PENSIAMO AL DOPO, QUANTO MAI MINACCIOSO da IL MANIFESTO
Pensiamo al dopo, quanto mai minaccioso
25 SETTEMBRE È GIÀ PASSATO. Sembra autoavverarsi quella infausta profezia che vede il PD destinato al suicidio, come già accadde per Veltroni e Renzi e non c’è molto da rallegrarsi anche tra chi, da tempo, ha deciso di non votare più per esso
Enzo Scandurra 16/09/2022
Molti e onesti compagni sono stati spiazzati, e ora smarriti, di fronte alla scelta di Letta di non fare accordi con Conte e di non aprire ad un’alleanza che comprendesse l’intero arco della sinistra frammentata. Una scelta incomprensibile tanto più rispetto a una legge elettorale infame che avrebbe dovuto obbligare le sinistre a fare fronte comune, almeno dal punto di vista elettorale, contro uno schieramento di destra che appare (anche se non lo è) compatto.
Ora Letta invoca il “voto utile” per non perdere indecorosamente. Ma questa volta la trappola non funziona, sia perché Conte appare capace e determinato di guidare lo schieramento M5S, sia perché a sinistra è nata la nuova formazione di Unione Popolare che si richiama a quei valori e a quelle classi da tempo abbandonate dal PD di Letta.
Unica giustificazione a sua difesa sarebbe la necessità di proseguire in quella fantomatica agenda Draghi e ricercare il consenso dell’establishment dei governi europei che non sanno più come uscire dal pantano della guerra in Ucraina se non continuando a fornire armi e prolungando la stessa guerra come vogliono gli USA e la Nato. Guerra che ha provocato almeno tanti danni ai suoi sostenitori quanto, se non più, delle sanzioni alla Russia.
Ma oltre la guerra ci sono altre e più ragioni per non condividere la politica del Pd di Letta. Un ripensamento di queste scelte scellerate non è più pensabile: la sconfitta appare certificata oltre che dai sondaggi dalla stessa disperazione con la quale Letta continua a fare appello a degli elettori delusi e rimasti fedeli ai valori della sinistra.
Sembra autoavverarsi quella infausta profezia che vede il PD destinato al suicidio, come già accadde per Veltroni e Renzi e non c’è molto da rallegrarsi anche tra chi, da tempo, ha deciso di non votare più per esso.
Eppure quel partito ha oltre a un glorioso passato, al suo interno uomini e donne sensibili alle questioni sociali ma le cui voci sono inascoltate e collocate ai margini.
Perché ormai è chiaro che il bacino elettorale forte del PD non è costituito dai diseredati e dalle classi sfruttate, quanto dal ceto urbano privilegiato e perfino dalle lobbies dei potentati che non sono interessati ad un cambiamento, che, anzi, temono e combattono perché mette in pericolo i privilegi acquisiti (a spese delle classi popolari).
Il voto “utile” sarebbe un voto a loro favore, aumentando le disuguaglianze e le sofferenze di chi ha ormai perso il treno delle magnifiche sorti e progressive. “Utile” lo è soprattutto perché confermerebbe le posizioni di privilegio acquisite e il mantenimento dello status quo.
Ma tutto questo è già successo; il 25 settembre appare ormai alle spalle perché al di là dei sondaggi tutto è quantomai prevedibile (lo ha capito le stesso Letta). Dunque occorre pensare al dopo, un dopo quantomai minaccioso per l’aggravarsi di tre questioni fondamentali: la guerra con i rischi di una sua estensione (fino alla minaccia nucleare), la pandemia che non ha mai smessi di mordere e, prima tra tutti, la crisi climatica i cui effetti appaiono ormai evidenti e oggettivi. Tutti temi che sono scomparsi dalle agende politiche dei partiti.
La crisi climatica e il conseguente riscaldamento del pianeta non è più solo una minaccia; gli effetti devastanti sul pianeta non lasciano più alcun dubbio che a rischio è la sopravvivenza stessa del vivente, umano e non. C’è una macabra ironia tra l’iniziativa che ha mandato in orbita (dicembre 2021) il più grande telescopio mai realizzato per scoprire le origini dell’universo e la minaccia di una estinzione della specie umana diventata, ad opera del capitalismo onnivoro, troppo aggressiva e arrogante per meritare (forse) di sopravvivere. E in questo si svela il vero carattere del capitalismo: nella distruzione della diversità per la sistematica tendenza a unificare ogni aspetto del reale sotto la categoria della merce e la misura del profitto.
Ma la vita è basata sulla diversità, senza diversità l’organismo muore, il pianeta muore.
L’autonomia regionale differenziata farà a pezzi l’Italia
UNITÀ. L’operazione «autonomia differenziata», in sostanza, sembra essere stata pensata più per avvantaggiare il ceto politico-amministrativo locale, con la scusa o la maschera della maggiore efficienza.
Pier Giorgio Ardeni 16/09/2022
Se c’è un tema che appare a chiare lettere nei programmi della destra, ma anche in quelli del Pd, è quello dell’autonomia regionale «differenziata». Fatto ancor più preoccupante. Perché con questa idea si dà legittimazione definitiva alla «secessione dei ricchi», com’è già stata definita.
La storia d’Italia dall’unità in poi è quella di un processo in cui alcuni Stati, da cui hanno poi preso forma le regioni attuali, hanno tratto più giovamento di altri. Nelle regioni del Nord lo sviluppo industriale prese piede grazie alla combinazione di disponibilità di materie prime, maggiore vicinanza ai mercati europei e un’imprenditoria spesso sostenuta dallo Stato. Il meridione, dove pure un’industria era presente, rimanendo poi in secondo piano, continuò a fungere per lungo tempo da «granaio» e «frutteto», con un’agricoltura arretrata e per lo più estensiva in cui la sovrabbondanza di manodopera trovò l’unico sbocco possibile nell’emigrazione. A nulla valsero i moti per le terre che agitarono il Sud in varie ondate fin dopo la Grande guerra.
Questo processo è continuato fino al secondo dopoguerra, allorché l’Italia si trovò a scegliere quale «sentiero di sviluppo» imboccare e scelse quello più conveniente alla sua élite economica del tempo: rafforzare lo sviluppo industriale nel Nord facendo leva su quell’esercito di manodopera disponibile al Sud, con il conseguente abbandono dell’agricoltura e dei territori al loro destino. Quando lo sviluppo raggiunse il suo «culmine» – continuando poi ad estendersi nelle altre regioni del Nord e in parte del Centro – verso la metà degli anni Settanta, erano già stati messi in opera giganteschi piani di «industrializzazione» forzosa del Meridione, grazie alla Cassa del Mezzogiorno che era però divenuta grande serbatoio di sovvenzioni e clientelismo per le élite locali, con esiti magri. Le riforme fondiarie e agrarie non avevano avuto il segno sperato di fornire un potenziale produttivo alla piccola azienda contadina familiare, con appezzamenti di ampiezza sufficiente, irrigazione, dotazione di macchinari e quant’altro. E così, dagli anni Ottanta a oggi, l’Italia è rimasta incardinata su quei due «binari» che nel tempo non hanno fatto che divaricarsi.
La storia d’Italia è la storia di un paese spezzato, ove la crepa, se non il baratro, tra le due parti non ha fatto che crescere. E se è vero che molte responsabilità le portano le classi dirigenti locali – che hanno favorito l’assistenzialismo puramente clientelare, facendosi carico di processi di sviluppo «dal basso» solo in alcuni casi, in un perverso estrattivismo che ha solo succhiato risorse senza ricadute in loco – è anche vero che per molti versi tale dualismo è stato funzionale allo sviluppo del Nord – manodopera anche istruita a basso costo, mercati a basso prezzo con delocalizzazioni nazionali e dumping – e a un blocco sociale, come si diceva un tempo, che è rimasto quello fino ai giorni nostri: borghesia economica al nord e borghesia impiegatizia al sud.
Di questo ce ne dimentichiamo, con il fastidio che si avverte nelle parole di chi reclama ora una maggiore autonomia per le regioni, che sia «differenziata», per materie. Il che è legittimo, certo, riconosciuto dalla Costituzione. Ma si chiede anche che tale autonomia sia basata sul principio che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato sui territori dove è prodotto, come fossero Stati indipendenti. Le regioni più ricche, così, godrebbero della loro maggior ricchezza, senza considerare che questa viene prodotta anche grazie a quei meccanismi di lungo corso descritti sopra.
Tuttavia, anche al di là di tale palese ingiustizia, che maschera un egoismo del campanile tanto gretto quanto preoccupante, si aprono domande che non trovano risposta: come possono le Regioni gestire il patrimonio infrastrutturale che riguarda il territorio nazionale nel suo complesso? E quello ambientale?
Nonostante la pandemia l’abbia ampiamente smentita, c’è dietro l’idea che le Regioni funzionino meglio dello Stato, cosa che è tutta da provare. Ma è certo che questo avvantaggerebbe amministratori e politici locali, dando loro ulteriori poteri e controllo. Si dice anche che su alcune competenze il decentramento amministrativo porterebbe vantaggi. Eppure, sappiamo bene quanto è stato dannoso decentrare competenze che sotto lo Stato funzionavano, mentre ora che sono alle Regioni, in talune aree, sono ben lontane. L’operazione «autonomia differenziata», in sostanza, sembra essere stata pensata più per avvantaggiare il ceto politico-amministrativo locale, con la scusa o la maschera della maggiore efficienza.
Povera Italia. I grillini avevano alzato la bandiera del Sud, con i loro proclami egalitari, sconfessando poi quanto promesso (cecità vuole che ora Conte ripeta quel refrain alle stesse masse immemori).
L’autonomia differenziata allargherà il baratro, facendo del Sud una volta per tutte il misero serbatoio del Nord – manodopera in cambio di mete turistiche – senza più identità se non quella di un grande parco divertimenti. E il Nord si sentirà più ricco, se non richiedere l’intervento dello Stato in ogni frangente in cui le sue risorse e capacità saranno inutili per gestire il territorio. Mentre il Paese si sfalderà, ora che le sfide globali chiamano ad una sola voce con il resto d’Europa e del mondo.
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