondo ma subiamo la strangolazione, l’immiserimento caotico, la falsificazione[21].

Per quanto l’affermazione sia lasciata cadere sulla pagina quasi di sfuggita e quindi non ulteriormente argomentata, la lettera del discorso non lascia dubbi: “gli esclusi, gli oppressi” sono tali “proprio perché partecipano, non perché non partecipano delle conoscenze della borghesia”. Così liquidata la denuncia centrale della Lettera a una professoressa, il ragionamento torna all’argomento caro a Fortini, ovvero quello interno alla cultura e agli acculturati: “noi … subiamo la strangolazione, l’immiserimento caotico, la falsificazione”. Mentre il tema milaniano degli esclusi, “il mondo ‘muto’ dei contadini” è ricollocato nel sud del mondo.

 

Recinzioni

Il mio primo ricordo di Fortini insegnante universitario è la sua lettura della poesia, perché in quel modo ho compreso che cosa è il verso, il ritmo. Ho sentito come la parola possa caricarsi di forza emotiva dentro e oltre il suo tessuto, diciamo così, dicibile. Con lui ho cominciato a capire la complessità della comunicazione umana e perché l’opera letteraria possa essere avvicinata o addirittura, da alcuni, identificata con la vita.

Quando sono arrivato a Lettere, nella piccola città di Siena, la facoltà era nata da due anni. I pochi studenti non avevano tradizioni radicali, in compenso i docenti erano in gran parte giovani studiosi agguerriti, cosicché l’insegnamento che il campo culturale è, come altri, il campo dei conflitti politici, che inoltre e proprio per questo lo studioso non dovesse delegare ad altri il giudizio e l’azione politica non lo ricevetti per prima da Fortini. Né, in quell’onda lunga della scolarizzazione di massa da cui come un pesce fortunato ero condotto, ebbi davvero consapevolezza che essa potesse essere passeggera. D’altra parte, per sapere che la scuola è meglio della merda, non dovevo leggere Lettera a una professoressa, perché me l’avevano insegnato mio nonno e mio padre, fin da quando questi mi aiutava nel fango invernale verso la scuoletta delle elementari.

Per più di un decennio, considerato anche il precariato, il mio insegnamento ha cercato di praticare quanto avevo imparato negli studi universitari. I miei alunni erano i miei fratelli minori, che accompagnavo in quel processo ampio di emancipazione. Sentivo, o credevo di sentire, che il serio lavoro sul sapere e sulla critica del sapere fosse la forma specifica della politica dell’insegnante, dell’intellettuale-politico, per dirlo con Fortini, ovvero la messa in pratica di quel rifiuto della delega e degli specialismi che erano al fondo della mia educazione sentimentale. Del resto, né il mio insegnamento avveniva nel vuoto, potendo beneficiare dell’azione di movimenti politici, di organizzazioni sindacali nei quali gl’insegnanti trovavano modo di confrontarsi e di agire su temi e terreni non settoriali; né, analogamente, i miei studenti erano privi di loro sedi collettive. In altre parole, in quegli anni l’asse della mia pratica d’insegnante rimaneva quella osservata sopra nel discorso fortiniano.

L’orientamento culturale principiò a cambiare già agl’inizi degli anni Novanta, allorché le sinistre storiche europee, compresi gli eredi del partito comunista italiano, presero a farsi sostenitrici della necessità di diminuire –“razionalizzare”, si usava dire– l’intervento dello Stato nei servizi, oltre che in generale nell’economa. La sconfitta politica e culturale della sinistra emerse in quegli anni in modo violento. Nel dibattito culturale la critica al sapere fu sostituita dalla critica al costo del sistema pubblico dell’istruzione e della ricerca. Il brusco salto verso una posizione solo difensiva dette nuovo rilievo a voci come quella di Tullio De Mauro, che sempre aveva domandato attenzione prima alla mancata scolarità, poi al grave tasso di analfabetismo funzionale. È diventato via via più evidente, sebbene non necessariamente osservato, che il “mondo muto” degli esclusi non è solo quello contadino del sud del mondo, ma quello che cresce ogni giorno nelle nostre regioni. Sono i lavoratori precari, i giovani che non studiano né lavorano, è la massa ingente di chi è costretto alle mille forme delle moderne corvées, quando non alla semplice schiavitù.

La vera svolta pratica, per quanto riguarda il sistema dell’istruzione, è costituita dalla legge sull’autonomia scolastica di Luigi Berlinguer, ministro dal 1996 al 2000. Il furore ideologico, proprio dei ‘convertiti’, con cui gli eredi del Pci accusarono di statalismo –usato come sinonimo di dogmatismo e parassitismo– la scuola pubblica non fu altro che l’applicazione specifica del generale processo di appropriazione privata e di sottomissione al profitto con cui il capitale si svincolò in quegli anni dal compromesso keynesiano del secondo dopoguerra. Nella mia pratica d’insegnante mi è via via divenuto sempre più chiaro sia che i miei fratelli minori restavano fuori della porta, sia che gli alunni rimasti in classe parlavano un’altra lingua e non per ragioni anagrafiche. Tale situazione si era venuta creando tanto per il deperire, all’esterno della scuola, delle forme associative che consentivano uno sguardo complessivo, quanto per lo sbriciolarsi negl’insegnanti – in conseguenza delle nuove condizioni materiali e ideologiche – della spinta ideale e della forza contrattuale che consentivano uno sguardo critico sulla cultura e sul proprio insegnamento. Ma più ancora ha contato il consumarsi del tempo scuola e persino del semplice tempo dell’insegnamento, cui si è assistito con moto accelerato fino agli ultimi, dirompenti esiti della riforma renziana. Si pensi che la cosiddetta alternanza scuola-lavoro comporta obbligatoriamente una sottrazione di 200 ore nel triennio, ovvero circa 40 giorni scolastici, cui vanno aggiunti orientamenti, progetti, uscite: il tempo della lezione, interrotto e frastagliato, diventa in certe situazioni semplicemente un sostrato.

Naturalmente, allo sbriciolarsi dell’azione didattico-pedagogica dell’insegnante, non corrisponde una qualche altra continuità d’intervento, bensì il sedimentarsi pulviscolare di mille altre suggestioni ed estemporaneità, con la conseguenza di produrre due diversi esiti connessi. Al velocizzarsi delle procedure dell’insegnare, che mutilano irreparabilmente il tempo d’apprendere –per non parlare della relazione discente-insegnante, con ciò che a essa è connesso in termini di interiorità dell’adolescente in formazione-, risulta razionale ed efficiente la riduzione dell’insegnamento ad addestramento. Tutto il polverone pedagoghese sull’insegnamento per competenze ne è frutto e manifesto ideologico, cosicché la trasformazione dell’insegnante in “esperto”, che Fortini vedeva nel 1971, oggi è perseguita con forza dalla politica sia comunitaria che italiana e brandita dai gazzettieri.

Ovviamente tutto ciò obbedisce a una logica ben più ampia, dalla quale in buona misura la trasformazione scolastica dipende. Chi, come David Harvey, ha indagato con acume la determinazione storico-sociale delle coordinate spazio-temporali ci fornisce una sintesi feconda delle loro trasformazioni secondonovecentesche:

È stimolante, per esempio, pensare al 1968 come a un tempo «esplosivo» (in cui comportamenti assolutamente diversi furono improvvisamente considerati accettabili) che emerse dal tempo «ingannevole» del sistema fordista-keynesiano e lasciò poi il posto alla fine degli anni Settanta al mondo del «tempo in anticipo su se stesso», popolato da speculatori, imprenditori e capitalisti che fanno commercio di debiti[22].

E ancora più interessante la conclusione cui la sua ampia indagine arriva sulla tendenza di lungo periodo del sistema economico-sociale del capitalismo:

La storia del capitalismo è stata caratterizzata da un’accelerazione nel ritmo della vita, con relativo superamento delle barriere spaziali che il mondo a volte sembra far precipitare sopra di noi […] Mentre lo spazio sembra rimpicciolirsi fino a diventare un «villaggio globale» delle telecomunicazioni e una «terra-navicella» di interdipendenze economiche ed ecologiche […] e mentre gli orizzonti temporali si accorciano fino al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è (il mondo dello schizofrenico), dobbiamo imparare a venire a patti con un travolgente senso di compressione dei nostri mondi spaziali e temporali[23].

Vandana Shiva, assumendo a paradigma l’appropriazione privata delle terre comuni nell’Inghilterra dei secoli XVI-XVII, ha parlato di “recinzione” per indicare la modalità permanente del capitalismo nella sussunzione al profitto privato dei beni comuni[24]. Ripensando al mio percorso d’insegnante, mi appare sufficientemente chiaro, perché oggi venuto meno, il presupposto tacito della mia pratica e delle riflessioni fortiniane: la diffusione del mercato culturale e la scolarizzazione di massa erano implicitamente dati per acquisiti. La potente espansione dei “trenta gloriosi” ha giocato un ruolo decisivo in tale nascondimento[25]. Il fatto è che se – per dirla sbrigativamente – la rivoluzione d’Ottobre in Oriente e il compromesso keynesiano in Occidente avevano accresciuto il potere del lavoro, comportandone l’accesso alla scuola e alla cultura, la restaurazione finanz-capitalistica, come l’ha chiamata Gallino[26], ha riportato il lavoro alla condizione ottocentesca di pura merce, per di più in eccesso, date le nuove forme della produzione, tale per cui il capitale giudica spreco inutile e dannoso ogni investimento sociale, ivi compreso quello della scolarizzazione e della cultura di massa.

Quando parlo di “recinzione” della cultura e del sapere, così come delle relative loro istituzioni pubbliche, non intendo semplicisticamente né solo l’espulsione pura e semplice dei ragazzi dalla scuola, né solo il passaggio in mani private delle scuole. Il capitalismo sa percorrere strade più sofisticate, duttili e profittevoli, che vanno dalla perdita di qualità dei processi scolastici, all’uso privato delle strutture pubbliche, con tutte le gradazioni possibili da un’area geografica all’altra, da un ambiente sociale all’altro. Ciò che rimane sostanziale è la divaricazione crescente tra uno strato sempre più esile, dove si concentrano conoscenza e potere, e la grande maggioranza, dove povertà e danno di credere di sapere si fanno sempre più oppressivi. Una dinamica spietata nell’immediato e sciagurata nel medio periodo, che la sbandierata linea politica, di premiare i poli di eccellenza con risorse aggiuntive tolte per ammenda ai mediocri, naturalmente incrementa.

Può essere utile alla comprensione del fenomeno, indicare sommariamente la grammatica che lo alimenta. L’autonomia degli istituti è stata prima di tutto diminuzione drastica della distribuzione delle risorse dal centro ai singoli istituti per un verso e blocco stipendiale del personale scolastico dall’altro. D’altra parte, l’autonomia ha esteso agl’istituti scolastici quel fenomeno generale che ha caratterizzato i processi organizzativi propri del capitalismo negli ultimi decenni. Se l’automazione informatica ha reso possibile la decentralizzazione e la delocalizzazione di intere fasi produttive, l’accentuarsi del comando centralizzato, reso possibile da quelle tecnologie e necessario al controllo capitalistico di pochi, ha comportato un’enorme escrescenza delle procedure burocratiche, in perfetta antitesi con le promesse ideologiche neoliberiste di snellimento e sburocratizzazione che il privato garantirebbe contro l’elefantiasi dello stato[27].

Da queste premesse, ne è derivato non solo un aumento progressivo e diventato considerevole delle procedure burocratiche dell’insegnante e dell’insieme della struttura scolastica, ma anche un impegno aggiuntivo per l’approntamento di “progetti didattici” con lo scopo di recuperare, attraverso di essi, le risorse all’istituto non più garantite e ottenere qualche integrazione, con lavoro aggiuntivo, allo stipendio del personale, rimasto senza contratto dal 2008. Si aggiunga a questo il fatto che uno dei parametri per la distribuzione delle risorse agl’istituti è il numero di iscritti. Ne consegue immediatamente che l’autonomia ha comportato l’apertura della concorrenza tra scuole a tutti i livelli, dall’asilo nido al liceo. Tali semplici fattori hanno reso ‘razionali’ alcune violente distorsioni. Mi limito a indicarne due.

La prima. Il personale insegnante più motivato e dinamico sposta la sua attenzione, le sue energie dall’insegnamento alla organizzazione e al funzionamento dell’istituto (non potendo smette di insegnare, calibra diversamente i suoi impegni). La conseguenza già visibile e certamente destinata ad accentuarsi è che nelle scuole si struttura una massa di ‘solo insegnanti’, meno pagati, di poco prestigio, spesso a disagio con il proprio mestiere, a fronte della quale si separa la ristretta cerchia dello staff, costretto a pagare lo scarso vantaggio economico con un’impressionante saturazione dei tempi di lavoro e con lo stress del comando del capo d’istituto. La mancetta che la riforma di Renzi prevede per gli ‘insegnanti meritevoli’ conferma pienamente la dinamica: i “meritevoli” sono invariabilmente chi fa altro che insegnare. Non è infrequente incontrare dirigenti d’istituto affermare esplicitamente che degl’insegnanti che la mattina vanno in classe e fanno lezione non sanno che farsene.

Secondo. I progetti aggiuntivi – il cosiddetto arricchimento dell’offerta formativa – non seguono l’iter di buon senso: riscontro un bisogno formativo, elaboro un progetto, ottengo il finanziamento. Ma lo capovolgono. Siccome l’istituto deve vendersi nella concorrenza delle iscrizioni e inoltre deve trovare finanziamenti, si mette un insegnante dello staff alla ricerca dell’argomento o della trovata organizzativa più accattivante, che costi poco o abbia suoi finanziamenti, un altro alla costante disamina dei progetti ministeriali ed europei che promettano soldi, si sceglie, si elabora il progetto (fasi queste, tutte molto tecniche e laboriose, di forte specializzazione che non permettono quindi un facile ricambio) e finalmente si scarica sul tempo scolastico. In questo modo i ‘solo insegnanti’ si trovano di fronte a un tempo d’insegnamento sempre più invaso, provvisorio, interrotto. Anche per questa via, la massa dei ‘solo insegnanti’ e la loro opera perdono valore agli occhi e quindi al comportamento pratico di studenti e famiglie.

È questo il tessuto concreto in cui discenti e insegnanti oggi s’incontrano, una trama di attività mordi e fuggi, in cui il vincolo ‘oggettivo’ dei tempi obbliga alla definizione invece che all’approfondimento, alla settorialità minima invece che alla connessione, al test invece che al colloquio, al quesito a domanda singola con risposta su sei righe, invece che all’elaborato. Così non solo si evita che l’insegnante abbia qualcosa da dire sul mondo chiamandolo a una funzione di esperto, ma a forza d’impoverirgli tempi e modi lo si costringe alla posizione dell’addestratore.

Non posso non ricordare che qui si è parlato solo del sistema scolastico, ovvero di quel settore dell’istruzione minimamente essenziale. Assai più grave è la condizione dell’università e della ricerca, come numerose, anche se estemporanee e inascoltate denunce testimoniano, settori dove si assommano sia aspetti strutturali analoghi a quelli qui richiamati, che gli effetti a cascata delle condizioni prodotte dal sistema scolastico.

La linea del conflitto, dunque, come una fatica di Sisifo, pare tornata a essere quella ottocentesca del diritto all’alfabetizzazione, così come del resto, più in generale, ci si trova di nuovo a lottare contro il lavoro servile e contro la disoccupazione di massa, segni estremi e non marginali della riduzione del lavoratore a mero strumento. Ma né la scolarizzazione di massa è passata invano, né la Rivoluzione d’ottobre, malgrado tutte le rimozioni, è stata una parentesi. Si tratta oggi, per riprendere un’espressione da Fortini impiegata per i processi storici, di “soffrire più in alto”[28], ovvero di sapere e praticare una nuova radicalità, che unisca la richiesta che muove dal ‘grado zero’ del non sapere e del non essere con la memoria della pratica costante e immanente della critica, del conflitto. Nel caso del mestiere d’insegnante, si tratta di operare contro l’espropriazione del diritto alla conoscenza -che, come si diceva, colpisce sia il discente che il docente-, al contempo praticando, a ogni tappa, la critica allo stesso sapere acquisito, contro, come ci ha insegnato Fortini, “la strangolazione, l’immiserimento caotico, la falsificazione”. Non si è in grado di dire quando e come una tale ripresa di parola da parte di discenti e docenti avverrà, ma una cosa mi pare di poter affermare con sicurezza: se è un’azione che non può essere compiuta in solitudine, ciascuno deve sapere che è sua responsabilità diretta, nella consapevolezza che nessuna delega è più decentemente esigibile da nessuno, riprendendo il discorso là dove Fortini e il meglio della riflessione teorica degli anni Sessanta l’avevano portato.

[1] Otto domande sulla critica letteraria in Italia, in “Nuovi Argomenti”, VII, 44-45, maggio-agosto 1960, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p.29.

[2] “C’è un altro episodio sconvolgente che ritorna spesso nella mia mente: un incontro avuto a Milano dopo una notte di bombardamenti, mentre ero in servizio di ordine pubblico. Nella strada deserta, tra le case fumanti, una donna, che da lontano era parsa estremamente gradevole, si dirigeva verso di me con un libro in mano, un classico, un greco antico. Era un’intellettuale, una bibliotecaria, e ai miei discorsi proiettati verso quello che stava per accadere (eravamo tra la caduta di Mussolini e l’armistizio), verso il domani, mi rispose con decisione e tranquillità: «Lei è una persona tesa continuamente verso il futuro, ma finché non supererà questo, non farà mai niente». Ci siamo lasciati così e io ho sempre pensato che sia stata una specie di allucinazione, di visione… Io ricado continuamente verso la tentazione o la speranza di dare un senso al presente”, Saveria Chemotti, Fra miele e veleno l’utopia del futuro, in “Il Mattino di Padova”, 5 luglio 1987, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p.475.

[3] Francesco Gambaro, Un fiero narciso con” il vizio della speranza”, “L’Ora”, 29 marzo 1992, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p.635.

[4] Franco Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, 1965, p.170.

[5] Franco Fortini, Intellettuali, ruolo e funzione, in Questioni di Frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965-1977, p.73; il testo è datato 1971.

[6] Rocco Capozzi, Di scrittori, di critici, oggi. Franco Fortini, “L’Immaginazione”, VII, 81, settembre-ottobre 1990, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p.597.

[7] Franco Fortini, Per una critica come servizio, in Dieci inverni. 1947-1957, Bari, De Donato, 1973, p.91; il testo è datato 1951.

[8] Mirella Serri, Dialogo col profeta di classe, in “Pagina”, II, 13, ottobre 1981, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p.295.

[9] Franco Fortini, Introduzione, in Profezie e realtà del nostro secolo. Testi e documenti per la storia di domani, a cura di Franco Fortini, Bari, Laterza, 1965, p.IX.

[10] Franco Fortini, Introduzione, in Profezie e realtà del nostro secolo, cit., p.VII.

[11] Neva Agazzi, Dalla scuola alla piazza. A colloquio con Franco Fortini, in “Cooperazione”, 5 maggio 1988, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit, p.514.

[12] Augusto Vegezzi, Franco Fortini, Ai colleghi e agli studenti, in Passato e Presente. Gli argomenti umani. Antologia per il biennio delle Scuole Medie Superiori, Napoli, Morano, 1969, p.5.

[13] Franco Fortini, Avanguardia e restaurazione, in Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Milano, Garzanti, 1985, pp.29-30.

[14] Franco Fortini, Su un caso disciplinare, in Tre testi su educazione e società, “L’ospite ingrato”, Macerata, VIII, 1 (2005), p.163.

[15] Franco Fortini, Su un caso disciplinare, cit., p.161.

[16] Marco Mauruzj e Donatello Santarone, Franco Fortini. Le catene che danno le ali, in “I Giorni Cantati”, I, 2-3, luglio-dicembre 1981, ora in Un dialogo ininterrotto, cit., p.301. Per questa struttura teorico-politica della ricerca fortiniana e per l’orizzonte del suo dispiegarsi nella produzione del medesimo, mi permetto di rinviare al mio “Dopo lungo giro ed erranza”, in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., pp.XIII-LI.

[17] Franco Fortini, Prefazione a questa ristampa, in Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, pp.18-9 nota 4.

[18] Franco Fortini, Non si dà vita vera se non nella falsa, in Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Quaderno CESDI, Bologna, Guaraldi, 1971, p.113.

[19] Augusto Vegezzi, Franco Fortini, Gli argomenti Umani. Antologia italiana per il biennio delle Scuole Medie Superiori, Napoli, Morano, 1969, p.1232.

[20] Tre interventi sul libro di don Milani, “Quaderni Piacentini”, VI, 31, luglio 1967, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p.112.

[21] Ibidem.

[22] David Harvey, La crisi della modernità, traduzione di Maurizio Viezzi, Milano, Il Saggiatore, 1993, p.273.

[23] David Harvey, ivi, p.295.

[24] Cfr. Vandana Shiva, Il bene comune della Terra, traduzione di Roberta Scafi, Milano, Feltrinelli, 2005.

[25] Credo che sarebbe interessante riesaminare in quest’ottica anche certi aspetti della critica adorniana all’industria culturale, fonte costante dello stesso Fortini.

[26] Questo, per esempio, è il titolo di una sua opera: Luciano Gallini, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011.

[27] Si veda, tra gli altri, l’interessante lavoro di uno studioso, già militante del movimento Occupy Wall Street, David Graeber, Burocrazia, traduzione di Fabrizio Saulini, Milano, Il Saggiatore, 2016.

[28] Mavì De Filippis, Intervista a Franco Fortini, in “La Ragione Possibile”, I, 1, maggio 1990, ora in Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto, cit., p.577.

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