PD: LE RAGIONI DI UNA CRISI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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PD: LE RAGIONI DI UNA CRISI da IL MANIFESTO

Nella partita delle regionali non tutte le sconfitte sono uguali

REGIONALI. Dietro la candidatura di D’Amato c’è il potere della sanità, migliore di quello della Lombardia, ma fondato sull’intreccio tra la burocrazia delle grandi Asl e gli interessi privati

Antonio Zucaro  18/01/2023

Alcuni autorevoli sottoscrittori dell’Appello last minute per un accordo Pd-M5S alle elezioni nel Lazio, di fronte all’insuccesso dell’appello esprimono pubblicamente, anche su questo giornale, la tentazione di astenersi dal voto, attribuendo pari responsabilità ai due contendenti e considerando la partita persa comunque. La delusione e lo sconcerto sono più che comprensibili, ma la gravità della situazione esige un approfondimento dell’analisi degli avvenimenti accaduti e delle prospettive che abbiamo davanti, in Italia oltre che nel Lazio.

Le vicende del mancato accordo le ha qui descritte il 7 gennaio Stefano Fassina, che, come Fratoianni, ha cercato per mesi di renderlo possibile. Il fatto è che dietro l’indiscutibilità della candidatura di D’Amato – non a caso avanzata da Calenda – c’è il peso del sistema di potere della sanità nel Lazio, certo più efficiente di quello della Lombardia, ma anch’esso fondato sull’intreccio tra la burocrazia delle grandi Asl e i fortissimi interessi privati del settore. Così come dietro il megaincineritore di Santa Palomba c’è un Sindaco che si fa Commissario straordinario per poter superare il Piano regionale dei rifiuti e consentire agli apparati del Campidoglio di gestire insieme a grandi imprese private un affare da centinaia di milioni. Dimostrando che il Pd, anche nel Lazio, è soprattutto apparati di potere che distribuiscono appalti e concessioni riprendendo una non-politica del territorio fondata su cemento, automobile e “grandi opere”.

Anche per questo, nel Lazio tutti i sondaggi degli ultimi due anni hanno dato la destra vincente anche sulla coalizione Pd-M5S. Mentre in Lombardia, dove da decenni il Pd è fuori dal sistema di potere della Regione e della Sanità, riesce a prevalere l’originaria matrice progressista del partito, portando alla candidatura Maiorino e all’accordo con sinistra e M5S, con qualche chance di vittoria per la spaccatura della destra.

Invece nel Lazio, con la legge elettorale vigente, il massimo che si è riusciti a fare è una coalizione tra un Polo progressista, composto da forze di sinistra ed ecologiste, e il M5S. Con scarse chance di vittoria, ma la concreta possibilità di un risultato complessivo che veda il Presidente di destra privo della maggioranza in Consiglio regionale, come Zingaretti cinque anni fa. In tal caso, anche per le divisioni interne alla destra, si apriranno spazi di iniziativa e di manovra all’opposizione di sinistra su questioni importanti, a partire dall’autonomia differenziata.

Anche sul piano nazionale le prospettive sono abbastanza chiare. Un governo di destra a guida postfascista sta preparando una controriforma della Costituzione centrata sull’autoritarismo presidenzialista e sulla frantumazione dell’ordinamento giuridico ed economico-sociale indotta dall’autonomia differenziata, in parallelo ad un indirizzo neocorporativo che aumenta le disuguaglianze attaccando le condizioni di vita e di lavoro dei ceti popolari. Le elezioni del 25 settembre hanno dimostrato che il Pd del “ma anche” non convince l’elettorato perché sulle questioni fondamentali della guerra e dell’”agenda Draghi” in economia ha le stesse posizioni della destra, e su molte altre se ne discosta di poco. Perciò, anche un “campo” comunque allargato, se guidato da questo Pd o da uno simile, sulla linea del “ma anche” non ha alcuna possibilità di reggere un attacco che porta a compimento tendenze di lungo periodo, appoggiate dai grandi interessi privati e dai loro media.

L’alternativa è la costituzione di un fronte di difesa della Costituzione e di piena attuazione dei suoi principi, composto anche da forze del versante progressista del Pd, per come usciranno da questo Congresso. Per offrire rappresentanza agli ampi settori dell’elettorato popolare e di ceto medio che oggi si astengono dal voto, attraverso un programma radicalmente opposto a quello della destra, che ne sappia interpretare le esigenze ed i bisogni reali.

Per realizzare tale obiettivo occorre che questo fronte, il più ampio possibile, faccia perno su un polo progressista con le idee chiare e la capacità di comunicarle. E una buona affermazione del fronte progressista in Lombardia, nel Lazio e nel Friuli sarà un primo passo in questa direzione. In ogni caso, un fatto è certo: un elettore di sinistra che, nel Lazio o altrove, si astiene o vota liste sicuramente a perdere, è come se votasse a destra. Il punto centrale, qui ed ora, sta in questa considerazione oggettiva, che non può non prevalere sugli stati d’animo soggettivi, di delusione, sconcerto, rancore, per quanto comprensibili possano essere.

L’impietoso ritratto di un caso da manuale di secessione delle élites

L’INDAGINE. «Pd. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi» di Antonio Floridia, per Castelvecchi. Si tratta con ogni probabilità di un partito irriformabile, ma l’autore, cui capita d’essere un militante appassionato della sinistra, ci spera ancora e avanza qualche suggerimento

Alfio Mastropaolo  18/01/2023

È uno dei temi d’inizio millennio: la secessione delle élites, perpetrata dalle élites economiche e politiche, congiunte tra loro da intime e pervasive complicità. Le prime usano la politica per ottenere trattamenti di favore, aggirando la libera concorrenza, le seconde per salvaguardare la propria condizione di privilegio. È un processo complesso, tormentato da divergenze tra chi considera la secessione una soluzione necessaria ai problemi di governabilità e chi dubita dell’opportunità di prendere le distanze dai comuni mortali, per ragioni di giustizia, o per calcoli di convenienza.

IL FENOMENO è tutto da studiare. Ma intanto un pregevole contributo l’offre Antonio Floridia, il quale, dietro le apparenze di una riflessione dedicata alle vicissitudini del Partito democratico (Pd. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, pp. 240, euro 17,50), ha condotto un’indagine approfondita su un caso esemplare di secessione delle élites. Di cui tre sono gli ingredienti fondamentali.

Il primo è il patto di autodifesa tra i reduci di due illustri tradizioni politiche: quella comunista e quella democristiana. Questa seconda componente aveva alle sue spalle una drammatica sconfessione elettorale, da cui sono residuate le schegge di un ceto politico nient’affatto disposto a ritirarsi a vita privata. Una parte si è ritrovata nel Pd. L’altra componente ha un itinerario più complicato, perché non è stata sconfitta dagli elettori, ma si è sentita bocciata dalla storia, o dal collasso del Muro di Berlino. Dopo quasi mezzo secolo di conventio ad excludendum, una parte del ceto politico comunista ha pensato che un restyling radicale fosse la mossa più conveniente e si è messa in marcia verso il centro. Sta di fatto che le due componenti originarie sono rimaste divise e non ha rimediato il loro parziale rinnovamento, per ragioni anagrafiche. Confermando come il partito fosse frutto di un matrimonio di convenienza. Anzi: i nuovi venuti sono apparsi più accaniti nel rimarcare le loro diversità degli stessi soci fondatori.

IL SECONDO INGREDIENTE è l’offerta politica. Pensata per non scontentare nessuno. Per la componente ex-comunista l’urgenza era far dimenticare il proprio passato: niente tracce di comunismo, socialismo, classe operaia e classi popolari. Avrebbe dovuto avere meno complessi la componente ex-Dc, che si è invece liberata disinvoltamente del vigoroso interclassismo che aveva consentito dagli anni ’50 iniziative importanti quali il Piano Fanfani-Ina casa, l’istituzione dell’Eni e della Cassa per il Mezzogiorno e le Partecipazioni statali e altro ancora. Nell’ultima stagione, si sa, l’intervento pubblico era degenerato. Ma era forse riformabile, senza privare l’economia italiana di una colonna portante. Né postdemocristiano, né postcomunista (o postsocialdemocratico), il Pd è rimasto intrappolato in una scipita variante di Terza via, prona alle prescrizioni della Ue, ovvero dei paesi del nord Europa.

Il terzo ingrediente è il labirinto organizzativo. Architettato soprattutto dagli adepti del modello leaderista-plebiscitario contrapposto al modello proporzionalista-consociativo attribuito alla cosiddetta Prima Repubblica. Quando, a ben vedere, una dose di consociativismo è intrinseca ai regimi rappresentativi: solo se i partiti s’intendono e rispettano tra loro, e le maggioranze rinunciano a monopolizzare l’azione di governo, ma la condividono almeno in parte con le minoranze, tale regime ha qualche probabilità di resistere. Il labirinto organizzativo è stato invece congegnato in modo da privilegiare l’incoronazione del leader, da farne il padrone della linea politica (di fatto assediato dai ricatti correntizi), col modesto maquillage di qualche liturgia plebiscitaria, in cui entrano in gioco non solo gli iscritti, ma pure gli elettori: facili da manovrare dai media e forsanche dai partiti concorrenti.

Tracciato il suo documentato e impietoso ritratto, Floridia, s’interroga sui tentativi di aggiustamento. Non tutto il partito ha condiviso la secessione delle élites. C’è chi l’ha voluta e chi l’ha accettata non cogliendone le implicazioni, chi vi ha aderito sperando in un perfezionamento per strada. Dalla crisi della segreteria Veltroni in poi, il partito è stato tagliato in due tra chi la difendeva e chi provava a contrastarla. Tanto non ha impedito agli elettori di prendere la porta. In quattordici anni i 12 milioni di voti del 2008 si sono più che dimezzati. Sette volte è cambiato segretario, in maniera sempre convulsa. Ovvio concludere che il Pd è un partito sbagliato, come l’ha definito in un libro precedente lo stesso Floridia. Non un partito criminale, come ha ingenerosamente detto qualcuno, traendo spunto da alcuni episodi di malapolitica: ben più circoscritti di quelli verificatisi da altre parti dell’arco politico.

MA UN PARTITO con ogni probabilità irriformabile: il labirinto statutario non offre vie d’uscita e Enrico Letta non era l’uomo adatto per aprirne una di prepotenza. Floridia, cui capita d’essere un militante appassionato della sinistra, ci spera ancora e avanza qualche suggerimento. Ma la battaglia congressuale in corso è già incamminata lungo i binari consueti, mentre la base è troppo scoraggiata per autoconvocarsi. Non illudiamoci. Il tempo in cui le zucche si trasformavano in carrozze si è tristemente esaurito.

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