SINISTRA VO’ CERCANDO da IL MANIFESTO
La divisione delle sinistre è il progetto perdente
Il dibattito. La forza d’attrazione del Pd e il richiamo del voto utile, non salvano l’anima ai dirigenti delle varie sinistre, incapaci di esprimere un disegno di crescita unitariaPiero Bevilacqua 04.11.2021
L’intervento su questo giornale di Nicola Fratoanni ( 26/10 ) e di Loris Caruso (28/10) per opposti motivi vincono il senso di frustrazione a tornarei sulla condizione e il destino della sinistra italiana, a seguito della discussione generosamente avviata da Norma Rangeri (qui e qui).
Il segretario di Sinistra Italiana non vede davanti a sé, e alla sinistra tutta, nessun’altra prospettiva se non il campo del centro-sinistra.
Tanta ampiezza di visione francamente sconforta dopo il misero risultato del 2,5%, raccolto dalla lista “Sinistra civica ed ecologista” alle elezioni comunali di Roma.
Intendiamoci, la scelta di sostenere la candidatura di Gualtieri era obbligata, occorreva sbarrare la strada a una destra plebea e culturalmente fascista, dare alla città almeno una figura di sindaco progressista e autorevole. Ma queste sono scelte tattiche, che può fare un partito con una sua fisionomia autonoma, decidendo di allearsi con il Partito democratico quando la situazione lo rende utile, quale variabile all’interno di una strategia più generale.
Nella visione di Fratoianni SI appare una rassegnata appendice del Pd che persegue una originale forma di minoritarismo, non settario, ma subalterno. Come se il fine di quel partito non fosse la trasformazione della realtà attraverso l’organizzazione e la direzione del conflitto, ma l’affermazione elettorale, la presenza in Parlamento. E quindi come se bastasse esprimere una posizione politica di sinistra per avere quel risultato.
Così passano gli anni e non si assiste mai alla nascita di una idea, una iniziativa, almeno a un dibattito nazionale, con studiosi e cittadini, sui grandi temi italiani, dal lavoro al Mezzogiorno. Silenzio.
Caruso svolge una lucida analisi della collocazione e del senso di direzione del Pd nello scenario politico italiano di oggi. Io vorrei aggiungere qualche considerazione in prospettiva storica, e. non posso non ricordare che il Pd è, nelle sue fondamenta, un errore strategico. Non solo perché, “un amalgama mal riuscito”, ma soprattutto una camicia di forza imposta alle varie culture politiche nazionali, uniformandole in una politica centrista nella fase di scatenamento del capitalismo su scala mondiale.
Non a caso quella camicia si è subito strappata, mentre l’imposizione di un sistema elettorale maggioritario ha contribuito all’emarginazione delle forze politiche minori.
Il bipartitismo anglo-americano che si è voluto importare in Italia come un prodotto di Hollywood, da noi è arrivato quando nei paesi d’origine era già logoro. Chi si ricorda dei programmi elettorali più o meno identici dei Laburisti e dei Conservatori inglesi, dopo gli anni della Thatcher, rilevati nientemeno che dal Financial Times, entrambi sostenuti da un robusto impianto neoliberista? E non è stato così per decenni anche negli Usa con i Democratici che si erano resi indistinguibili dai Repubblicani? E da dove è uscito Trump se non dal vasto impoverimento della middle class, che il bipartitismo non rappresentava più da almeno un ventennio? Tutto il populismo europeo non è solo figlio della globalizzazione e della crisi del 2008, delle politiche austere dell’Ue, ma del fatto che a milioni di cittadini, i quali vedevano peggiorare la loro vita di anno in anno, non è stato neppure offerta una interpretazione classista e politicamente avanzata di quel che stava loro accadendo.
Quali sono oggi i risultati che il Pd può vantare dopo la lunga presenza, a vario titolo, nei governi nazionali? Qualcuno è in grado di indicare un ambito della vita sociale dell’Italia la cui condizione è migliorata? Nell’assetto e nella qualità del lavoro? Nella condizione femminile? Nella scuola e nell’università? Nella sanità? Nel sistema fiscale? Nello stato delle nostre città? Negli assetti dell’ambiente e del territorio? Nella condizione giovanile e del Mezzogiorno? 15 anni di generale regresso.
Da quando è nato nel 2006 il Pd, con il suo moderatismo, ha obiettivamente costituito una forza di conservazione negli equilibri sociali del Paese. Ma è stato anche un fattore di immobilismo disordinato del sistema politico.
E’ il suo peso uno degli ostacoli che impedisce la nascita di una formazione alla sua sinistra, a causa della forza di attrazione che ancora esercita grazie alla presenza al suo interno di dirigenti stimabili, per il ruolo che vi hanno ancora amministratori locali onesti e capaci, per la sua struttura organizzativa nei territori, per la forza inerziale di una tradizione sopravvissuta nella mente di tanti vecchi militanti ed elettori del Pci.
Questa evidente verità, tuttavia, non salva l’anima ai dirigenti delle varie sinistre, che nulla fanno per sfuggire alla forza calamitante di questa nuova Democrazia Cristiana. Quello che Rifondazione Comunista e Potere al Popolo dimenticano, quando rivendicano la loro presenza nei luoghi dei conflitti, o la coerenza classista delle proprie posizioni, è che questi sforzi contano poco se non si configurano in un più ampio disegno di crescita politica unitaria.
Le parole d’ordine più avanzate si perdono nell’aria, insieme alla pubblicità, se non si comunica l’idea di avere la forza per poterle perseguire. Non si deve dimenticare che le loro percentuali di consenso esprimono una valutazione di natura elettorale, non di merito. I cittadini tengono cioè conto del loro reale potere d’azione. Il voto della minoranza che oggi va alle urne è un “voto utile”.
Un sondaggio rivela la voragine tra politica e società
Pier Giorgio Ardeni 04.11.2021
Mentre Enrico Letta, a margine del summit del G20, riceveva i leader riformisti di un fantomatico nuovo «Ulivo mondiale», il «G20 della sinistra» è parso tanto ininfluente quanto confuso. Incapace di guardare il mondo e guardarsi dentro.
Partiti progressisti e sinistre, ovunque in cerca di identità, procedono a tentoni. Inabili di farsi una ragione della piega che hanno preso le vicende del pianeta, convulsamente oscillanti tra desuete certezze e nuovi «bisogni» che non sanno interpretare.
Eppure, a supporto del mini-summit di Roma, era stato commissionato uno studio, un’indagine svolta dall’agenzia di sondaggi YouGov in collaborazione con il network Global Progress, effettuata su venti paesi e su un campione di ventiduemila persone. E nella ricerca c’è molto su cui riflettere, chissà se la sinistra nostrana (tutta) vorrà farlo.
In Italia, solo il 31% degli intervistati pensa che il Paese «stia andando nella direzione giusta» (più di francesi, olandesi, inglesi e americani) e «solo» il 48% ritiene che stia andando nella direzione sbagliata. Noi, però, siamo tra quelli che ritengono che quando le cose cambiano sia per il peggio (il 48%, come i polacchi, più di tutti gli altri).
Alla domanda «nei prossimi dieci anni, cosa sarà peggio?», gli italiani mettono al primo posto, la situazione abitativa (69%) e le disuguaglianze economiche (66%). Nessun altro pone la questione dell’equità in cima ai suoi pensieri, a parte i portoghesi (67%), i cechi (61%), i francesi e gli spagnoli (59%) e i brasiliani (57%). Tra ciò che gli italiani più lamentano, c’è, in testa, la possibilità di «influenzare le scelte di chi governa», oltre alla disuguaglianza (come francesi, inglesi, cechi e indonesiani). Cosicché, la «qualità della vita», alla fine, risulta la questione che più preme agli italiani, più della «prosperità» o della criminalità.
Quando si parla di «salute dell’economia», gli italiani in maggioranza ritengono che sia la capacità di offrire un’occupazione che sia ben retribuita per tutti più che il livello della crescita. Ed è la famiglia e il crescere i propri figli che gli italiani valutano come il contributo più importante che possono portare alla società (più della partecipazione politica o del lavoro volontario). Sono la chiusura, la paura di vedere infranto il sogno del benessere e la sfiducia nel futuro che si manifestano, peraltro, nell’atteggiamento nei confronti dell’immigrazione. Più di ogni altro Paese, infatti, noi riteniamo che gli attuali livelli di immigrazione siano troppo alti (64%), che le «regole» devono essere più «chiare» e che gli immigrati devono più chiaramente sottoscriverle.
Certo, gli italiani sono sensibili ai temi dell’ambiente, meno di spagnoli e olandesi e più degli altri, ma solo il 66% di loro è in favore del green pass vaccinale (meno di neozelandesi, australiani, spagnoli, portoghesi e inglesi e appena più degli altri europei).
E siamo i più «isolazionisti» al mondo: soltanto il 31% – la quota di gran lunga più bassa di tutti, americani inclusi – ritiene sia importante un’alleanza forte con le altre democrazie. E solo il 49% ritiene che sia importante «vigilare per difendere la democrazia».
Del resto, negli ultimi anni tutti i sondaggi dei nostri istituti di ricerca hanno evidenziato come, nonostante la maggioranza degli italiani non abbia dubbi che la democrazia sia preferibile a qualsiasi altra forma di governo, è però alta anche la percentuale di quanti ritengono che essa può funzionare anche senza partiti (soprattutto tra i giovani e i giovani adulti). I partiti trovano l’approvazione di solo il 10% o meno della popolazione e più della metà di questa ritiene che il Paese debba essere guidato da un leader «forte».
Peraltro, la sempre minore partecipazione elettorale è un chiaro segno della disaffezione verso la democrazia e i partiti. Alle ultime elezioni ha votato un italiano su due. Il trend dell’affluenza alle elezioni politiche è stato negli ultimi decenni in costante declino. Ma ai nostri leader della sinistra, di governo e di opposizione, sembra bastare che solo una parte della società li segua, come dimostra il gaudio per i risultati elettorali recenti, nonostante l’alto astensionismo (non un voto in più, ma basta avere la maggioranza).
Con i dati visti sopra, invece, si dovrebbe ascoltare il Paese, non tirare diritto con chi ti viene dietro.
Il Paese smarrito, che sente sul proprio corpo il peso delle disuguaglianze, acuite dalla pandemia, che non si riconosce nella politica, che confusamente chiede un governo che agisca in modo equo, è sempre più lontano, perché non si sente rappresentato.
Ma la sinistra dove guarda? Cieca, non riesce ad allargare i suoi orizzonti, accontentandosi dei suoi «due terzi». Non riusciamo più a tenere insieme una società diseguale e divisa, e, ciò nonostante, la sinistra si è adattata all’idea che basta il sostegno di una parte e se qualcuno resta escluso, tant’è, anche se è tra quelli che andrebbero protetti. Peccato che doveva essere la sinistra a fare degli esclusi «i protagonisti della storia».
Nel buio di questa nuova epoca, resteranno i dannati della terra.
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