UN’ALTERNATIVA SOLIDA E DEMOCRATICA PER BATTERE LA “CONTROEGEMONIA CULTURALE” da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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UN’ALTERNATIVA SOLIDA E DEMOCRATICA PER BATTERE LA “CONTROEGEMONIA CULTURALE” da IL FATTO

Contro-concerto da destra: fare la festa al lavoro

 

GAD LERNER  1 MAGGIO 2023

Questo 1° Maggio all’incontrario, col governo che si riunisce per trasformarlo nella festa del lavoro purchessia, e pazienza se ciò comporterà pagarlo meno e renderlo ancor più precario, rientra nell’offensiva di destra che va sotto il nome di “controegemonia culturale”.

Non a caso Giorgia Meloni rispolvera il vecchio epiteto dispregiativo triplice all’indirizzo dei sindacati: col decreto che abolisce il reddito di cittadinanza, alza il tetto dei voucher e facilita i contratti a termine, vuole occupare il centro della scena di fronte ai cortei dei lavoratori e al Concertone di piazza San Giovanni. Suonerà la grancassa della riduzione del cuneo fiscale – una manciata di euro in più nella busta paga degli occupati, sottratti ai disoccupati in età lavorativa – scommettendo sul definitivo venir meno della solidarietà di classe fra i soggetti deboli della nostra società.

La sfida aperta di Giorgia Meloni alla Cgil di Landini è un azzardo. Trae ispirazione dal recente convegno degli intellettuali di destra che, richiamandosi con invidiosa ammirazione al pensiero di Gramsci, la incoraggiavano per l’appunto a cimentarsi nel tentativo ambizioso di una “controegemonia culturale”. Ma qui mica si tratta solo di contestare la presenza di Mattarella e Benigni al Festival di Sanremo. Qui si tratta di far digerire agli italiani lo smantellamento definitivo di un sistema di garanzie del lavoro salariato. Già anticipato dal codice degli appalti e dalla promessa di sgravi fiscali “per tutti”, ricchi e poveri.

Per questo ci troviamo a vivere un surreale 1° Maggio all’incontrario. Anziché la festa del lavoro, qui si vuole fare la festa al lavoro. I giornali della famiglia Angelucci (e non solo loro, purtroppo) rispolverano la guerra ai “fannulloni”. Loro si sono arricchiti con la sanità privata e non gli dispiacerà certo continuare a spillare soldi ai lavoratori per fare gli esami e le cure mediche impossibili da ottenere gratis visti i mancati investimenti nel welfare.

Stavolta, però, la provocazione del governo rischia di tradursi in un autogol perché svela il profilo demagogico della “destra sociale”. Nel paese che detiene il record negativo dei bassi salari e dello sfruttamento dei giovani precari, il decreto del 1° Maggio non farà che legittimare questo andazzo, a vantaggio di una classe imprenditoriale cui si concede briglia sciolta. Il cattivo esempio, del resto, viene dal pubblico impiego: il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, annuncia in pompa magna uno stanziamento per i tutor, gli insegnanti che dovrebbero seguire i ragazzi in difficoltà nel pomeriggio. Ma poi si scopre che verranno pagati 7,34 euro lordi l’ora.

Suona beffardo che il Mef motivi la riduzione del cuneo fiscale (solo 16 euro al mese!) quale “contributo alla moderazione della crescita salariale”. Dove la vedono questa crescita salariale? Qualunque sia il colore politico del governo, è mai possibile che fra le sue priorità non rientri un’azione di contrasto alla vergognosa diffusione del lavoro povero? Certo, essa implicherebbe un maggior carico fiscale sui grandi patrimoni, sugli alti redditi, sugli extra-profitti. Ma qui casca l’asino. L’ideologia della destra italiana non mette al centro il lavoro bensì l’impresa produttrice di ricchezza, che lo Stato dovrebbe proteggere in nome del “lasciar fare”. Il predicozzo rivolto da Meloni a Landini sul diritto di lavorare il 1° Maggio contiene un messaggio ben preciso: trasformare la Festa dei lavoratori nella Festa dei padroni.

Dai media&C. un rigore a porta vuota per le destre

 

 CARLO DI FOGGIA   1 MAGGIO 2023

Novembre 2021: la sociologa Chiara Saraceno presenta il rapporto degli esperti chiamati dal ministero del Lavoro a migliorare il Reddito di cittadinanza. Una cronista le chiede se non trovi immorale consentire ai beneficiari di non spendere tutto l’assegno nel corso del mese o usare i soldi per comprare “tv e altre cose così”. Saraceno stupita risponde che i poveri non hanno meno esigenze degli altri, comprese quelle di risparmiare, e che fare questi ragionamenti su una misura che in media vale 500 euro a nucleo beneficiario (non a singolo percettore) significa non avere nessuna idea di cosa sia la povertà.

Non esiste forse immagine migliore per spiegare perché, un anno e mezzo dopo, ci troviamo di fronte allo sfregio che il governo Meloni ha deciso di compiere oggi, approvando il giorno della festa dei lavoratori un decreto che elimina il Rdc e li rende più ricattabili. Come ha sottolineato più volte questo giornale, quello di Meloni è stato un rigore a porta vuota. Il lavoro sporco lo ha fatto la grande stampa amplificando una narrazione anti-Reddito avulsa dai dati. La realtà la leggete in queste pagine: il nostro modello industriale non regge nemmeno la “concorrenza” di un sussidio anti-povertà (come ha ammesso il leader confindustriale Carlo Bonomi). Meloni vince grazie all’abbandono del campo: i sindacati non ne hanno fatto un cavallo di battaglia, il Pd nemmeno. L’aneddotica razzista che ha accompagnato la lotta alla povertà in Italia fin dagli Anni 50, anche a sinistra, e il declino economico hanno reso la pubblica opinione ostile a una misura di puro buonsenso che esiste in tutta Europa. Il Rdc è l’ultima tappa della sfida persa dal lavoro con il capitale. Meloni ne raccoglie solo i frutti.

Contro questa destra serve un’alternativa solida e democratica

Giovanni Valentini  29 APRILE 2023


“Il fascismo non è un’opinione, è un crimine”
(Giacomo Matteotti, 1885-1924)

Non abbiamo risparmiato su questo giornale articoli polemici e critici nei confronti di Giorgia Meloni, fin dalla vigilia elettorale e dal suo avvento al governo. La fiamma tricolore nel simbolo di Fratelli d’Italia, la continuità con il Msi di Giorgio Almirante, la contiguità con movimenti di estrema destra come Forza Nuova e CasaPound. E soprattutto, abbiamo sollecitato più volte la premier a dichiararsi antifascista, nel rispetto della Costituzione a cui ha giurato fedeltà.

“Non capisco la ritrosia di Meloni sull’antifascismo”, ha eccepito recentemente in tv Gianfranco Fini, fondatore di Alleanza Nazionale, il partito che attraverso il bagno nelle acque di Fiuggi ruppe nel 1995 con quella tradizione, avviando il percorso di una nuova destra che tendeva a diventare liberale e conservatrice. Sembrò l’inizio di una svolta in direzione di una democrazia dell’alternanza, per favorire il ricambio alla guida del Paese. Ma è appena il caso di ricordare che Fratelli d’Italia è nato poi in discontinuità rispetto ad An.

Sono passati trent’anni e non si può dire che oggi il governo della destra rappresenti un’evoluzione sul terreno democratico. Dalle politiche economiche e sociali ai diritti civili, l’esecutivo guidato dalla presidente Meloni appare inadeguato ad affrontare la crisi provocata prima dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina, come dimostrano l’incapacità di utilizzare i fondi europei del Pnrr e lo “scivolone” parlamentare sul Def. Né possono essere derubricate a gaffe occasionali le frequenti e scomposte “esternazioni” dei suoi ministri, dal “carico residuale” dei migranti alla “sostituzione etnica” fino alle ambiguità del presidente del Senato. Queste sono il riflesso di una matrice politica che affonda le radici proprio nell’ideologia fascista.

Tutto ciò non toglie, però, che si possa riconoscere qualche passo avanti sulla strada dell’emancipazione, come ha fatto il leader del M5S, Giuseppe Conte, apprezzando alcuni passaggi della lettera inviata dalla presidente del Consiglio al Corriere della Sera in occasione del 25 Aprile. Non è trasformismo, bensì realismo politico. Un conto è il governo, a cui i Cinquestelle si sono opposti finora con determinazione; un altro conto è il tentativo di uscire da una storia che ha “conculcato i valori democratici”, per citare testualmente un’espressione della premier.

Noi, ancor meno di Fini, riusciamo a capire la sua “ritrosia”. Ma a questo punto dobbiamo domandarci: basta oggi un “antifascismo democratico” per contrastare il governo della destra? Oppure, occorre uno scatto, una mobilitazione, per preparare e offrire ai cittadini italiani un’alternativa praticabile? Vale a dire per aggregare uno schieramento riformatore e progressista, in grado di candidarsi al governo del Paese?

La prospettiva delle prossime elezioni europee 2024, in cui si vota con il sistema proporzionale, non favorisce evidentemente convergenze o alleanze. Eppure, il Pd e il M5S dovrebbero cominciare fin da ora a predisporre una piattaforma di contenuti e obiettivi su cui impostare un programma di governo. Se continueranno a farsi concorrenza, come ha già avvertito Antonio Padellaro su queste pagine, rischieranno di perdere pezzi e consensi. Si tratta di elaborare una visione comune della società, fondata sulla giustizia sociale e sulla solidarietà, attraverso un confronto leale e alla luce del sole. La tutela del lavoro, la salvaguardia dell’ambiente, la transizione ecologica e digitale, il pluralismo dell’informazione: sono questi i capisaldi su cui costruire in concreto un’alternativa democratica e antifascista.

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