QUEL “SISTEMA TOSSICO” CHE INNERVA IL LAVORO CONSUMANDOCI LA VITA da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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QUEL “SISTEMA TOSSICO” CHE INNERVA IL LAVORO CONSUMANDOCI LA VITA da IL MANIFESTO e IL FATTO

Quel «sistema tossico» che innerva il lavoro consumandoci la vita

TEMPI PRESENTI. A proposito di «Le grandi dimissioni», l’ultimo volume di Francesca Coin di recente pubblicato da Einaudi. Il salario minimo è una misura che appare necessaria, compresa la critica alla cultura antisindacale. Le donne sono oggi le più penalizzate dai processi di inclusione differenziale del neoliberismo. Sono anche le più disposte a scommettere sull’altrove e a ricominciare da capo

Cristina Morini  17/09/2023

Il libro di Francesca Coin da poco uscito per Einaudi, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (pp. 288, euro 17.50), è innanzitutto un testo sulla «libertà». Un concetto complesso, spesso deformato da questi tempi di democrazie illiberali e di libertà neoliberiste. Addentrarci troppo ci porterebbe lontano, ma si può notare che esso si confronta da sempre, nelle letture che ci appassionano, con i rapporti di potere, di produzione e sociali sui quali si fondano le forme dell’oppressione.

Simone Weil scrive nel 1934: «La storia dell’umanità viene a coincidere con la storia dell’asservimento che fa degli uomini, oppressi e oppressori, il puro zimbello degli strumenti di dominio che essi hanno fabbricato, e riduce così l’umanità vivente a essere cosa tra le cose inerti».

In questa interpretazione, precisamente politica ma che non manca di partecipazione lirica per la condizione dell’umanità, «la libertà vera» potrebbe darsi per l’essere umano «qualora le condizioni materiali che gli permettono di esistere fossero esclusivamente opera del suo pensiero che dirige lo sforzo dei suoi muscoli».

Simone Weil, 1934

«La storia dell’umanità viene a coincidere con la storia dell’asservimento che fa degli uomini, oppressi e oppressori, il puro zimbello degli strumenti di dominio che essi hanno fabbricato»

EBBENE, la base del ragionamento di Coin da qui ci induce a osservare fino a quali profondità si sia spinta la pervasività e l’intensificazione del lavoro imposta da un «sistema tossico» che si articola su più piani e non è disponibile a pensare l’autodeterminazione dell’individuo né il benessere collettivo. La questione della sussistenza, anche se inaggirabile, non può eludere la necessità di porre al centro «gesti di sottrazione» dal lavoro e con ciò «porre all’ordine del giorno una discussione che è stata per troppo tempo rimandata».

Perché, si domanda Coin nell’esordio del volume, «lasciare il lavoro in un periodo di recessione nel quale – si dice – avere un lavoro è un privilegio?». Basandosi anche su una serie di interviste qualitative condotte sul campo, l’autrice nota che, diversamente da quanto è stato nelle epoche passate, oggi appaia strampalato «dimettersi», lasciare, quitting.

Eppure, scrive citando lo storico dell’economia Paul Douglas, «nel 1910, negli Usa i tassi di dimissioni erano altissimi e rappresentavano oltre il 70 per cento di tutte le cessazioni volontarie». Cosicché, «in assenza di meccanismi di promozione interna, il personale era incentivato ad andare in qualche altro stabilimento per migliorare la propria condizione». Dopodiché «gli studiosi concordano sul fatto che il cambiamento progressivo nelle politiche del lavoro e nelle condizioni salariali e di tutela sia stato la ragione per cui le dimissioni volontarie hanno avuto cali sostanziali nel corso del Novecento».

INSOMMA, welfare state, salari adeguati, forme di redistribuzione differita sono stati in grado di «fidelizzare» la manodopera. Oggi, questi strumenti di politica economica sono «in dismissione», in questo modo mettendo in discussione «i cardini stessi della stabilità occupazionale tipica del secolo scorso».

La crisi dei sistemi collettivi di assicurazione sociale come forma di garanzia del lavoro nella società fordista e nei modelli keynesiani di governance si accompagna al crollo, a mio modo di vedere definitivo, della società salariale.

Il fatto che la precarietà sia diventata la forma prevalente di organizzazione del lavoro contemporaneo è, insomma la chiave di volta per capire anche il fenomeno della «grandi dimissioni», almeno nel contesto italiano.

La «classe precaria» è infatti figlia di modificazioni sostanziali del paradigma produttivo, i cui effetti definiscono l’employment engagement con le imprese, cioè il tentativo di creare forme di coinvolgimento nei lavoratori, facendo leva su promesse, creazioni di immaginari e connessioni emotive con il lavoro.

Nel decennio scorso, sono stati analizzati processi come la «femminilizzazione del lavoro» e della «trappola della passione». Si tratta di precisi dispositivi di sfruttamento, che provano ad agire come sostituti simbolici di retribuzione e tutele, strutturati a partire da una trasformazione epocale del contesto in cui i lavori vengono ordinati e comandati.

L’impiego nei servizi, analizzato da Coin entro uno spettro assai ampio, dal terziario umile della grande distribuzione, della ristorazione e del turismo, fino al lavoro estremamente specializzato e professionalizzato del sistema sanitario, è specchio suggestivo di questo cambiamento. In tali contesti l’incidenza dei contratti a breve termine, il turn over contrattuale e il dumping sociale, è estremamente elevata, diversamente dal settore manifatturiero di matrice fordista dove il rapporto di lavoro dura di più e i contratti a tempo indeterminato sono più alti della media.

DUNQUE, vorrei sottolineare che è il paradigma odierno a determinare i sintomi di fronte ai quali ci troviamo. La labilità dei contratti e la svalorizzazione del lavoro, spiegano la tendenza a rifiutare, a non accettare il ricatto, a mollare. Poiché, in effetti, i precari di seconda generazione, sfiniti da inutile spreco di attenzione e di intelligenza emotiva, hanno imparato a «non crederci più» o, almeno, a «crederci meno».

Questa precisazione approfondisce il significato dell’anomalia italiana, su cui riflette Francesca Coin: c’è chi se ne va anche senza un’alternativa in mano. Il lavoro che viene abbandonato è, perciò, in massima parte già lavoro precario, instabile, povero, a termine, predisposto ad avvitarsi verso il basso dagli andamenti della «trappola della precarietà». Altro che successo, realizzazione, soldi facili. È già lavoro a termine, stagionale, destinato a essere dismesso, è lavoro in condizioni semischiavistiche.

SULL’ALTRO FRONTE, nel caso del settore sanitario, il vettore dell’immedesimazione, il professionalismo, il vincolo etico, sacrificale, «a fare il bene» che impregna molti mestieri connessi alla cura non bastano più a reggere burnout, stress lavorativo, conflitto tra lavoro e vita privata. La pandemia ha scoperchiato la situazione di forte crisi attraversata dalla sanità pubblica.

Proprio lo smantellamento del settore del welfare, connesso alla fine della società salariale, da un lato non consente più forme di garanzia collettiva, favorendo le dimissioni del precariato a più bassa qualificazione, dall’altro si ritorce sui lavoratori stessi del comparto dei servizi pubblici: il welfare diventato modo di produzione, tra profitti esorbitanti estratti dai brevetti e lavoro a ritmi forsennati, nuova catena di montaggio contemporanea con turni infiniti per mancanza di personale, è un luogo infernale da cui fuggire per salvarsi la vita.

Perciò, interrogarsi sul senso del lavoro e della vita, nella generalizzata assenza di misura del medesimo e mentre i confini tra il primo e la seconda scolorano, è fondamentale. È giusto notare che le donne siano oggi le più penalizzate dai processi di inclusione differenziale del neoliberismo e che siano anche le più disposte a scommettere sull’altrove e a ricominciare da capo. Come abbiamo sempre detto: il punto non è inglobare la differenza, il punto è trattenerla.

Le donne intervistate da Francesca Coin danno risposte appassionate su una tensione verso un modo di vivere che rispetti la libertà, quel concetto che sta alla radice dell’idea di società non soggiogata evocato all’inizio di queste note.

Per tale motivo, nelle conclusioni, le soluzioni per uscire da questo vortice non possono che essere difformi da tutto ciò che fino a qui è stato. Il salario minimo, certamente, è una misura necessaria, e lo è anche la critica alla cultura antisindacale che si è introdotta nella società. Dedicherei più enfasi all’ostracismo cui è stato condannato il conflitto per arrivare a dire che il cuore del problema del lavoro, oggi, è che il welfare state si presenta come strumento inadeguato agli obiettivi per cui è sorto. Da cui il disagio dello stare nel lavoro.

L’AUTRICE non si sofferma abbastanza sullo strumento del reddito di autodeterminazione. Gli attuali sistemi di sicurezza sociale offrono protezione per certi tipi di rischio ma nessuna tutela per altri. Il reddito di base è il modo per riportare al centro dell’agenda politica la questione dell’efficacia delle politiche pubbliche, se abbiamo a cuore la libertà non di pochi ma di tutti. Giustizia distributiva che declina la libertà come bene nella cui equa distribuzione consiste propriamente la giustizia.

Francesca Coin

«Liberare la vita dal lavoro è un’urgenza esistenziale»

Non «libertà formale», ma «libertà reale», come scrivono da tanto tempo Van Parijs e Vanderborght. Solo facendo forza su nuovi strumenti di welfare, si potrà ritrovare equilibrio nell’ineguale scambio attuale, e nella grave omissione del principio dell’universalità che è ciò che determina le regole tossiche e ricattatorie che vengono disertate. «Penitenziari industriali» che fabbricano schiavi e non «lavoratori liberi», scriveva Simone Weil nel suo tempo.

Quasi un secolo dopo, «liberare la vita dal lavoro è un’urgenza esistenziale», ribadisce Francesca Coin.

Perché si può già pretendere un salario minimo di 9€‎ l’ora

La Costituzione e il diritto Ue con la direttiva del 2022 permettono ai giudici di adeguare i compensi al “50% del salario medio” (cioè a circa 9 euro). I lavoratori lo sanno?

PIERGIOVANNI ALLEVA  11 SETTEMBRE 2023

Mentre è in corso con successo la raccolta di firme per l’approvazione del progetto di legge sul salario minimo legale, il dibattito pubblico sembra ignorare un punto fondamentale, forse sorprendente, ma giuridicamente del tutto giustificato: già oggi, e prima ancora che quella proposta divenga legge, potrebbe e dovrebbe essere accolta dai Tribunali la pretesa di ogni lavoratore di richiedere (con gli arretrati) un compenso orario di nove euro a correzione di eventuale minore importo percepito.

Occorre partire da un principio: che l’accordo individuale tra singolo datore di lavoro e singolo lavoratore sull’importo della retribuzione può – a tutela del lavoratore – essere corretto “verso l’alto” e sostituito da quello previsto da fonti o istanze regolative, quali il contratto collettivo, e, al di sopra di questo, dalla legge ordinaria. Nel nostro ordinamento però – e questo è una sua peculiarità – esiste anche una terza istanza regolativa, la più alta in grado, costituita dalla nostra Costituzione all’art. 36, la quale impone che la retribuzione sia sempre adeguata alla qualità e quantità del lavoro svolto e sufficiente per i bisogni del lavoratore e della famiglia. Nel concreto, però, l’adeguamento di retribuzione di cui il lavoratore lamenti l’insufficienza è rimesso al giudice del Lavoro, il quale, tuttavia, non applica, e non è tenuto ad applicarli, parametri predefiniti, ma interpreta lui stesso, secondo le sue convinzioni ed esperienza, quale debba essere il requisito della sufficienza con riguardo al caso concreto. Normalmente i giudici fanno riferimento ai contratti collettivi, ma quel che è essenziale notare è che non sono a ciò giuridicamente tenuti, proprio in quanto la norma costituzionale dell’art. 36 ha un rango più alto della contrattazione collettiva e della stessa legge ordinaria. Sicché è accaduto più volte (ad esempio con riguardo al contratto collettivo delle scuole private) che i giudici abbiano corretto verso l’alto le retribuzioni, pur essendo previste dal contratto collettivo.

La discrezionalità del giudice è, dunque, assai ampia allo stato attuale e ciò costituisce una sorta di “lama a doppio taglio”, perché è una discrezionalità che, se non ha un “tetto” verso l’alto, non ha neanche un “pavimento” verso il basso e non sono, infatti, mancate sentenze che hanno ritenuto adeguati salari miseri, con la motivazione, magari, che il lavoratore viveva in una arretrata città del Sud, invece che nella costosa e ricca Milano.

Proprio su questo però è intervenuta la direttiva europea 2041/2022. Ritengo infatti che il “pavimento” sotto il quale il giudice non può scendere ora esista e sia stato implicitamente introdotto – e reso quantificabile nei nove euro orari della proposta unitaria – là dove la direttiva indica (punto 28 della relazione introduttiva e soprattutto nell’art. 5, quarto comma, del suo dispositivo) la quantificazione idonea del salario minimo legale nella misura del “50% del salario medio” corrente nei singoli Stati europei. Perché questo importo è proprio di nove euro orari, come nella proposta unitaria? Perché il salario medio dei lavoratori full-time a tempo indeterminato in Italia è stato per l’anno 2022, secondo la tabella Uniemens redatta dall’Inps, di € 16,90 euro orari, e quindi la sua metà è, appunto, di € 9 euro con ragionevolissimo arrotondamento per l’inflazione dell’ultimo anno. Dunque, il “pavimento” retributivo è già oggi di € 9 orari.

Qualcuno potrebbe obiettare che, però, la direttiva europea non è stata ancora recepita in Italia, ma si tratterebbe di un tipo di obiezione infondata, già da tempo respinta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che fin dalla sentenza “Mangold” del 2005 ha stabilito che il giudice nazionale, essendo custode sia del diritto interno che del (sovraordinato) diritto dell’Unione, ha il dovere dell’“interpretazione conforme”, ossia di interpretare ed applicare il diritto interno alla luce delle previsioni di una Direttiva Ue, anche prima della sua “trasposizione” nell’ordinamento interno. Insomma, già oggi i circa 4 milioni di lavoratori che percepiscono meno di nove euro l’ora hanno il diritto di ottenere dal Tribunale del Lavoro non un aumento qualsiasi, ma un compenso (con arretrati) di almeno 9 euro orari.

Questo toglie importanza alla proposta di legge? Niente affatto: rende il principio più logico ed accettabile per tutti, compresi i suoi avversari. Una volta previsto in una norma positiva di legge, non sarebbe più necessario rivolgersi ai giudici, con procedura costosa e faticosa perché il recupero retributivo potrebbe avvenire in via amministrativa attraverso l’Ispettorato del lavoro e le sue “diffide accertative”.

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