Tre domande (retoriche?) sul sapere
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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Tre domande (retoriche?) sul sapere

di Giuseppe SAPONARO –

1) Cosa nell’Officina dei saperi s’intende per «sapere»?

2) Per impegnarsi nel progetto pratico dell’Officina, basta il sapere (sapientia) o è necessario anche crederci (fides)?

3) Fino a che punto, oggi, il nostro presunto sapere è in verità solo ipotetico o problematico (opinio)?

Ogni sapere già etimologicamente rimanda a un vedere, a una visione del mondo, a un soggetto che vede, o che semplicemente assapora il mondo Nel senso più proprio e originario, il sapere è, nell’immediato, ciò che io so, ciò che io vedo, non solo con gli occhi. Questa imprescindibile soggettività del sapere non significa, ovviamente, che esso sia riducibile sempre e soltanto a una mia personale opinione. Nella cultura europea già Platone considera l’opinare (doxa) una condizione di pensiero collocabile a metà strada tra il sapere vero e proprio, scienza (epistēmē), e il non sapere.

Oltre che un saldo fondamento soggettivo, di cui io posso essere in parte consapevole o semplicemente persuaso, il sapere presuppone necessariamente anche un fondamento oggettivo, ossia il riferimento mediato a una verità valida in modo universale, in mancanza del quale vengono anche meno due caratteri essenziali di ogni autentico sapere, la «certezza» della verità e la conseguente «convinzione», la mia personale e quella di ogni altro soggetto. Trattandosi di sapere umano, le ragioni che lo fondano, tanto le soggettive quanto le oggettive, possono essere sempre soltanto di volta in volta «ragioni sufficienti», mai «ragioni assolute». Di qui il potere e la pretesa di universalità del sapere, di qui anche però la possibilità e il problema di un esercizio egemonico del sapere. La discussione di questo problema, se ho ben capito, è una delle ragioni d’essere della presente Officina.

Il sapere può trovare un suo sufficiente fondamento nelle conoscenze teoriche e sperimentali della natura (e qui, nell’Officina, si può fare affidamento almeno su fisici, biologi, agronomi), benché tali saperi, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, debbano poi presupporre come loro condizione di possibilità dei fondamenti puri (a priori), non desumibili da alcuna esperienza (e qui, nell’Officina, non sono invece nominati i saperi — cosiddetti, per amore dì brevità, «platonici» — della logica pura, della matematica pura, e anche, a maggior ragione oggi, dell’etica pura).

Quando non nei dati freddi e oggettivi della natura, un altro fondamento altrettanto oggettivo e sufficiente del sapere può essere ricercato e scoperto agevolmente nei fatti stessi della cultura umana (verum ipsum factum: io posso sapere la verità, perché io stesso l’ho fatta), in resoconti criticamente vagliati, in documenti, testimonianze, monumenti, prodotti della tecnica, delle arti, dell’ingegno e dell’operare umano in generale (e qui, nell’Officina, anche se scarseggiano al momento gli «artisti» in senso stretto, possiamo già contare su artisti e tecnici in senso più lato, architetti, urbanisti, geografi, oltre che, naturalmente sugli storici della letteratura, dell’arte, del territorio, e sugli storici tout court).

Tutti i suddetti fatti, manufatti, creazioni, costruzioni, essendo opere della cultura, ossia prodotti del «sapere stesso», non sono cose inerti ed estranee, bensì oggettivazioni vive e dinamiche del sapere ivi concentrato e rappresentato. Tali oggettivazioni simboliche del sapere e delle pratiche dei soggetti umani non sono necessariamente tragiche irrimediabili alienazioni di una presunta essenza umana svuotata, derubata e vilipesa, né un suo triste inafferrabile «rispecchiamento». Essi possono invece essere riconosciuti e valorizzati come funzioni e organi indispensabili della mediazione e dell’interconnessione culturale. L’esistenza stessa del «linguaggio», per esempio — la sua forma, il suo uso simbolico, che fino a prova contraria è uno dei caratteri specifici dell’animale homo —, rappresenta efficacemente una tra le molteplici possibili vie e forme della suddetta oggettivazione del sapere. Il soggetto che sa (il sapiente), oltre che a se stesso, parla innanzitutto all’altro soggetto; ogni discorso è un ponte oggettivato per l’interconnessione con ogni altro soggetto in una possibile comunità. Per questa ragione e a questo scopo il fondamento oggettivo di ogni nostra certezza e convinzione non può fare a meno del sapere proveniente da educatori, formatori, sociologi, politologi, giuristi, economisti, antropologi (anche questi ultimi, qui, nell’Officina, non mancherebbero).

Quanto ai filosofi, sospendo al momento il giudizio. Mi limito a prendere atto di un ultimo dato oggettivo, anch’esso facilmente desumibile da tutti i saperi or ora menzionati. Questo dato è al tempo stesso uno dei principali problemi che hanno sollecitato la nascita e la ragion d’essere della presente Officina. Noi sappiamo, di là da ogni presunzione eurocentrica, che il sapere ha raggiunto la piena consapevolezza di sé, come puro e semplice sapere oggettivo, nel concetto classico della sapientia; più esattamente — quale sua ideale personificazione («soggettivazione») — esso si è individuato nella figura emblematica del «filo-sofo» (nell’amante bisognoso della sapienza), una figura ideale, che si è voluto in seguito antropologizzare, biologizzare, naturalizzare, politicizzare come «Homo sapiens».

Questa idea originaria faceva coincidere il fondamento soggettivo e il fondamento oggettivo del sapere in un’unica inscindibile identità. Oggi, alle soglie del difficile inserimento dell’Europa in un universo globalizzato, dobbiamo costatare che nel corso del tempo — sicuramente ben prima del demonizzato «neoliberismo» — non solo il sapere si è via via depositato, pietrificato, in inerti compendi scolastici o in contenitori più o meno enciclopedici, non solo tutti i suoi contenuti, pur ricchi, utili, continuamente crescenti, si sono fino al parossismo parcellizzati e dispersi in un’infinità di classi e sottoclassi etichettate come «scienze», ma — ecco il vero paradosso — la presunzione di sapere va sempre più personalizzandosi nella prestazione anarchica del singolo «imprenditore di sé», proprio nel momento in cui sempre più netta e decisa sembra essere la separazione dell’originaria sapienza dalla «vita personale».

A questo punto, dunque, la filosofia pare non abbia più né soggetto né oggetto, mentre il filosofo si è quasi del tutto volatilizzato nel vuoto, se non sublimato in un’equivoca unione mistica col Nulla, con l’Essere, con il Tempo, con l’Irrazionale, con l’Assoluto. Non potranno di conseguenza esserci specialisti filosofi neppure nella presente Officina, salvo che — ecco il punto — il seme dormiente, rimasto a lungo sepolto in ciascuno di noi, non sia ridestato e non ricominci a germogliare, a fruttificare. Non ci potrà essere vera sapientia, se di nuovo i singoli portatori del sapere, oggi così parcellizzato, non ritorneranno a essere, tutti insieme, anche un po’ filosofi; e se, da parte loro, i presunti filosofi, smesso il pianto esistenziale, elaborato il lutto, non riprenderanno anch’essi con serietà e continuità il lavoro diretto e concreto in un qualche campo del sapere, senza l’illusoria presunzione di dominarli tutti. Qui, nella presente Officina, vero sapiente dovrà essere «il filosofo collettivo», oppure non sarà.

Questa prospettiva si presta certamente a molti dubbi e critiche. Se si considera, tuttavia, l’esistenza del sapiente non più, con sufficienza o commiserazione, come una figura condannata all’irreversibilità del passato, bensì, con audacia critica associata al senso del limite, come un «compito» tutto da realizzare e, prima ancora, come un «problema» capitale del nostro presente, allora la miseria vorticosa dei fatti materiali, nudi e crudi, smetterà forse di risucchiare anche la dignità di ogni valore ideale. Tale fu, tale è, tale resterà lo stesso concetto del sapere, come pure la possibilità dell’unità armonica di tutti i saperi. Solo un’idea, un puro ideale, né da rimpiangere, né da poter possedere o padroneggiare in toto, ma semplicemente da «praticare» nella misura ed entro i limiti sufficienti allo scopo, per quanto ambizioso, che l’Officina vorrà perseguire.

Se però il sapere assoluto ci è negato, se dobbiamo accontentarci di pensare e conoscere entro i limiti universali consentiti dall’umana ragione, allora la pratica effettiva del nostro sapere, oltre che andare in frantumi, come di fatto già accade, non rischia anche di disperdersi e di vanificarsi nel magma caotico della nostra doxa quotidiana? Il rischio sussiste, ma non è impossibile rimediare. Ciascuno ha il diritto di opinare in piena libertà, ma dovrebbe anche ritrovare il coraggio di fare un uso critico e avveduto della propria intelligenza. Io, per esempio, posso anche supporre che la «razionalità tecnica» sia la fonte principale dei mali del mondo; questa mia è solo un’ipotesi, ancora tutta da vagliare con gli strumenti adeguati del sapere; la mia certezza è finora solo problematica, e di ciò devo restare consapevole fino a prova contraria. Se però, inavvertitamente o deliberatamente, in modo assertorio io faccio un uso dogmatico di questa mia certezza (semplicemente problematica), spacciandola per vero «sapere», magari anche scrivendola a chiare lettere sul mio tablet di ultima generazione, ecco che entro in contraddizione con la mia stessa razionalità; ora il mio discorso non è più credibile; a sua volta non è più affidabile la stessa sede in cui esterno questa presunta verità.

Non mi resta, dunque, che mantenere sempre desta la consapevolezza che il fondamento del mio semplice opinare, tanto oggettivamente quanto soggettivamente, non è mai sufficiente. D’altro canto e per altra via, io potrei però avere delle buone ragioni per ritenere ingiusto e sbagliato, scellerato e suicida l’«uso» pratico e teoretico che arbitrariamente si fa della tecnica — ragioni, magari etiche o politiche, che io riconosco soggettivamente sufficienti (solo per me), anche se non ancora oggettivamente sufficienti (per tutti) — ebbene, in tal caso, io potrei pur sempre fondare il mio giudizio solo sulla mia buona volontà, per l’esattezza sulla mia ferma fede: io lo asserisco, perché ci credo. E se altri credono come me, allora non solo posso, ma ho anzi il «dovere» di stringere un patto indistruttibile con loro (fides). In questo modo non avrò certo raggiunto la certezza apodittica, che è propria di una conoscenza rigorosa e fondata; dovrò anzi dimostrare e valorizzare al massimo grado possibile il mio sapere, appunto perché lo riconosco ancora insufficiente, problematico, ipotetico. Dovrò inoltre, se sono anche un po’ filosofo, affrontate la dura «fatica del concetto», ma, nello stesso tempo, avrò pur sempre fatto un passo in avanti rispetto alla mera doxa.

Soprattutto non cadrei senza volerlo nell’illusione capitale: scambiare o spacciare per oggettivo un fondamento di verità soltanto soggettivo. Il che sarebbe già un risultato di non poco conto.

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