L’OSSIMORO DEL RIFORMISMO NEOLIBERISTA da IL MANIFESTO e SOCIALISMO ITALIANO
L’ossimoro del riformismo neoliberista
COMMENTI. Re-formatio ha chiaro il significato etimologico, quello del ritorno ad una forma originaria. Solo da due secoli «riforma» si lega a un’estensione della democrazia e dei diritti
Paolo Favilli 29/07/2023
Quando Tajani ha sostenuto che l’introduzione del salario minimo in Italia sarebbe stata una misura «sovietica», Calenda, ben a ragione, ha definito l’affermazione «una imbecillità». Mi permetterà colui che ha il pregio di esprimere ed esercitare con ammirevole chiarezza pratiche ed ideologie neoliberiste, di ritenere le sue considerazioni sul «riformismo» alla stregua di quelle di Tajani sul «sovietismo»?
Il fatto che tale uso del concetto di riformismo sia moneta corrente del mercato politico nel tempo della miseria della politica, non cambia la sostanza della questione.
A PARTIRE DAGLI ANNI Novanta le varie Cose ed il Pd sono stati tra i principali coniatori di quella moneta. La ragione è evidente. L’operazione in corso di inversione della direzione diventava più facile se si riusciva a mantenere un’area di ambiguità tra la nuova e reale prassi delle ri-forme come re-azione e la nobile tradizione del riformismo.
«Una democrazia vive se la parola è operante (…) la parola ingiusta non si confonde con la parola giusta», avvertiva Italo Calvino. Siamo nel 1977 e Calvino stabilisce un importante rapporto tra qualità della democrazia e parole che non confondono i significati, tra democrazia e qualità del discorso pubblico. Proprio il linguaggio, infatti, è spia essenziale di processi di mutamento che investono la società e la politica.
RE-FORMATIO ha chiarissimo il significato etimologico, quello del ritorno ad una forma originaria. Solo il processo storico ha legato, da più di due secoli, il termine riforma ad una prospettiva di ampliamento tendenziale della democrazia nelle sue forme non solo politiche, ma anche economico-sociali.
Alla vigilia della Rivoluzione francese si scontrano due progetti di ri-forma del sistema fiscale dello Stato, un sistema fiscale che è la risultante dei continui aggiustamenti conseguenti alle diverse fasi dell’assestamento assolutistico e che quindi non ha più la forma della fiscalità feudale. Lo scontro, durissimo, ha, dunque, come oggetto la direzione dell’ormai necessario mutamento di forma, della ri-forma appunto. E la durezza dello scontro fu direttamente proporzionale al fatto che non di scelta tra diverse tecniche finanziarie si trattava, bensì di scelte che implicavano un profondo mutamento di equilibrio rispetto allo status quo sociale. Insomma, la ri-forma veniva definendosi come l’esito di una fase della lotta di classe, un esito che finì per determinarne la direzione.
Due i termini dello scontro: a) scegliere una modernità che legasse la soluzione del deficit pubblico ad un forte e decisivo allargamento della platea dei soggetti fiscali (nobili e chiesa compresi), un allargamento che di fatto preludeva anche a necessari e profondi mutamenti politico-giuridici nel rapporto tra le classi; b) scegliere di ripristinare aspetti della fiscalità feudale ormai andati in disuso e quindi scaricare totalmente il problema del deficit pubblico sulle classi subalterne.
AMBEDUE LE SOLUZIONI possono essere considerate come cambiamenti in meglio per il deficit dello Stato. Dal punto di vista dei rapporti sociali è necessario, però, rispondere al quesito meglio per chi? La risposta che per più di duecento anni ha dato la storia è estremamente chiara: le ri-forme sono quelle proposte da Turgot. Per gli altri si usa il termine di re-azione. Come giudicare, infatti, il «riformismo» che inserisce nella Costituzione la teoria economica dominante e che abolisce l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? E si tratta solo della parte più visibile dell’incessante lavoro dei neoriformisti nel corso del grande balzo all’indietro.
Eppure, il campo dove la tradizione del riformismo inaugurata da Turgot può e deve operare è diventato immenso. Qualche giorno fa Fabio Mussi mi ha fatto notare la «grande rimozione».
IL BALZO ALL’INDIETRO nei «trenta ingloriosi» si è concretizzato nel trasferimento di 12 punti di Pil da salari e pensioni a rendite e profitti. Una sinistra che proponesse un progetto di lotta per riforme tendenti alla restituzione alle classi subalterne di quell’immenso surplus loro sottratto, sarebbe esemplificativa di un riformismo definibile davvero, per dirla ancora con Calvino, tramite «parola operante». Il riformismo dell’antitesi.
La costruzione/ricostruzione dell’antitesi si farà (e anche in ciò non c’è nessuna predeterminazione) solo attraverso un percorso non breve e assai accidentato. Un percorso che richiede un impegno costante senza alcuna attesa risolutiva straordinaria. Un atteggiamento «riformista», insomma. Un percorso che richiede la consapevolezza che in ogni istante può esserci la possibilità di una parziale rottura del tempo determinato. Un atteggiamento «rivoluzionario», insomma.
Un post di Alberto Benzoni |
Renato Costanzo Gatti – 22/01/2022
Come sempre stimolante Alberto imposta una riflessione che necessariamente parte da Livorno e arriva ai giorni nostri. Gli interventi si soffermano più che altro alle differenziazioni tra riformisti, massimalisti e comunisti, riandando alle posizioni di Serrati, dei comunisti, ma soprattutto di Nenni. Essi, tuttavia, non analizzano, a mio modo di vedere, i concreti contenuti delle diverse posizioni; la cui qualificante differenza consiste, come scrivo nei commenti al post:
“i veri protagonisti sul piano politico e ideologico del congresso di Livorno furono i comunisti scissionisti da un lato e i riformisti dall’altro, Ma l’alternativa fra riformismo (la pecora di Olof Palme) e riformatori (un nuovo modo di produrre che superi il capitalismo) è ancora tutta lì, intatta da dirimere”
Mi risponde Maurizio Giancola:
“vedo che riproponi una classica distinzione fra il termine “riformisti” e quello “riformatori”. Sulla frase attribuita a Palme mi sembra ci siano delle incertezze e comunque non ridurrei il riformismo solo al tosare la pecora, che comunque è già qualcosa che oggi, ad esempio, non si fa più. Il problema è oggi come in altri tempi quello di un modo di produrre che, come dici, superi il capitalismo Questo modo purtroppo non si vede neppure minimamente per cui il problema resta aperto e altro non so che dire.”
Ora l’esigenza di trovare un diverso modo di produrre nasce da una diversa impostazione filosofica che ci troviamo ad affrontare quando dobbiamo sciogliere i temi del “cosa produrre e come produrre”, quando cioè analizziamo i principi che presiedono il modo di produzione capitalistico rispetto al modo di produzione scientifico che definirò modo di produzione socialista.
Infatti, il modo di produzione capitalistico è guidato dalla ricerca del profitto, della valorizzazione del capitale per cui le scelte che esso opera sono conseguenza di quell’obiettivo, e non necessariamente le scelte fatte sono rispondenti ai bisogni della comunità o funzionali ai programmi che la collettività si è politicamente posti. La logica capitalista spinge le imprese ad offrire al consumatore i prodotti che danno maggior profitto non proponendo altri prodotti più utili alle esigenze del consumatore costretto a scegliere solo tra i prodotti proposti dal capitale.
Ricerchiamo invece un modo di produzione che non risponda alle logiche del profitto, ma che sia scientificamente finalizzato al soddisfacimento delle esigenze ed ai bisogni della comunità, senza, per ora, soffermarci al come individuarli. Quando parlo di modo socialista non penso necessariamente al socialismo reale realizzato nel secolo scorso rifiuto cioè “una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, penso che il mercato possa mantenere una funzione essenziale […] Ma sono convinto che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche […] non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di inoccupati, di emarginati, di sfruttati” (Enrico Berlinguer – Un’altra idea del mondo, p. 242).
Intendo quindi un modello che distingue beni e servizi indispensabili, individuati democraticamente, che vanno prodotti senza che il profitto sia condizionante (anche se l’economicità sia determinante) inquadrati in una programmazione nazionale ispirata al raggiungimento di obiettivi democraticamente scelti promuovendo la scienza nella ricerca delle tecnologie più avanzate nel processo di liberazione dal lavoro.
Ma il modello cui penso ha anche il merito di includere nella programmazione i cosiddetti “capitali pazienti”, che confliggono col shortismo del capitalismo, che sono alla base della ricerca generale e tecnologica, elemento discriminante nella divisione internazionale del lavoro.
Consapevole che l’innovazione tecnologica porta ad un minor apporto del lavoro vivo rispetto a quello morto, considero fondamentale una democratizzazione del processo di gestione del sovrappiù. Tale sovrappiù è oggi gestito dalla filosofia egemone del capitale senza che ci si renda conto che l’innovazione tecnologica: a) da un lato libera dal lavoro ceduto dai lavoratori al capitale per poter sopravvivere, b) è frutto della comunità che finanzia la scuola, la ricerca, i capitali pazienti, che finanzia con gli incentivi fiscali l’arretratezza del capitalismo nostrano che ancora ricerca il profitto tramite il basso costo della mano d’opera.
Inoltre, il modello cui penso esclude ogni spazio alla rendita, alla finanziarizzazione dell’economia che sta, al contrario, dilagando nel mondo occidentale negando anche il concetto costituzionale della repubblica “fondata sul lavoro”.
Basta una “redistribuzione” di stampo riformistico, peraltro sempre più in difficoltà e sempre più simile ad un provvedimento compensativo, a garantire un processo che combatta le disuguaglianze dilaganti nel modello egemonico attuale?
Il succo dell’alternativa tra riformismo e riformatori sta nella risposta a questa domanda.
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