STRATEGIE DI POTERE e SCELTE POLITICHE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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STRATEGIE DI POTERE e SCELTE POLITICHE da IL MANIFESTO

Se il Pd sposa l’Agenda-Draghi, serve un’altra casa

Sinistra. La diffusione di analisi e ironie (spesso giustificate) sul ‘complottismo’, ora concentrate su no-vax e no-pass ma ricorrenti anche su altri fenomeni, rischia di far perdere di vista un fatto: la comprensione del potere e la fascinazione per distopie cospirative non sono la stessa cosa

Loris Caruso  28.10.2021

La diffusione di analisi e ironie (spesso giustificate) sul ‘complottismo’, ora concentrate su no-vax e no-pass ma ricorrenti anche su altri fenomeni, rischia di far perdere di vista un fatto: la comprensione del potere e la fascinazione per distopie cospirative non sono la stessa cosa.
Naturalmente, il potere non è un’entità divina che tutto conosce, tutto prevede e tutto piega alla propria volontà. Ma il potere esiste, è concentrato in settori ristretti della società e oltre a una dimensione orizzontale (quella della dialettica tra dominanti e subalterni) ne ha una verticale, di ‘comando’ (complesso, stratificato, ma pur sempre comando), sulla società.

Le strategie del potere sono parte delle dinamiche politiche e sociali. Con strategia si intende qui una “forma d’azione finalizzata a raggiungere obiettivi funzionali a difendere interessi sociali”. I mezzi di comunicazione principali definiscono ‘complottismo’ ogni tentativo di individuare le forme d’azione del potere (per esempio i legami tra economia e politica), che è invece essenziale per pensare e agire politicamente.
Una strategia delle élite è stata visibile, per esempio, nel caso della caduta del secondo governo Conte: i protagonisti (da Renzi, a Confindustria, ai loro media) ne parlavano esplicitamente già un anno prima, la annunciavano.

Ora ne sta emergendo un’altra: la costruzione di un nuovo equilibrio di governo di medio periodo basato su Partito democratico, Forza Italia, area centrista (Renzi e Calenda) e magari la parte ‘governista’ della Lega guidata da Giorgetti. Il M5S potrà far parte di questo equilibrio se proseguirà il suo quasi-assorbimento da parte del Pd, altrimenti si cercherà di renderlo ininfluente (con il suo aiuto).
Per chi ha questa prospettiva, dopo Draghi dev’esserci ancora Draghi, in persona (alla presidenza del consiglio, anche dopo le elezioni politiche, o a quella della Repubblica) o inteso come Agenda Draghi (fortemente sovrapposta a quella di Confindustria) e come metodo di governo basato sulle larghe intese.

Come nel precedente di Conte, non c’è bisogno di inclinazioni complottiste o doti divinatorie per cogliere questo tentativo: ne parlano insistentemente gli editorialisti dei principali quotidiani nazionali, gli onnipresenti opinionisti televisivi ed esponenti politici di primo piano (come Brunetta) anche di centrosinistra. Se questa prospettiva sia destinata a realizzarsi dipende principalmente dal Partito democratico, che ne sarebbe il soggetto centrale.
Il Pd ha considerato la sua vittoria elettorale nelle grandi città una conseguenza della sua piena adesione al governo e all’Agenda Draghi, con argomenti e dichiarazioni che lasciano trasparire un sostegno che, lungi dall’essere forzato, appare quasi una collocazione strategica.

L’alleanza con il M5S è invece meno strategica di quanto possa apparire. Più volte il Pd è stato disponibile ad anteporre la sua funzione di ‘equilibratore di sistema’ alle proprie alleanze politiche, perché questo partito è da considerare, più che una parte politica, una parte dello Stato, cioè il garante degli equilibri istituzionali, il riferimento dei rapporti internazionali dell’Italia e lo stabilizzatore dei rapporti tra èlite economica e sistema politico.
Lo si vede anche nella discussione sulla manovra di bilancio. I democratici non assumono posizioni ‘di parte’ diverse da quella del premier. Anche di fronte alla retorica populista ed elitaria dei ‘vecchi privilegiati difesi dai sindacati contro i giovani precari’, con cui i media rappresentano il dibattito sulle pensioni, non solo non levano una voce in controcanto, ma sembrano appoggiare la retorica mainstream.

Un’analisi realistica delle prospettive del centro-sinistra non può non considerare la natura di questo partito. Un serio confronto con i fatti non è quindi detto che conduca, come sostiene il segretario di Sinistra Italiana (il manifesto, 26/10), a considerare efficace, per la sinistra, la collocazione nel centro-sinistra. In primo luogo, non è scontato che questa sarà la strategia del Pd. In secondo luogo, il bilancio delle esperienze di centrosinistra a livello nazionale, regionale (per esempio nell’Emilia-Romagna di Bonaccini) o amministrativo (come nella Milano di Sala), non fa rilevare una capacità di incidenza della sinistra sulle scelte e la postura strategico-programmatica del Pd.

Forse, di fronte a un’analisi realistica dello scenario politico e della natura del Partito democratico, sarebbe più efficace realizzare un progetto politico innovativo rivolto a una parte del vasto astensionismo popolare, all’elettorato progressista deluso da Pd e M5S, e a un mondo di attivisti e militanti di sinistra dotati di una voglia d’azione che in questo momento non ha casa.

La politica fiscale come lotta di classe alla rovescia

Tasse. Se prendiamo la sanità, solo per fare un esempio, con questa «riforma» le tasse si taglierebbero ai primari ospedalieri, non certo agli infermieri

Luigi Pandolfi    28.10.2021

È una questione di classe. O, che forse è più corretto, uno dei tanti approdi della lotta di classe alla rovescia, dei ricchi contro i poveri. Non è stato sempre così.
Il «taglio delle tasse», da decenni a questa parte, è il principale assillo dei neoliberisti. Anche quando le crisi, come quella in atto, richiederebbero interventi redistributivi e più tasse per chi può pagarle.
Nei secoli e nei millenni passati quando la situazione lo richiedeva – guerre, terremoti, per l’appunto epidemie – i prìncipi mettevano le mani sulle fortune dei possidenti, con nuove tasse o provvedimenti di esproprio, senza distinzione tra ricchezza dei laici e ricchezza dei chierici (si ricordi il caso della “Cassa sacra” istituita dal re di Napoli dopo il terremoto del 1783). Adesso, invece, le situazioni emergenziali diventano l’occasione per un’operazione opposta: il taglio delle tasse agli abbienti ed alle imprese. Il mitico ceto medio e quelli che «creano il lavoro».

Che poi, nel primo caso parliamo ormai di una minoranza della società e, nel secondo, di imprese che il lavoro tutt’al più lo domandano, quando ce ne sono le condizioni (se c’è chi domanda i loro servizi e i loro prodotti), ma assolutamente non lo «creano» (se c’è una macchina che fa risparmiare lavoro, il capitalista sceglie sempre la macchina, come ricordava Carlo Marx a proposito della «caduta tendenziale del saggio di profitto») .
Il governo dei migliori pensa comunque che nella situazione data, con una crisi che morde come sempre gli ultimi della società (lo ricordava bene Papa Francesco nella sua lettera ai Movimenti popolari lo scorso 16 ottobre), si possano sacrificare otto miliardi di euro per «abbassare le tasse» (l’intenzione è nel Documento programmatico di bilancio inviato a Bruxelles).

A chi? Ad una minoranza di abbienti della società, ovviamente. Anche perché i poveri sono per definizione degli «incapienti», il loro problema non è l’imposta sul reddito ma il reddito stesso, che non c’è o è del tutto insufficiente a far fronte ai bisogni materiali della vita.
Scendiamo nel merito e diamo qualche numero.
L’idea del governo, suffragata da un documento approvato da tutti i partiti di maggioranza nelle Commissioni Finanze di Camera e Senato dello scorso 30 giugno, sarebbe quella di ridurre l’aliquota marginale del 38% dell’Irpef al 34-35% (redditi da 28.000 a 55.000 euro). Fino a 28 mila euro di reddito, quindi, nessun beneficio. Fuori l’80% dei contribuenti. Guadagnerebbero invece da 600 a 1000 euro all’anno i contribuenti con reddito compreso tra i 28 mila e i 75 mila euro all’anno. Il 20% del totale. Con beneficio più sostanzioso per una platea ristretta del 2,2% degli stessi. Se prendiamo la sanità, solo per fare un esempio, con questa «riforma» le tasse si taglierebbero ai primari ospedalieri, non certo agli infermieri.

C’è discussione però nel governo. Confindustria preme affinché a guadagnare dal «taglio delle tasse» siano maggiormente le imprese. Il vecchio e caro «cuneo fiscale». Chiedono che la forbice dell’esecutivo addenti anche i contributi previdenziali e l’Irap. Non bastano i soldi a fondo perduto, i bonus e gli incentivi, i denari «dell’Europa».
Loro che «creano» il lavoro non possono badare – o badare del tutto – anche alla pensione dei lavoratori ed alla sostenibilità del sistema sanitario nazionale (il gettito dell’Irap è attribuito quasi tutto alle regioni per sostenere la sanità pubblica).

L’imprenditore, «rischiando» in proprio, concorre al benessere complessivo della società («Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse», aveva ammonito Adamo Smith). Se c’è crisi, bisogna mettere l’imprenditore nelle condizioni di far ripartire l’economia. Mica parliamo di filantropi. E un governo sensibile ai «bisogni dell’economia» non può che prendere in considerazione certe richieste.
E se togliere di mezzo l’Irap non è possibile, almeno la si riduce. Segnali alle imprese, che è la stessa cosa che dire «segnali all’economia» o «segnali ai mercati». Perché l’impresa è impersonale, come la sempiterna «mano invisibile». Il governo delle «migliori» opportunità per chi è abituato a cadere sempre in piedi.

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